25/09/17

POVERO MA NON TROPPO



POVERO

MA NON TROPPO

verso una ricca essenzialità
   
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Saggio

di

Eliseo Lagana

  
Copyright by Eliseo Laganà



puoi trovare  la più recente stesura de libro in forma cartacea in questo sito:
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     I ricchi hanno sempre governato il mondo. Oggi più che mai i sistemi democratici si confondono con il governo dei ricchi. E il governo dei ricchi ha adottato uno strumento di pericoloso sovvertimento dei valori delle democrazie: il denaro.
G. Rossi


INDICE

Introduzione

CAPITOLO PRIMO: RICCHEZZA E POVERTÀ
 
Oltre la comune visione della felicità - La povertà del ricco - La scenografia della ricchezza - Denaro e narcisismo – Ricerca della ricchezza come idiosincrasia caratteriale - I ricchi e l’approccio neoliberista - Perché i ricchi non si curano dei poveri

CAPITOLO SECONDO:POVERTÀ  E RICCHEZZA

L'uva è acerba - Felicità e acquisizione del superfluo - La vita semplice - La povertà positiva - Diverse relazioni tra ricchezza, povertà e felicità - Povertà relativa o posizionale - L’evoluzione degli approcci economici correnti.

CAPITOLO TERZO: LA FELICITÀ NELLA SOCIETÀ DEI CONSUMI

- La ricerca della felicità - Una società non felice – La felicità e gli uomini politici - La felicità tecnologica - La perduta felicità dei "selvaggi" - La felicità di noi “americani” - La felicità di chi paga le tasse - La felicità nel lavoro



CAPITOLO QUARTO: LA FELICITÀ TRA DESIDERIO E BISOGNI

- La felicità come ripetizione del piacere - La quiete dopo la soddisfazione di un bisogno - Il desiderio di dopamina - I bisogni naturali e/o fondamentali - I bisogni infantili - Identità e progettualità - Il “fondo” di noi stessi - Bisogno di ricchezza e di immagine come rimedio dell'inadeguato sentimento di sé - Bisogno del riconoscimento reale, oltre il successo e la ricchezza

CAPITOLO QUINTO: FELICITÀ RELAZIONALE ED ESISTENZIALE

Felicità come fecondità e relazione  - La felicità relazionale dei ricchi - Felicità come armonia relazionale - La felicità degli uomini intelligenti - La felicità nella ricerca di senso - La felicità dell’esistere - La felicità come serenità - La felicità secondo Epicuro – Riesame delle nostre finalità

CAPITOLO SESTO:ALLA RICERCA DI NUOVI PARADIGMI

Così come siamo - Le avanguardie di nuovi paradigmi - Il ridimensionamento della ricchezza: una proposta per una avanguardia di ricchi - Il percorso verso la conoscenza di sé: saggezza e semplicità - Semplicità e bellezza - L’approccio politico-sociale e la necessaria correlazione umana e ambientale –  L’aumento del Pil non apporta più benessere - Il mito della crescita - La ricchezza reale - Rischiare, via dalla logica di mercato – Bisogno e desiderio -  L’ozio creativo - Senza automobile - Gli acquisti inutili e velleitari di abbigliamento - Gli oggetti non necessari e il conformismo - Senza televisore - Le foreste e il consumo di carne - Il nuovo non è sempre un valore - Viaggiare in treno - Ospitalità e vacanze-lavoro - Semplicità nel matrimonio - La casa in campagna - Vita in comunità - Produzione e consumo nello stesso territorio - Ricchezza sociale e individuale  - La solidarietà tra i poveri -Diventare esseri umani - La ricerca continua

COROLLARIO:La povertà “estrema”: Gesù e San Francesco





 Introduzione

Possiamo trovare delle alternative alla crescita della produzione e dei consumi per trovare soddisfazione, in definitiva per essere felici? Ci sono enormi risorse di felicità umana che non vengono sfruttate.
Zygmunt Bauman

    Le persone, in generale, ricercano sicurezza, benessere, successo, status, e attribuiscono un valore positivo e primario ai beni materiali. Per molti la felicità si realizza attraverso tutto ciò che si può acquistare con un ottimo stipendio, o con i soldi in vario modo ottenuti. Nello stesso tempo i mass media continuamente presentano come valido e prioritario il valore della crescita, della produzione e dei consumi. Oggi sembra quindi essersi formato ed essere preminente in tutto il mondo una sorta di profondo accordo intorno all’ordinamento sociale basato su certi valori “fondamentali” che sono in fin dei conti quelli dell’avere. Molti sembrano aderire, quindi, al culto del denaro, a esso sacrificando la qualità dei rapporti e il vero benessere sociale e ambientale.   
    Il potere dei ricchi è basato, allora, non solo sulla loro intelligenza finanziaria e speculativa, ma anche sulla condivisa e diffusa importanza data ai soldi che da pratico e necessario mezzo di scambio di beni e servizi sono diventati uno strumento pericoloso di sovvertimento dei valori, di manipolazione delle coscienze; sono diventati un bene in sé.
    La situazione è, comunque, variegata. Studiosi indipendenti propongono politiche economiche e modelli di vita alternativi, e sempre più persone sembrano accorgersi che i mass media plasmano gli atteggiamenti e il pensiero dei popoli a favore del potere. Notiamo, infatti, e la storia ci insegna, che i valori preminenti in una data società sono sempre stati i valori sostenuti e presentati come verità evidenti e sacrosante dalle classi dominanti. Dalle quali ci si affranca, per quanto è possibile, non solo attraverso congrue azioni politiche e sociali ma anche e forse primariamente inventando e realizzando approcci esistenziali e di convivenza nuovi, fondamentalmente umani e apportatori di felicità, adottando nuovi valori verso la realtà sociale, il lavoro, il tempo libero, la ricchezza e la povertà.
    Soprattutto il concetto di povertà può essere riconsiderato, tenendo anche conto che nelle società occidentali la povertà è spesso non sostanziale ma posizionale o relativa mentre, invece, nei paesi sottosviluppati essa diviene miseria.
    In quanto alla ricchezza, possiamo riflettere soprattutto su ciò che veramente la costituisce. In realtà, insieme alle grandi ricchezze naturali, i campi, gli orti, gli alberi, i mari pescosi, eccetera, la vera ricchezza è creata da tutti coloro che producono e incrementano beni, servizi utili, idee positive, ricerca, collaborazione. I veri produttori di ricchezza sono, quindi, non coloro che stampano soldi e li amministrano, ma gli artigiani, i contadini, gli operai, gli educatori, gli scienziati, gli scrittori, gli artisti, i ricercatori, i custodi delle risorse naturali e umane, eccetera. Costoro hanno, però, poco o nessun potere rispetto a chi non crea e non produce ma sa ben gestire il danaro e compie grandi operazioni finanziarie e speculative.
    Occorre, quindi, che i veri produttori di ricchezza diventino profondamente consapevoli del loro valore, abbandonando, nello stesso tempo, la visione dell’uomo come fattore prevalentemente economico, per considerarlo un essere umano, umanamente e felicemente relazionale.  
    Occorre anche valutare con grande passione e serietà quale sia il nostro vero benessere, o felicità che dir si voglia. Ed è proprio la felicità, in fin dei conti, ciò che gli uomini in generale desiderano e perseguono.
    D’altra parte, se ci osserviamo, qui e adesso, ci rendiamo conto se siamo felici. La salute, la serenità, il lavoro vocazionale e non alienante, la soddisfazione dei bisogni naturali e necessari, e diversi altri fattori, come la solidarietà, l’amicizia, la convivialità, eccetera, sono importanti per la nostra felicità; e tali fattori possono essere ricercati anche all’interno di una vita semplice; che può rivelarsi nuova, libera, realizzatrice dell’essere e delle sue potenzialità.
    E se viviamo una vita propriamente umana e quindi non regolata dal denaro, se scopriamo il valore della nostra vera ricchezza, spirituale e materiale, possiamo fare a meno dal superfluo, e vivere una vita di ricca essenzialità.
  

CAPITOLO PRIMO

RICCHEZZA E POVERTÀ

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Oltre la comune visione della felicità



    V’è tra gli uomini la diffusa tendenza a stabilire rapporti di diseguaglianza politica, economica e sociale, e in ogni società gruppi minoritari si differenziano dalle masse in base al possesso esclusivo di privilegi. Si tratta molto spesso di ricchezze prodotte dal lavoro di molti o dal loro sfruttamento. Si possono quindi considerare certe ingenti fortune materiali come un'accumulazione di ricchezza all'interno di un rapporto impari a favore di una parte sociale e a discapito dell'altra. Ciò può avvenire a causa del potere o della furbizia, dell'intelligenza e dell'organizzazione di alcuni, che hanno buon gioco, quindi, sulla semplicità e sulla disorganizzazione di molti altri. Nel caso di rapporti tra individui all’interno del medesimo sistema sociale, l’accumulazione della ricchezza può attuarsi anche in modo legale, cioè nel rispetto di quelle leggi che sono espressione della volontà dei potenti, mentre nel rapporto tra i popoli ancor più prevale la forza finanziaria, economica e/o militare.
    Siamo di fronte, quindi, allo scenario mondiale, attuale e ben visibile, ove uomini sono strumento di altri uomini, ove la forza del potere, come anche quella intellettuale e tecnologica, e soprattutto quella finanziaria ed economica, avvantaggia taluni a scapito di altri. È senza dubbio vero, infatti, che la "storia è stata dominata in maniera di gran lunga prevalente, oltre che dai conflitti culminati nelle grandi guerre sterminatrici, dalla scarsa considerazione o all'estremo dalla più totale indifferenza dei ricchi verso i poveri, dei più forti verso i più deboli, dei potenti verso gli inermi" (Salvadori, 2003:127).
    E, tuttavia, pur vivendo in un mondo caratterizzato da enormi differenze di reddito, ci chiediamo quale possa essere la nostra più congrua azione, se e come sia possibile, cioè, operare per una società più giusta e più umana, forse cominciando a considerare i soldi e la ricchezza materiale secondo una prospettiva diversa da quella corrente.
    Ma ciò facendo, e magari cercando di vivere in modo semplice, non dovremmo sminuire, credo, il ruolo ed il valore delle persone benestanti che con il proprio onesto lavoro creano per sé, per le loro famiglie e per il prossimo, una condizione di giusto e condiviso benessere materiale. La ricchezza materiale in sé non è da disprezzare, quindi, se non è guadagnata attraverso lo sfruttamento del prossimo e se è usata umanamente e saggiamente per il bene comune e non per creare terribili diseguaglianze e sfruttamento.
    D’altra parte, coloro che con ogni mezzo accumulano ingenti fortune e non si curano della sofferenza degli umili, le persone che sono straricche, mentre più di un miliardo di esseri umani sono miseri e denutriti, coloro che amano il profitto a discapito di tutto e di tutti, non vanno demonizzati. Mi sembra più opportuno, invece, considerarli in generale e per certi versi come uomini che errano nella loro visione di ciò che li rende felici. In pratica vogliono e fanno di tutto per aggiungere sempre qualcosa a tutto ciò che già hanno e che in se stesso, pure se centuplicato, non è fonte di felicità, invece di cercarla dove realmente possono trovarla.  
    Non sembra esserci, d’altra parte, la diffusa consapevolezza o ricerca di ciò che può costituire il reale bene individuale e comune. Manca, quindi, e non solo tra i ricchi, una visione della correlazione delle parti all’interno di un tutto-uno che le contiene o le genera o semplicemente le caratterizza. In altre parole, i membri dei diversi gruppi sociali, soprattutto nei paesi industrializzati, sono accomunati da un’erronea visione della felicità, che intendono avulsa dal benessere del prossimo e della natura. E tuttavia i ricchi meritano una certa disistima, soprattutto se si fa riferimento a un fondato senso di giustizia, che va ricercata e realizzata, però, in modi più congrui che nel passato e non certo attraverso improbabili rivoluzioni.
    La migliore rivoluzione, invece, seppur la più difficile, è quella delle coscienze: è auspicabile che avvenga un profondo tentativo di comprensione del nostro mondo, di noi stessi, di ciò che costituisce il nostro vero benessere. Tale possibile rivoluzione può ben essere trasversale rispetto alle condizioni economiche e, in fin dei conti, anche i ricchi potrebbero trarne grande “profitto”.

La povertà del ricco

    Ma chi sono queste persone straricche, come pensano, pensano molto diversamente da noi, le conosciamo? Mentre cerchiamo di comprendere la nostra forma mentis e quella dei ricchi, potremmo considerare che chi pone grande valore nella ricchezza materiale è orientato, come scrive Schopenhauer, verso cose poste all’esterno, ha il baricentro fuori di sé. “Appunto per questo, egli ha voglie e caprici sempre mutevoli; (…) darà feste o farà viaggi, comunque sfoggerà un gran lusso; appunto perché cerca soddisfazione in cose di ogni genere dal di fuori; così come l’uomo indebolito spera di ottenere da consommées e da farmaci quella salute e quel vigore la cui vera fonte è la propria energia vitale” (Schopenhauer, 1994:57). In altre parole, “l’uomo che ha fatto propria la modalità dell’avere suole servirsi di una stampella anziché usare i piedi. Si serve di un oggetto situato all’esterno di sé per essere, per essere se stesso e qualcosa. È se stesso nella misura in cui ha questo qualcosa. Trae il proprio essere-soggetto dall’avere un oggetto. È posseduto dall’oggetto, dall’oggetto dell’avere” (E. Fromm, 2005:173). Secondo questa prospettiva, chi possiede molte e troppe cose è, dopo tutto, un povero essere. Si potrebbe anche dire che è povero chi desidera o possiede tante cose di cui non ha effettivo bisogno, ed è già ricco chi riconosce e valorizza l’essenzialità.

La scenografia della ricchezza

    In generale si crede che le persone ricche vivano più a lungo, siano più libere, si curino meglio in caso di malattia, abbiano migliore accesso ai beni e ai servizi, più tempo per istruirsi, per la musica, le arti e la cultura. Ma non è sempre così, e se facciamo attenzione, questi benefici, o taluni di essi, non derivano tanto dalla ricchezza in sé quanto da una situazione di ingiustizia sociale. Sono benefici che devono essere goduti da tutti, e che invece esistono per pochi in una società ove tutto è mercificato, ove la dignità umana non viene riconosciuta in sé ma si fa dipendere dai soldi. Piuttosto che valorizzare la ricchezza materiale occorre, quindi, riconoscere la dignità di ogni uomo, rendere accessibili a tutti un’adeguata e pronta assistenza sanitaria, la cultura, l’educazione, come anche riconoscere e dare priorità a ciò che è veramente necessario ed essenziale per una buona vita, e che non riguarda solo il campo materiale. E più si riconoscono e si realizzano i beni spirituali, più decade l’immaturo e socialmente dannoso desiderio di ricchezza materiale.
    Taluni ricchi, d’altra parte, possono essere essi stessi inconsapevoli della sofferenza causata da un sistema di rapporti caratterizzati dai soldi piuttosto che dalla solidarietà; un sistema entro il quale anch'essi sono infelicemente inseriti. Non sono rari, infatti, nel mondo dei ricchi, i casi di frustrazione, di mancanza di significato, di estrema solitudine e di anomia. E occorre anche considerare la situazione dei ricchi auto imprigionati in un ritmo di lavoro intenso e stressante. In altre parole, i valori creduti e propagati dai ricchi, oltre che causare sofferenza nei subordinati poveri, potrebbero non apportare felicità neanche a loro stessi.
    Un religioso, padre Pronzato, sottolinea un aspetto della pretesa felicità dei ricchi o di taluni di essi. Egli scrive: "Nella mentalità di parecchia gente, l'immagine del ricco è associata istintivamente a quella della gioia. Palazzi favolosi, macchine e barde strepitose, crociere, alberghi di gran lusso, i piaceri più vari e raffinati. E a tutto questo si dà il nome di felicità. Invece, sovente, non è che la maschera della felicità. Non è che la parodia della felicità. Sotto c'è un vuoto abissale, c'è la noia, c'è la tristezza più sconfinata. Sotto c'è un'anima avvilita, costretta a subire l'oltraggio di trovarsi soffocata dall'ingombro dell'avere, umiliata di vedere la crescita dell'essere impedita dalla preponderanza schiacciante dell'avere (A: Pronzato, 2003:110).
    Ci sarebbe quindi un elemento di finzione, di mera parvenza di felicità nell’ostentazione della ricchezza. Ma padre Pronzato non è l’unico a pensare in questo modo. In verità ogni persona che ha buon senso, esperienza della vita, e un briciolo di saggezza, sa bene cosa c’è o può realmente trovarsi dietro la facciata luccicante dell’apparenza. Anche il nostro già citato Schopenhauer, che è certamente un fine conoscitore degli uomini, scrive: “La maggior parte delle meraviglie del mondo sono mera apparenza, come delle scenografie teatrali cui non corrisponde alcuna realtà. Ad esempio, navi pavesate e inghirlandate, colpi di cannone, luminarie, rulli di tamburo e trombe, evviva e grida di giubilo; tutto questo è l’insegna, il preannuncio, il geroglifico della gioia; ma per lo più la gioia è assente; è la sola a non essere intervenuta alla festa. Quando vi si trova davvero, di norma è intervenuta senza invito e senza essersi fatta annunciare, di propria iniziativa (…), e invece, lo scopo di tutte quelle belle cose sopra elencate è di far credere che la gioia è presente: l’intenzione è di creare quell’apparenza nelle menti degli altri” (Schopenhauer, 1994:143).

Denaro e narcisismo

    Il narcisismo è una sindrome molto diffusa che sembra manifestarsi maggiormente e più visibilmente negli uomini ricchi e famosi a causa della loro condizione e della loro accresciuta visibilità. Fortemente radicato nella società, il narcisismo si presenta, quindi, come una forma di inquinamento della psiche collettiva, nutrita continuamente, anche attraverso i mass media, da valori e da esempi deleteri.
    L’individuo narcisista ha un grande bisogno di sentirsi vivo, e anche di distinguersi, attraverso l’immediata apparenza e spesso quindi attraverso i segni esteriori della ricchezza materiale, sia essa reale o ostentata. Si tratta, com’è evidente, di un bisogno lontano o contrario alla possibilità di un’evoluzione della coscienza, la quale può attuarsi solo attraverso forme di vita creativa e consapevole. Ecco di fronte a noi, quindi, il tipico uomo narcisista, bisognoso di ben apparire per compensare una profonda insicurezza di sé, e per questo sempre alla ricerca di conferma, vulnerabile alle critiche, e nello stesso tempo spesso arrogante e presuntuoso, fondamentalmente e interiormente non libero perché dipendente dall’altrui approvazione e ammirazione. Il narcisismo estremo ha poi come corollario il cinismo, la manipolazione delle situazioni e delle cose e, fondamentalmente, l’incapacità di amare il prossimo.
    Erich Fromm scrive che "nello sviluppo umano il narcisismo è il problema cruciale, e tutte le dottrine dell'umanità, come il buddismo, quella dei profeti ebrei, dei cristiani e degli umanisti concordano sul fatto che superare il narcisismo è fondamentale, è l'inizio di ogni forma di amore e di fratellanza. Finché sono narcisisti, gli individui restano estranei e nemici, incapaci di comprendere gli altri" (1996: 178). Secondo Erich Fromm è narcisista, appunto, colui che non riesce a veder la realtà oltre i suoi stessi pensieri, le sue verità, le sue impressioni, le sue reazioni ed il suo potere. Le cose e i fatti sono importanti perché e in quanto si riferiscono a lui stesso, e ciò che dice è importante perché è lui a dirlo.
    Non occorre essere ricchi per essere narcisisti. D’altra parte, però, è forse vero che il danaro dà agli uomini una maggiore opportunità di essere incentrati su se stessi, di sentirsi forti per mezzo del controllo del prossimo e delle situazioni secondo il proprio interesse e le proprie idee.
    La ricchezza perderebbe per taluni parte del suo fascino, infatti, se fosse del tutto libera da un sentimento narcisistico forte, gratificato e "felice". L’uomo ricco si mostra come immagine forte riconosciuta e riconfermata dagli altri. Ma al di fuori di quest'immagine potrebbe anche non ritrovarsi e riconoscersi. In fin dei conti potrebbe trattarsi di un uomo umanamente debole che non ha avuto il tempo o la capacità di realizzare il suo più profondo ubi consistam e ha bisogno di conferma, e allora lotta per la ricchezza e il potere, si rivolge fuori, al mondo esterno da controllare e dirigere. Ma si tratta di una lotta del tutto incongrua e inutile rispetto a un reale benessere che può essere raggiunto con altri mezzi sani e meno dispendiosi di energia, liberi da conflitto e da stress.
    Si consideri, per esempio, che a parte la gratificazione dell’io, molti dei benefici che si traggono dai soldi sono inutili, non aggiungono nulla all’umanità e alla evoluzione di un uomo, e certamente non giustificano le lotte che per essi vengono combattute. Si confronti a tal proposito la vita di un riccone intento, anche con duro lavoro, a mantenere e consolidare la propria ricchezza, con la vita di un individuo che ha il tempo e la possibilità di dedicarsi ai suoi interessi e alle sue passioni. La qualità della  vita di un benestante uomo comune occidentale, non è da meno e può superare quella di un grande e indaffarato ricco capitalista. Anzi, spesso l'ago della bilancia della qualità della vita si sposta a favore di chi ha più tempo libero ed è anche libero dalla stressante necessità di affermare la propria identità narcisista attraverso la ricchezza.
    Esiste inoltre chi è in grado di realizzare uno stato di pienezza di vita che ha poco rapporto anche con l'agiatezza economica. Infatti, un uomo di condizione modesta ma colto, intelligente e sensibile, che vive in un ambiente sano e ricco di rapporti gratificanti, può apprezzare profondamente la vita e goderne. I poeti, i santi, i filosofi, gli artigiani creativi, gli artisti, i musicisti, coloro che si dedicano a un lavoro e agli altri con amore e passione, possono trarre gratificazione più dalla loro attività che dal narcisismo o dal possesso di grandi beni. Anche coloro che in qualsiasi condizione di vita semplice sono intimamente soddisfatti e sereni possono permettersi di non dipendere troppo dall’approvazione o ammirazione altrui. Certo, queste persone sono rare ma esistono e costituiscono l'eccezione che potrebbe far riflettere sulla validità degli atteggiamenti comuni verso la ricchezza. Si tratta di conformazioni psicologiche diverse; l'una è quella che si appaga nel rapporto ove controlla, ove viene riconosciuta come potente e ricca; l'altra è quella che si appaga nell'interiorità,  con la creazione, il lavoro vocazionale e i rapporti armoniosi.

Ricerca della ricchezza come idiosincrasia caratteriale

Proprio la ricerca di sicurezza del domani mi rende oggi così insicuro.
D. Bonhoeffer
   
    D’altra parte, se è pur necessario e teoricamente facile considerare il valore dell’interiorità, la vita quotidiana con le sue esigenze e preoccupazioni, potrebbe distrarre e indirizzare la nostra attenzione sulla materialità, soprattutto se nello stesso tempo realizziamo, praticamente, di avere bisogno di soldi. E questo bisogno causa, molto spesso, un vero disagio psicologico. Una causa molto diffusa di preoccupazione è, infatti, il timore per la nostra sicurezza materiale.
    Potremmo essere poveri e vivere dignitosamente e nello stesso tempo potremmo aver paura di diventare miseri. Oppure, se siamo benestanti, potremmo temere di diventare poveri, e arriviamo a immaginare lo stato di povertà come una catastrofe. Talvolta, anche le persone più ricche hanno forti preoccupazioni economiche; il loro grande legame emotivo con i soldi può generare, infatti, la paura di perderli, il pensiero della possibilità di un disastro finanziario, di una rivoluzione o altro.
    La sicurezza del ricco o, sarebbe forse meglio dire, la sua soggettiva percezione di sicurezza, dipende dalle cose possedute. Si tratta, quindi, più che altro, di un particolare approccio esistenziale che può essere vagliato e riconsiderato alla luce di altre prospettive. Potrebbe, per esempio, essere giusto e opportuno affermare, parafrasando Dietrich Bonhoeffer, che i beni danno solo il miraggio della sicurezza, la quale, invece, si trova altrove; nella conformazione psichica di un uomo, nella sua capacità di amicizia, nella solidarietà, nel suo rapporto sereno armonioso e intelligente con il prossimo e con il mondo. Soffermiamoci brevemente sulle parole del suddetto pensatore: “Non affannatevi! I beni danno al cuore umano il miraggio della sicurezza e dell’assenza di affanni. Il cuore che si attacca ai beni riceve insieme con essi il peso soffocante dell’affanno. L’affanno procura tesori, e a loro volta i tesori procurano l’affanno. Vogliamo garantire la nostra vita per mezzo dei beni, vogliamo liberarci dall’affanno per mezzo dell’affanno, ma in realtà ne risulta il contrario. Le catene, che ci vincolano ai beni, sono per se stesse un affanno” (Bonhoeffer, 2004:165).
    Il ricco potrebbe riflettere, quindi, se fosse possibile, sulla natura e sulla validità del legame che esiste in lui tra sicurezza psicologica e ricchezza materiale: si dà il caso, infatti, che uno crede di poter essere sicuro e sereno attraverso il possesso della ricchezza ma, in realtà, se fosse libero da certe sue basilari insicurezze e paure profonde non impiegherebbe tempo ed energia a costituirsi tesori. Potrebbe vivere bene e serenamente con un reddito medio o modesto. Invece, l’insicurezza, o l’affanno, come direbbe Bonhoeffer, lo costringe a ricercare la ricchezza. E il ricco potrebbe anche riflettere intorno a ciò che è veramente importante per lui. In altre parole, se alcuni fatti fuori dal suo personale controllo, come guerre, rivoluzioni, fallimenti, terremoti, furti, eccetera, lo privassero della sua ricchezza materiale, rimarrebbe egli necessariamente anche privo delle cose fondamentali? E quali dei suoi bisogni e dei suoi desideri veramente importanti e irrinunciabili rimarrebbero insoddisfatti qualora divenisse improvvisamente povero? Il ricco crede, ed è anche diffusa opinione, anzi fede, che la ricchezza materiale apra le porte alla soddisfazione di tutti o gran parte dei bisogni e dei desideri umani. Ma di quali bisogni e desideri si tratta? Molto spesso di bisogni artificiali e indotti. Secondo una diversa prospettiva, invece, il diffuso legame tra sicurezza e ricchezza materiale diventa più debole o scompare del tutto. L’insicurezza può avere la sua origine ed esistenza indipendentemente dal possesso di grandi ricchezze; è uno stato d’animo causato da fattori psicologici cui si lega un’erronea concezione di ciò che costituisce il nostro vero benessere. Individuati i nostri veri bisogni, ci rendiamo conto, quindi, che possono ben essere soddisfatti con mezzi anche modesti e alcuni di essi, anche molto importanti, pur fuori da un territorio economico e materiale.
    Le paure e le preoccupazioni dell’uomo ricco potrebbero semplicemente essere superate, quindi, oltre che attraverso la riconsiderazione e la valorizzazione dei suoi veri bisogni, anche dalla conoscenza e dalla realizzazione del senso più profondo e importante della sua vita. E se fa ciò, egli si rasserena; il suo cuore trova luogo ameno in se stesso si libera dal suo legame con le cose esterne.

I ricchi e l’approccio neoliberista

    Resta pur vero che senza l’apporto di una dose massiccia di stupidità da parte dei governanti, dei politici, e di una porzione non piccola di tutti noi, le teorie economiche neoliberali non avrebbero mai potuto affermarsi nella misura sconsiderata che abbiamo sott’occhio.
Luciano Gallino

    Leggiamo nell’edizione online de Il Fatto del 21 giugno 2012 che “Un gruppo di gaudenti russi, categoria della peggiore specie di nouveaux riches, seduti al ristorante del Nikki Beach a St Tropez, paga un conto dell’esorbitante cifra di 107.524 euro. Sono in sedici e consumano, tra l’altro, una bottiglia Mathusalem di Dom Perignon Rosé da nove litri, prezzo di listino 50mila euro, e due bottiglie Jeroboam sempre di bollicine Dom Perignon, da 6 litri per 40mila euro. Siamo ritornati ai tempi del basso impero, i servi della gleba da un lato e dall’altro la casta degli ‘intoccabili’, nel senso di non toccategli le loro ricchezze”.
    Mentre questo e simili episodi hanno luogo, aumenta il numero dei nuovi poveri; molti perdono il lavoro e si attua nello stesso tempo una progressiva erosione dei diritti dei lavoratori, aumenta il precariato, diminuisce il loro potere d’acquisto degli stipendi e delle pensioni. Nel frattempo si prevede l’aumento delle privatizzazioni, che sono, in effetti, la cessione a buon prezzo di beni e servizi pubblici a ricchi investitori internazionali. Il potere finanziario concentrato in pochi individui regola la destinazione e l’uso della vera ricchezza. Questo nuovo potere della finanza e degli speculatori regna adesso sovrano e anche gli stati finiscono per dipendere in toto da esso. Sembra, anzi, che gli uomini politici debbano sempre più rispondere a super-lobby di speculatori coadiuvati da tecnocrati, che insieme ridisegnano le leggi a proprio favore e contro lo stato sociale. Succede, cioè, come afferma Luciano Gallino, che “il pensiero neoliberale ha scatenato un’offensiva che ha messo sotto attacco le idee e le politiche di uguaglianza. Un apparato di super ricchi e potenti ha imposto il proprio dominio su finanza, società e media” (Gallino, 2012:121). Esiste, quindi, una categoria di capaci finanzieri, speculatori e rentier che godono di immense fortune parassitarie senza produrre nulla.
    Mi rendo conto che questa sopraesposta visione potrebbe apparire congrua ai lettori nuovi poveri e parziale all’eventuale lettore che accetta o promuove politiche neoliberiste. Tuttavia, diversi ed eminenti autori ed economisti hanno una visione più variegata o contraria rispetto a quella neoliberista favorita e promossa dai mass media. L’approccio neoliberista, che ha avuto un grande impulso negli anni settanta attraverso l’azione  politica di Margaret Thatcher e Ronald Reagan, propugna la liberalizzazione dell’economia da ogni ingerenza dello stato e, quindi, la privatizzazione dei servizi pubblici, l’eliminazione delle barriere doganali, la libera circolazione dei capitali. Secondo i sostenitori del neoliberalismo la libertà del mercato e dei finanzieri stimolerebbe la crescita economica e il benessere generale. Succede, invece, che senza il controllo operato da uno stato democratico eletto e sorretto anche dai poveri, il potere del mercato e dei ricchi è privo di qualsiasi argine.
    D’altra parte, il pensiero economico alternativo al neoliberismo, sostenuto da diverse avanguardie, non può da solo presentare la soluzione delle nostre questioni di convivenza. Occorre anche, e soprattutto, una profonda riflessione morale. Mi rendo conto, d’altra parte, che è tanto facile predicare quanto è facile rimanere inascoltati: le prediche morali non hanno mai cambiato, sembra, il corso della storia. E tuttavia possiamo porci la semplice domanda: perché esiste ed è normalmente accettata la povertà di miliardi di esseri umani e la concomitante sterminata ricchezza di pochi? Indipendentemente dalla nostra visione del mondo e dei rapporti, la visione della povertà si presenta dinanzi ai nostri occhi.
    E allora, la nostra comune riflessione sui di noi e sui fatti sociali non può prescindere dalla questione morale.

Perché i ricchi non si curano dei poveri
    
    790 milioni di persone vivono nel mondo al limite della sussistenza; un miliardo e trecento milioni vivono con meno di un dollaro al giorno. Ogni anno 36 milioni di persone, la maggioranza bambini, muoiono di fame. Secondo le stime delle Nazioni Unite, il soddisfacimento universale dei bisogni sanitari e nutrizionali dei poveri costerebbe 13 miliardi di dollari, all’incirca quanto gli abitanti degli Stati Uniti e dell’Unione Europea spendono ogni anno in profumi. Le tre persone più ricche del mondo hanno un reddito superiore al prodotto interno lordo dei 48 paesi più poveri. Il reddito complessivo dei 25 milioni di americani più ricchi è pari al reddito dei due miliardi di persone più povere del mondo. Ma anche nei paesi occidentali i ricchi diventano sempre più ricchi e aumenta la povertà e la disoccupazione. Per esempio, solo in Italia si costata che il governo ha attuato (2012) misure a svantaggio dei pensionati e dei poveri, salvaguardando i grandi patrimoni, le pensioni d’oro e gli stipendi dei politici. E nello stesso tempo le esorbitanti disparità di reddito non sono oggetto di profondo dibattito pubblico; i giornali e le televisioni non ne parlano e gli uomini politici in generale se ne disinteressano.
    Perché, quindi, i ricchi non si curano dei poveri? Se donassero anche una parte della loro ricchezza, pur restando ricchi, risolverebbero il problema della povertà nel mondo. Scrive a proposito Luciano Gallino: “In effetti, impiegando capitali nell’insieme modesti rispetto a quelli utilizzati per altri scopi, dalla produzione delle armi alla speculazione finanziaria, in pochi anni si potrebbero sconfiggere - lo dice l’Onu, lo dice perfino la Banca mondiale - sia la povertà estrema sia la fame nel mondo” (Gallino, 2012:187).
    Piuttosto che realizzare il potenziale della loro umanità nella fratellanza umana, i ricchi sono posseduti dal patrimonio. All’interno di contesti entro i quali si rifugiano, negli ambienti chiusi entro le mura di grandi ville protette da guardie e sistemi antifurto, essi ignorano la situazione di povertà esistente oltre i loro recinti, o non riescono neanche a immaginare la sofferenza del misero.
    La mancata considerazione dei poveri da parte dei ricchi avviene anche perché, in realtà, il ricco rimuove da sé una condizione umana antica e paventata ma che permane in gran misura nel mondo. Fuori dalle strade del potere e dei soldi, l’uomo incontra la propria insicurezza, o la sua originaria nudità esistenziale. Il povero vive, incarna e manifesta, quindi, l’insicurezza esistenziale da cui il ricco fugge via ignorandola. E per taluni una certa intima insicurezza permane anche nel benessere, talvolta mascherata da finzione, da superficialità, da varie corazzature dell’io. Il desiderio di accumulare beni ha senza dubbio la sua radice anche in paure primordiali e forse ancora radicate nell’animo umano, come l’antica paura di carestie e di fame. Soprattutto il culto dei soldi è motivato, quindi, da insicurezza, da una fondamentale mancanza di fiducia nel prossimo e nella vita. Se non v'è solidarietà, se gli uomini non realizzano di essere componenti di una grande famiglia umana, allora nascono negli individui insicurezza e paura; paura di esser succubi degli altri e degli eventi, paura di diventare poveri e, di conseguenza, più deboli nei rapporti. In un ambiente in cui non si può fare affidamento sulla qualità dei rapporti umani e sulla condivisione, chi è ricco si difende meglio dall'insicurezza interiore e relazionale, e ha meno bisogno degli altri, della loro solidarietà, costruisce difese, mondi chiusi e protetti. In realtà, quindi, se ben consideriamo, lo stesso "paradiso" della ricchezza, protetto da guardie del corpo e da porte blindate, può rivelarsi non altro che un rivestimento della nudità, non altro che la decorazione costosa di un essere umano pauroso, infelice, insicuro e conflittuale.
    Il ricco allontana da sé, quindi, questa reale e in altri manifesta condizione di nudità attraverso le cose possedute e consumate: “L’uomo consuma perché vuole rimuovere la povertà che è nel suo essere-reale; ignora l’indigenza nel mondo perché nega e si distanzia da una parte oscena di sé che non vuole vedere e ammettere” (E. Bazzanella in Galbraith, 2011:30). La visione del misero è ignorata, le risorse non vengono condivise, anzi il povero viene sfruttato e consumato, insieme alla terra di cui fa parte, e di cui fanno parte anche i ricchi.
    Molto probabilmente l‘eventuale lettore ricco non si riconoscerà in queste mie idee e descrizioni e le reputerà parziali e ingiuste. V’è, senza dubbio, una determinazione sociale della conoscenza che avviene, quindi, dal punto di vista della situazione materiale in cui si trova un osservatore. E tuttavia, la mia visione della ricchezza potrebbe essere confermata dai saggi di tutti i tempi. Invece, le idee portate avanti dal ricco per giustificare il suo stato e per non occuparsi del povero, sono prive di fondamento, di compassione e di saggezza. Perché tu che hai tanti soldi e potere non ti prendi cura del tuo prossimo che soffre? Non esiste una risposta umana, logica e giusta, che tu uomo ricco possa dare. 
    Una delle risposte più comuni data dal ricco per giustificare il suo stato è che la miseria dei poveri è colpa dei poveri, che sarebbero pigri, corrotti, privi di iniziativa economica e si riproducono troppo velocemente. E questo ultimo punto è vero, se si considera l’età media degli africani e degli indiani poveri e la si confronta con quella di un’Europa invecchiata. Già nel lontano 1830 David Ricardo, un agente di borsa, e Thomas Herbert Malthus, un pastore protestante, affermavano che “la miseria dei poveri è colpa dei poveri, e lo è perché è prodotta dalla loro eccessiva fecondità (…) al limite massimo della sussistenza disponibile” (J. K. Galbraith, 2011:34).
    Un’altra comune e altrettanto cinica giustificazione data alla mancanza di aiuto ai poveri è quella che ricalca una dottrina già diffusa negli Stati Uniti a metà del XIX secolo. “La nuova dottrina, associata al nome di Herbert Spencer, era il Darwinismo Sociale. Nella vita economica, come nello sviluppo biologico, la regola predominante è la sopravvivenza del più adatto. Questa frase – sopravvivenza del più adatto – deriva nei fatti non da Charles Darwin ma da Spencer, ed esprimeva la sua visione della vita economica; e secondo lui, l’eliminazione dei poveri è il modo della natura di migliorare la razza. Una volta che i deboli e i disgraziati siano stati estromessi, la qualità della famiglia umana ne esce rafforzata. Uno dei più illustri portavoce del darwinismo sociale fu John D. Rockefeller che disse in un famoso discorso: la rosa American Beauty può essere prodotta nel suo splendore e con la fragranza che allieta chi la osserva solo sacrificando i germogli precoci che le crescono attorno. E così è anche nella vita economica: si tratta semplicemente del compimento di una legge di natura e di una legge di Dio” (J. K Galbraith, 2011:35).
    D’altra parte, e secondo alcune persone ricche con cui ho avuto modo di scambiare alcune idee sull’argomento, ogni forma di concreta e prolungata assistenza sociale sarebbe dannosa per la società e per gli stessi poveri. E, quindi, “non è opportuno che persone ricche, perché attive e produttive, mantengano persone pigre e dipendenti”. L’aiuto ai poveri non favorirebbe in loro, inoltre, una scelta di vita responsabile e indipendente. Ma contro questo approccio si potrebbe obiettare che i poveri non hanno precipuamente bisogno di beneficenza ma di vivere in un mondo giusto, ove sia garantita a tutti la possibilità di sostenersi e lavorare senza essere sfruttati e asserviti. La beneficenza commiserevole dei ricchi verso i poveri è, infatti, spesso solo il corollario di un sistema di rapporti sociali ingiusti: si sfrutta un popolo, un territorio attraverso predatori interventi imprenditoriali e finanziari e poi si fanno feste, concerti, eccetera, raccogliendo fondi per gli impoveriti.   
    Un altro motivo dato dai ricchi per non prendersi cura dei poveri, sempre in sintonia con un cinico darwinismo sociale, è quello di una malintesa idea di libertà. In un regime “democratico” e quindi di libero mercato, le cose e le prestazioni sono valutate secondo la legge della domanda e dell’offerta, e perciò va bene ed è normale che un professionista molto bravo riceva una somma favolosa da un poveretto che ha bisogno dei suoi servizi; va bene ed è normale se un consulente, un uomo politico, eccetera, riesca a vendere le sue prestazioni per una grossa cifra finché c’è qualcuno che la esborsa.
    Va quindi vista secondo una prospettiva più ampia l’originaria domanda: perché i ricchi non si prendono cura dei poveri? Non se ne prendono cura perché li hanno rimossi e li hanno rimossi perché la loro condizione di ricchezza è già in origine basata sull’ingiustizia, sullo sfruttamento del prossimo e del pianeta. È ingiusto, per fare un esempio che riguarda l’Italia, che un ex direttore esecutivo riceva una pensione di 90 mila euro al mese, e altri ne riceva una di 500-1000. Il motivo per cui tale pensionato d’oro non si cura del povero è lo stesso motivo che lo ha spinto a lottare, fare carriera pensando prevalentemente a se stesso e non al bene e all’equità della società per cui avrebbe dovuto lavorare. Se i ricchi, invece, fossero ben tassati, e se i politici e i direttori esecutivi delle grandi società ricevessero uno stipendio o una pensione equa e non esorbitante, rimarrebbe sempre per loro una gran misura di libertà personale. Come giustamente afferma J.K. Galbraith, “Per quanto si senta molto parlare della limitazione della libertà dei ricchi quando le loro entrate vengono ridotte dalle tasse, nessuno parla dello straordinario accrescimento della libertà dei poveri che deriverebbe dall’avere del proprio danaro da spendere. Quindi la perdita di libertà dei ricchi con le tasse è poca cosa se comparata alla libertà guadagnata provvedendo a qualche tipo di entrata agli indigenti. Noi giustamente amiamo e proteggiamo la libertà, e dunque non dovremmo usarla come copertura per negare libertà ai bisognosi” (J.K. Gabraith, 2011:39).
    Ma insieme a una malintesa idea di libertà, il più grande motivo per cui alcuni uomini non esitano ad arricchirsi con ogni mezzo, non curandosi dei poveri, è la mancanza di compassione umana, mancanza che non tiene conto della reale e profonda interdipendenza degli uomini e degli eventi. Ed è proprio la compassione, il rendersi partecipi della sofferenza e dei sentimenti degli altri, ciò che rende un uomo veramente umano e parte di un’umanità indivisa. Come afferma il famoso studioso: “La compassione, con associato pubblico sforzo, è il comportamento meno conveniente di questi tempi. Ma rimane l’unico compatibile con una vita completamente civilizzata” (Galbraith, 2011:41).


CAPITOLO SECONDO

POVERTÀ E RICCHEZZA

*
L'uva è acerba

    Il mio atteggiamento verso la ricchezza materiale potrebbe essere considerato partigiano, cioè quello di un povero.
    Da questa mia posizione le mie parole perdono forse gran parte dell'incisività che avrebbero se fossero pronunciate da un ricco che si è convertito ai sani valori di una vita semplice. Esse potrebbero sembrar formare argomentazioni per certi versi simili a quella che fa la volpe di fronte all'uva che non riesce a raggiungere, e dice che è acerba. Ma qui occorre fare una precisazione: il lettore della famosa favola di Esopo è tentato di credere che l'affermazione della volpe sia una mera giustificazione, ma potrebbe anche considerare il caso in cui l'uva possa essere veramente acerba e indigeribile.
    In questo libro tento di argomentare che la volpe vede chiaro, che l'uva è effettivamente acerba e che, quindi, fuori metafora, l’attuale sistema di rapporti economici basati sul mero profitto non determina la nostra felicità, l'armonia della nostra convivenza, una vita buona, il benessere del nostro ambiente fisico e psicologico, la realizzazione delle nostre potenzialità umane. Anzi, mi spingo oltre e affermo che la ricchezza è piuttosto un peso inutile, e che una vita semplice può non solo ben bastare, ma anche renderci più sereni e felici.
    È per certi versi evidente, inoltre, che la ricerca costante di denaro è una fonte di grande stress. “Come hanno scoperto gli psicologi sociali Richard Ryan, Tim Kasser, Peter Schmuck  - in sondaggi organizzati in grande stile negli Stati Uniti, in Germania, Russia e India – gli uomini che considerano particolarmente importante il denaro sono meno soddisfatti della loro esistenza di quelli che si sforzano piuttosto di aver rapporti migliori con i loro simili e che vogliono sviluppare i loro talenti o impegnarsi a favore della società” (S. Klein, 2002:225). Vivere con la continua valorizzazione e visione dei soldi sarebbe, insomma, come rapportarsi con un frutto che una volta colto e ingerito risulta infine acerbo e indigesto. Non riuscire a coglierlo non costituisce, quindi, una perdita.

Felicità e acquisizione del superfluo

    Il binomio ricchezza/felicità é certamente un inganno. D’altra parte, v'è la generale e salda convinzione che sia difficile se non impossibile essere felici o vivere in modo soddisfacente quando si è poveri. E gli stessi poveri dimostrano di essere più contenti quando acquistano un certo benessere. Soprattutto in una situazione di indigenza, un sopravvenuto aumento di reddito rende migliore l'esistenza. Il benessere materiale generalmente rende la vita per certi aspetti più agevole e comoda e, tuttavia, se ben consideriamo, una volta ottenuti i beni essenzialmente necessari o ragionevolmente utili per una vita serena, l'acquisizione di tutto il superfluo soddisfa solo bisogni indotti e può causare competizione, stress, lavoro alienato, mancanza di tempo libero, dislocazione all’esterno, e quindi disequilibrio del sé.
    Alcuni sociologi sono concordi nell'affermare che "almeno per quello che riguarda le persone che vivono nei paesi ricchi del mondo, nessuna finalità pratica è resa più agevole dall'accumulazione ulteriore di ricchezza" (R. Frank 2004:117). L'incremento addizionale di un reddito già alto non produce una soddisfazione reale che sia duratura e che non si limiti in un campo meramente psicologico. In casi estremi si può essere tanto ricchi da non avere neanche la reale possibilità di un rapporto diretto con tutti i beni posseduti. E v'è poi da considerare il fattore adattamento. Ecco quindi che "gli individui si adattano velocemente non solo alle perdite, ma anche ai guadagni. Le campagne pubblicitarie della lotteria dello Stato di New York mostrano ai loro potenziali partecipanti come la loro esistenza potrebbe cambiare nel caso di una vincita. Coloro che effettivamente vincono la lotteria solitamente manifestano l'impeto di euforia (…) nelle settimane immediatamente successive la loro vincita. Le indagini condotte a distanza di diversi anni rivelano, al contrario, che queste persone spesso  non sono più felici, e in realtà risultano addirittura meno felici, di prima" (R. Frank 2004: 119). V’è da notare, inoltre, che lo stesso il carattere di un uomo si può rivelare grande fattore di benessere o infelicità, e una data conformazione psichica non migliora necessariamente con il miglioramento della condizione economica. Potrebbe essere più importante, quindi, avere una buona disposizione d'animo unita al necessario per vivere piuttosto che un pessimo carattere unito ad un grande conto in banca. La ricchezza, infatti, non fa una grande differenza nello stato interiore di chi ha un carattere incline all'insoddisfazione ed è naturalmente infelice o addirittura meschino. Alcuni dei fattori che determinano la felicità possono essere anche ereditari, e se i nostri genitori non erano nevrotici e ansiosi, abbiamo noi stessi maggior possibilità di essere sereni. Considerando anche questa componente ereditaria o biologica potremmo dire che le condizioni esterne, quando non sono estreme, incidono in misura relativa sul nostro star bene. Al loro variare, il nostro stato mentale abituale varia temporaneamente per ritornare prima o poi alla sua più costante valenza.
    È vero, dunque, che all'aumento del reddito oltre una certa soglia non corrisponde necessariamente un aumento dell’effettivo benessere: chi possiede cento camere da letto non dorme meglio di chi ne possiede una; chi possiede cento ville non è più felice di chi vive bene in una casa amata e arredata con gusto; chi paga un prezzo esorbitante per un pasto in un ristorante di lusso non mangia meglio di chi si ferma in un’ottima trattoria; e il vino contenuto in una bottiglia di mille euro non è sicuramente migliore di un vino genuino e non costoso, e via di seguito. È vero, quindi, che il "maggior benessere" dato da una maggiore ricchezza è in gran parte solo immaginato, psicologico, e può consistere anche in una effimera sensazione di esser più in alto degli altri. E chi ha tale bisogno, o carenza, non è una persona saggia e interiormente ricca. L'acquisizione della ricchezza materiale e del superfluo può quindi essere indotta dall'insufficienza morale e psicologica di un uomo che per sentirsi soddisfatto ha bisogno di essere superiore al suo vicino. Ma si pensi anche alla situazione di chi lavora tanto, fino a stressarsi, per mantenere un livello di vita alla pari con quello del suo gruppo di riferimento, e perciò trascura aspetti importanti per la sua stessa felicità, come per esempio il tempo del rapporto con la famiglia, o il tempo dedicato a un hobby e così via.
    Piuttosto che stressarci ad acquisire beni superflui, arriviamo quindi a scoprire e valutare i fattori che ci rendono più felici: la disposizione positiva verso la vita, le buone capacità, innate e coltivate e, ancora, l'intelligenza relazionale che ci permette di comprendere noi stessi e gli altri nel rapporto e superare eventuali difficoltà. L'armonia del rapporto è essa stessa la condizione preliminare per il godimento dei piaceri che sono considerati essere parte integrante della condizione di felicità.

La vita semplice

    Può esserci chi abita in una modesta casa con orto e giardino, ha cibo e vestiti adeguati, libertà di movimento, libertà interiore e relazionale, svolge un'attività soddisfacente, creativa o vocazionale, vive in armonia con il prossimo e con l'ambiente, ha tempo libero e non è assillato dal dover acquisire beni sostanzialmente inutili o false immagini di sé.  Eppure, questa persona, che vive in una situazione di armoniosa e positiva semplicità ove si ritrova umanamente ricca, potrebbe avere un basso reddito, persino non avere un conto in banca, ed essere quindi considerata "povera" secondo i criteri del corrente consumismo. Ma il suo benessere è reale, pur se non quantificabile dalle statistiche economiche. E non si tratta in questo caso di un esempio astratto. Io stesso ho avuto modo di osservare diverse situazioni esistenziali e materiali felici, soprattutto in campagna, ove la ricchezza reale, costituita dalla casa, dalla terra, dall’acqua, eccetera, si unisce a una certa pace sociale e all’armonia dei rapporti e anche alla cultura e all’arte. Anni or sono visitai un villaggio in una bellissima zona rurale della Romania ove i “poveri” abitanti possedevano tutto e più del necessario per vivere bene. Inoltre, abitavano in belle case di legno circondate da orti e da boschi, e producevano manufatti artistici e musica. Purtroppo, in seguito alla sopravvenuta conoscenza del “benessere” della società industriale occidentale, con le sue innumerevoli offerte di nuovi oggetti, essi si videro “poveri”, solo perché non avevano il denaro per acquistare televisori piatti, automobili con l’aria condizionata, e altri oggetti che prima non conoscevano e di cui non sentivano la mancanza. Non voglio però elogiare e idealizzare i “beati tempi che furono” ma desidero semplicemente considerare che la vita moderna piena di oggetti in una grande città, non è sempre più felice di una vita semplice conviviale e creativa in un ameno ambiente naturale. Inoltre, nel momento in cui un abitante di un antico villaggio, ricco di cultura e tradizioni, sia esso in Romania, in Africa o in Asia, desidera i prodotti del consumo occidentale, vale a dire la “ricchezza” che può acquistare solo con il denaro, deve scambiare il suo tempo libero per uno stipendio, e rinuncia quindi alla sua libertà ed è costretto a cederla a chi il denaro sa meglio di lui amministrare e moltiplicare. E allora diviene veramente povero.

La povertà positiva

    D’altra parte, il concetto di povertà si presta a diverse chiavi di lettura. Occorre quindi, in primis, fare una ben chiara distinzione tra il concetto generale di povertà e quello particolare di povertà positiva, che potrebbe caratterizzare una vita semplice.
    Il concetto di povertà positiva deve essere ben distinto da tutte le condizioni di assoggettamento, di sfruttamento e di miseria. Esiste, infatti, una povertà subita e involontaria che abbassa e rende schiavi, ma v'è anche una povertà positiva, coincidente con la vita semplice, che libera ed eleva l'uomo; una condizione che potrebbe essere scelta liberamente in base ad una riflessione congrua e realistica attorno ai bisogni naturali e necessari e intorno ai fatti e ai valori sostanziali della vita.
    La vita semplice e, quindi, vissuta in positiva povertà, è quella di chi distingue i desideri causati da bisogni naturali e necessari dai desideri culturalmente indotti, creati artificialmente, promossi e avvalorati dai mass media e dal conformismo. Si tratta quindi della condizione esistenziale di uomini saggi che non si alienano e non dislocano il proprio sé in inutili oggetti esterni, e quindi di uomini positivi, che non si credono infelici per il fatto di non possedere cose inutili e superflue. Nulla vieta, inoltre, che la povertà positiva si leghi all’educazione, alla cultura, all’armonia relazionale. Anzi, potrebbe rivelarsene un utile presupposto. Tra i tanti esempi di positiva povertà potremmo considerare quello di Epicuro che, come vedremo nei prossimi paragrafi, visse una vita filosofica e felice attorniato da sinceri amici in un giardino, curandosi di soddisfare solo i desideri che riteneva naturali e necessari.

Diverse relazioni tra ricchezza, povertà e felicità

    Quando si parla di ricchezza e di povertà, diversi fattori concreti devono essere considerati, come per esempio, tra i più importanti, la qualità dei rapporti umani e il benessere psicologico. Questi due fattori possono far parte sia della povertà sia della ricchezza, in modo tale da aumentarne o sminuirne il valore. Si immaginino, per esempio, due ipotetiche situazioni limite e contrastanti: un ambiente materialmente povero, come potrebbe essere, appunto, il giardino di Epicuro, ma al cui interno i rapporti sono ricchi e armoniosi, e un ambiente materialmente ricco al cui interno i rapporti sono conflittuali. Oppure si immagini e si confronti la situazione di una rete di rapporti tra amici poveri ma solidali, che si amano e si rispettano, con la situazione di un ricco solo, circondato da ipocrisia e privo del conforto di profondi rapporti affettivi.
    Recentemente sono stato colpito dal racconto dell’esperienza di viaggio in Africa di mio nipote Marco. “Zio,” – mi disse, – “immagina di andare a bussare senza preavviso alla porta dei tuoi vicini all’ora di pranzo e proporre di mangiare con loro. Cosa direbbero, cosa penserebbero? Considererebbero la proposta a dir poco strana, non è vero? Invece, nei villaggi africani che ho visitato, è cosa normale per gli indigeni dividere il pranzo con chi capita”.
    “Si comportano così perché sono primitivi” ribattei scherzando.
    “Primitivi e solidali”, rispose.
    Si può altresì immaginare la situazione di un ambiente ricco e solidale e di un ambiente povero e conflittuale, e un qualsiasi altro ambiente in cui felicità povertà e ricchezza si combinino in vari rapporti. Tuttavia, potremmo ragionevolmente ipotizzare che il benessere psicologico non è direttamente dipendente da quello materiale. L'associazione tra benessere materiale e benessere psicologico è piuttosto un semplice e diffuso atteggiamento che non risponde necessariamente alla realtà. Occorre invece essere più realisti, osservare i fatti e le situazioni concrete, ma anche immaginare nuove e possibili situazioni, e cominciare a legare il concetto di povertà, o di vita semplice, con quello di felicità e di serenità. E se l'idea di legame tra ricchezza e felicità è tanto comune quanto indimostrabile, l'idea dell’unione della povertà positiva con la felicità e la serenità può, messi da parte i comuni pregiudizi, risultare plausibile e concreta.

Povertà relativa o posizionale

    La condizione generale di povertà va considerata anche e soprattutto nel suo aspetto interattivo.
    Ciò che spesso fa sentire povero un uomo non è tanto il suo livello concreto di benessere quanto il confronto, il suo paragonarsi con le persone che sono i suoi modelli o con cui si rapporta. Appare giusta, quindi, l’affermazione di John K. Galbraith secondo cui "si cade nella povertà ogniqualvolta il nostro reddito, seppur adeguato ai fini della sopravvivenza, sia considerevolmente inferiore a quello della comunità". Succede quindi che un "povero" europeo dei tempi moderni, che pure si trova in condizioni materiali anche migliori rispetto a quella di un benestante di cento anni fa, soffre o è insoddisfatto quando osserva l'opulenza che lo circonda, o quando semplicemente ammira alla televisione la "felicità" dei ricchi. Il benessere, quindi, spesso non è valutato di per sé, ma è inteso come benessere posizionale, dipendente dalla collocazione dei membri in una società.  Per esempio, un individuo che guadagna mille euro al mese potrebbe sentirsi povero accanto a chi ne guadagna quattro mila, e se poi guadagnasse quattro mila euro potrebbe continuare a sentirsi povero di fronte a chi ne guadagna sedicimila.
    Diversi studiosi sociali hanno tentato di misurare e quantificare lo stato di felicità o benessere personale rapportato alla crescita del PIL e della ricchezza materiale. Essi hanno raccolto dati soggettivi, cioè dipendenti dal grado di felicità direttamente percepita dagli individui, e dati considerati oggettivi, come per esempio la diffusione di certe malattie, dell'obesità, dei suicidi, la diffusione dell'ansia, dell'insicurezza, l'aumentata vendita di psicofarmaci, l'uso di droghe, eccetera. Ebbene, sulla base delle misurazioni di questi studiosi, quando il reddito aumenta in modo uniforme o proporzionale per tutti i membri di una società, non varia in modo corrispondente la percezione individuale e soggettiva di aumentata ricchezza.
    Una società su cui sono state fatte ricerche in tal senso, e quindi un esempio tipico, è quella giapponese. Il Giappone, infatti, "nel 1960 era un paese molto povero. Da allora il reddito pro capite è aumentato in modo considerevole, risultando anche oggi tra i più elevati del mondo industrializzato. Nonostante ciò, il livello medio di felicità percepito e dichiarato dai giapponesi oggi non è superiore a quello del 1960. Essi possiedono molte più lavatrici, automobili, macchine fotografiche e altri oggetti, rispetto a quanto ne avessero allora, tuttavia non hanno registrato progressi significativi sulla scala della felicità" (R. Frank, 2004:116). Inoltre, anche che il benessere economico distribuito a tutti in eguale misura non dà modo alla componente abbastanza diffusa del confronto antagonistico di manifestasi. Se tutti hanno lo stesso reddito, viene frustrato il particolare bisogno di posizionarsi economicamente più in alto rispetto ai propri simili.
    Sottolinea questo bisogno il sociologo Thorstein Veblen che già nel lontano 1934 anticipa, attraverso un metodo intuitivo, i dati delle ricerche empiriche dei sociologi moderni. Egli scrive, infatti, che "per quanto largamente o ugualmente o discretamente possa essa venir distribuita, nessun aumento generale della ricchezza può anche lontanamente saziare questo bisogno, il cui fondamento è il desiderio di ciascuno di eccellere sopra ogni altro nell'accumulare ricchezze. Se, come talvolta si pensa, lo stimolo ad accumulare fosse il bisogno della sussistenza oppure del benessere fisico, allora il complesso delle necessità economiche di una comunità potrebbe presumibilmente venir soddisfatto in certa misura col progredire dell'efficienza industriale; ma poiché la lotta è sostanzialmente una corsa all’onorabilità basata su di un confronto antagonistico, non è possibile nessun avvicinamento ad una meta definitiva" (T. Veblen, 1949:41). Continuerà quindi la corsa alla ricchezza e ai consumi finché permane negli uomini il desiderio di eccellere l'uno sull'altro, o di conformarsi ai modelli di consumo vigente.

L’evoluzione degli approcci economici correnti

    Ma le risorse naturali sono limitate e il sistema terra non può sopportare una crescita continua e universale del reddito e dei consumi. Gli Africani, gli Indiani, i Cinesi, non possono arrivare ad avere un tenore di vita simile a quello degli abitanti degli Usa, che gettano nella spazzatura mediamente il trenta per cento del cibo acquistato. Ma la crescita economica e dei consumi non può continuare infinitamente neanche in Occidente. E questo per molti motivi tra i quali tre mi sembrano i più importanti. Uno è che, come dicevo, le risorse naturali sono limitate; l'altro è che il presente modello di sviluppo promuove l'inquinamento delle terre e delle acque; e il terzo motivo è che il consumismo sfrenato si basa necessariamente sullo sfruttamento degli uomini e sull’ineguaglianza; e ciò significa che alla crescita del Pil di una nazione e all’incremento della ricchezza di un gruppo limitato di persone corrisponde la povertà o la miseria di altri gruppi e popoli. Dopo la caduta del muro di Berlino, è successo, infatti, che i ricchi sono diventati sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri, con un impoverimento delle classi medie. E finché gli stati assecondano e promuovono poteri neoliberisti, questa tendenza sembra dover permanere fino a una probabile futura situzione di forte crisi. 
    Intanto i poveri desiderano adottare modelli di sviluppo insostenibili, e i ricchi vivono nel loro mondo ovattato e chiuso e non hanno coscienza della sofferenza degli altri uomini e della terra. Non è forse difficile prevedere gli sviluppi futuri di questa nostra attuale situazione. La grande famiglia umana vive in una casa dal tetto pericolante, e se alcuni membri soffrono, pochi si accorgono del pericolo, e pochi altri, consapevoli o meno, stanno bene in stanze apparentemente sicure da ogni minaccia. Le questioni irrisolte che minacciano la solidità della nostra casa sono le stesse di cui i governi generalmente non si occupano o se ne occupano in modo superficiale e non risolutivo: i cambiamenti climatici, l’inquinamento, l’impoverimento dei terreni coltivabili, l’effetto serra, le guerre spesso patrocinate dalle grandi industrie di armi, la miseria di popoli costretti a emigrare, la corruzione e le ingiustizie, la deforestazione, e poi, soprattutto, l’ignoranza e i pregiudizi ancor più promossi e sostenuti dai mass media, e altro ancora.
     Il mondo occidentale potrebbe già essere in declino, o è destinato a trasformarsi, più o meno pacificamente, forse a disfarsi, come altre fiorenti civiltà del passato. D’altra parte non può sussistere a lungo una società basata sull’adorazione di banconote e titoli. Non è possibile, nel lungo termine, che il profitto sia prioritario rispetto ai valori reali dell’esistenza. Inoltre, la distribuzione della vera ricchezza e delle vere risorse non può essere sempre regolata dal movimento computerizzato di titoli e capitali. Già adesso, nel momento in cui scrivo, il sistema economico e finanziario mondiale mostra segni di profonde incongruenze e ha ripercussioni deleterie nell’ambiente umano e naturale. Come gli antichi Romani, durante il tempo di splendore della loro civiltà, non ne potevano forse immaginarne la caduta, anche noi occidentali, mentre perseguiamo il mito di una vita sempre più comoda e tecnologica, mentre le folle guardano programmi televisivi di evasione, mentre lavoriamo per la ricchezza e la crescita e la nostra attenzione si rivolge ai nostri interessi immediati e particolari, sottovalutiamo o non abbiamo consapevolezza dei problemi reali e dei mutamenti che si compiono in intervalli relativamente più lunghi. Il nostro profondo sentimento, e quello dei nostri governanti, non viene generalmente scosso, e neanche toccato dalle questioni fondamentali cui facevo cenno sopra. Potremmo dire che la responsabilità maggiore cade sugli uomini politici e sui potenti della terra, che non sembrano interessarsi alla soluzione dei nostri problemi, presi come sono dalla mera gratificazione psicologica del potere e della ricchezza materiale.
    Gli approcci e gli interessi economici oggi prevalenti, che determinano l'esistenza del mondo così com'è e dei suoi sviluppi, potrebbero mutare forse solo di fronte a delle ulteriori evidenti, ineluttabili e probabilmente tragiche necessità, di cui tutti gli uomini, siano essi poveri o ricchi e potenti, farebbero esperienza. Possibili svolgimenti positivi potrebbero aver luogo, invece, qualora sorgesse un diffuso e serio dibattito sulle conseguenze del nostro modo di vivere e di concepire la vita, qualora sopravvenisse un salto nella consapevolezza e nella maturità delle persone, e nei rapporti. Dovremmo quindi chiederci se l’eccessiva valutazione dell’economia, del profitto,  della crescita e dei soldi, ci porta reale benessere o felicità. E allora, in questa nostra difficile situazione umana e ambientale possiamo cominciare a considerare ciò che effettivamente costituisce la nostra felicità, possiamo ricercare e stabilire le condizioni reali per una vita felice.



CAPITOLO TERZO

LA FELICITÀ NELLA SOCIETÀ DEI CONSUMI

*

     La ricerca della felicità

Non camminare per le vie dove va la gente.
                                                                      Pitagora

    Proponevo già, nella prefazione di questo libro, che l’affrancamento dai valori materialistici generalmente legati al culto del denaro si ottiene attraverso l’adozione di nuovi approcci esistenziali che siano fondamentalmente umani e apportatori di felicità. E tali approcci sono semplici, condivisibili dai nuovi poveri e praticamente attuabili. La ricerca della felicità, in altre parole, non coincide con la ricerca del benessere economico o seguendo i suggerimenti o i diktat dei grandi poteri finanziari. Continuiamo insieme, quindi, il nostro dialogo su questo tema.  
    Chi intende seguire con impegno la ricerca della felicità troverà facilmente e ovunque una grande abbondanza di informazioni e suggerimenti. L'argomento è così diffusamente trattato, e talvolta anche con saggezza e competenza, che ogni ulteriore ricerca può apparire ridondante: tutto sembra essere stato detto. Ma pur se completo, il discorso si rinnova, o si ripete in forme nuove, in rapporto con i tempi e con le situazioni.
    Esistono cause della felicità che trascendono il tempo e i luoghi, vale a dire cause endogene come una buona costituzione fisica, la salute, la saggezza, il carattere e la predisposizione personale alla serenità e al buon umore con l’assenza o la diminuzione dei turbamenti dell’animo, eccetera. In ogni luogo e tempo, alcuni uomini sono riusciti e riescono a condurre una vita che, entro i limiti della condizione umana, può definirsi felice.
    Ma occorre anche tener presente le grandi differenze psicologiche tra gli uomini. Infatti, oggi come nel passato, la felicità di un determinato tipo d'uomo diventa tristezza o limitazione per un tipo diverso. Per esempio, alcuni credono, come vedremo crede Epicuro, che la serenità di una vita tranquilla e semplice, preferibilmente trascorsa in compagnia di buoni amici, debba essere la più grande aspirazione di chi persegue la felicità, mentre altri, che per temperamento sono più inclini all'azione e al movimento, giudicano questa prospettiva noiosa se non impraticabile. E poi esistono diversi percorsi personali: alcuni potrebbero avere bisogno di una vita tumultuosa prima di realizzare il sommo bene  epicureo di una vita piacevole dentro un giardino, mentre altri potrebbero già da giovani ottenere la serenità senza un grande preliminare dispiego di energie.    
    Oltre alle cause endogene, alcune importanti cause di una vita felice, o infelice, si trovano fuori di noi nell’ambiente in cui viviamo, e possiamo chiederci se sia veramente possibile essere felice oggi in un luogo affollato, inquinato e generalmente stressato seppur altamente tecnologico.
    Le qualità fondamentali dell’animo umano si ritrovano in ogni luogo e tempo, e allora, pur nel presente periodo storico, in una società che professa una grande fede nelle verità scientifiche e che diventa sempre più tecnologica e tecno-dipendente, la ricerca della felicità non deve ignorare i consigli offerti dalla saggezza antica. E nello stesso tempo, la conoscenza e la considerazione dell’ambiente moderno in cui viviamo, non significa, come vedremo in seguito, che le sue condizioni debbano essere accettate e credute immutabili.
    D’altra parte, prima di ulteriormente procedere nella nostra ricerca, occorre porsi una domanda forse molto importante: la felicità è un'illusione? Se esistono innumerevoli ottimisti divulgatori di formule della felicità, v'è anche chi la nega e afferma, invece, che sia un'impresa inutile perseguirla. La ricerca della felicità, in qualsiasi tempo e luogo potrebbe quindi risultare vana, o essere comunque oggetto di un realistico dubbio. Oppure, la felicità sfuggirebbe proprio chi la cerca, mentre si donerebbe, forse come effetto collaterale, a chi persegue fini diversi.
    Quest'atteggiamento negativo verso la felicità e il suo possibile raggiungimento appare fondato soprattutto per chi conduce una vita triste, è malato, indigente, sfruttato e abusato. Per questa persona la felicità non esiste, e quindi non esiste per miliardi di esseri umani che vivono insieme a noi su questo pianeta. Secondo i pessimisti più accaniti, comunque, la ricerca della felicità è un'impresa del tutto inutile anche se svolta dagli uomini sani colti e benestanti che vivono in paesi ricchi come l'America e l'Europa. Schopenhauer, per esempio scrive che "vivere felici può significare solo vivere il meno infelici possibile"(1997:63). Infatti, egli afferma: "l'esperienza ci insegna che la felicità e i piaceri sono soltanto chimere che l'illusione ci mostra in lontananza, mentre la sofferenza e il dolore sono reali e si annunciano direttamente da sé, senza bisogno dell'illusione e dell'attesa. Se il suo insegnamento viene messo a frutto, smettiamo di cercare la felicità e i piaceri e ci preoccupiamo solo di sfuggire per quanto possibile alla sofferenza e al dolore" (1997:29). E quindi, secondo Schopenhauer, chi spera di essere felice, chi non ha ancora l'esperienza del dolore o chi se ne dimentica, si comporta come un giovane che "crede che il mondo sia fatto per essere goduto e sia un domicilio della felicità, la quale sfugge solo a coloro che non hanno l'abilità di cercarla" (1997:63). Poi, crescendo, il giovane si accorge di aver sbagliato.
    Si potrebbe forse dare ragione a Schopenhauer,  soprattutto quando si leggono i molti libri scritti da autori americani che presentano una prospettiva materialista e quindi ingenua e incompleta sulla felicità. Ma il grande filosofo è forse veramente troppo pessimista e il suo pessimismo non gli permetterebbe di considerare e credere, come fa Epicuro, per esempio, che la fuga dalla sofferenza e dal dolore, qualora riuscita, vale a dire l’assenza del dolore fisico e dei turbamenti dell’anima, potrebbe farci riscoprire il nostro stato naturalmente felice. Se, quindi, il pessimista Schopenhauer non crede nella felicità perché le attribuisce un contenuto positivo di gioie e piaceri concreti, secondo lui rari o inottenibili, l’ottimista Epicuro, invece, come vedremo in seguito, ne ha una concezione “negativa”: per ottenere la felicità non occorre aggiungere cose e piaceri alla vita quanto, invece, occorre togliere ciò che è superfluo e doloroso. E allora l’esistenza si rivelerebbe nella sua felice naturale serenità. E questo approccio che potrebbe apparire utopico, è invece realistico e perseguibile, soprattutto dai nuovi poveri, come spero potremo vedere tra poco.

Una società non felice

    Gli individui che sono alla ricerca della felicità spesso la identificano con il piacere o con qualche effimera gratificazione dell’io. Vivono sperando di essere felici e non hanno un'idea originale e realistica delle condizioni reali in cui potrebbero vivere bene. Trascorrono il tempo in un modo o nell'altro, vale a dire in modo talvolta o spesso insensato, guardando la televisione, chiacchierando, camminando pieni di desiderio nei centri commerciali. Nella loro ricerca di felicità, si affidano a mezzi rozzi e inadeguati, ma che sono riconosciuti validi dalla maggioranza, mezzi che non richiedono impegno e riflessione.
    Gli uomini che sono costretti a fare un lavoro noioso o privo di significato, cercano una facile evasione e uno svago appena possono. Altri, pur se sono coscienti che gli ambienti in cui vivono e lavorano sono territori ove non può attecchire l'albero del ben vivere, pur se hanno profondamente bisogno di creare, di trovarsi in un ambiente diverso e più salubre, non hanno o credono di non avere alcuna possibilità di mutare la propria condizione. Reputano normale la loro vita, che tutti gli altri vivono allo stesso modo, accettando la routine, la mancanza di significato. Viviamo in una società priva di armonia, che non è sana né felice, e se alcuni sono consolati dalla gioia dell’amicizia e degli affetti, se individui disturbati ma solventi ricorrono alle prestazioni di un terapeuta, molti altri soffrono in solitudine. Erich Fromm formula l'ipotesi di una patologia della normalità: la società soffre perché i singoli individui che ne fanno parte sono insoddisfatti e infelici, vivono nell'ansia e nel conflitto, pur credendosi sani e normali. Possono essere ben adattati nel mondo ma non conoscono o non prestano attenzione alla propria realtà interiore. Hanno perduto la capacità di vivere una vita serena e felice, ma si reputano sani e normali solo perché continuano a funzionare bene in una società complessivamente insana. "Il concetto di malattia ha innanzitutto una connotazione sociale. Per la società è malato chi non funziona più. Sul piano sentimentale o artistico uno può essere il più grande idiota, non capire nulla ed essere incapace di intendere la realtà sotto un aspetto diverso dal guadagnare denaro, ma passa sempre per una persona molto in gamba" (Fromm, 1996:69).
    Dopo tante scoperte scientifiche, possiamo condurre una vita più comoda, ma non necessariamente più felice. Dopo tanti libri di psicologia, possiamo essere più informati, ma non necessariamente meno nevrotici. Dopo tanti manuali sulla felicità non siamo riusciti a eliminare le cause più semplici e più evidenti della nostra sofferenza. I popoli che vivono nei paesi "in via di sviluppo" ricercano la felicità nell'acquisizione dei beni già diffusi nelle società a "sviluppo avanzato". Ma noi occidentali soffriamo di malattie prima sconosciute, siamo sedentari, ci snerviamo nel traffico, siamo spesso grassi, nevrotici, insoddisfatti, dipendenti da una pillola per dormire e funzionare. E allora, la felicità è assente, tanto più se è confusa con il benessere economico e con le proposte della pubblicità e dei mass media.
    Intanto, all’interno di questo scenario, alcune persone "ingenue" affermano che potremmo vivere insieme in pace, collaborando, che potrebbe esistere una ricerca condivisa del bene comune, e un rapporto armonioso con la natura. Invece, i "realisti" credono che la felicità e l'armonia sono un'utopia, un sogno, e che in realtà ci sono le lotte, le prevaricazioni, le guerre; dicono che la natura umana è negativa e che bisogna difendersi; e dicono anche che spesso la miglior difesa è l'attacco, è l'essere più potenti, arrivare primi ove c'è da guadagnare. Allora, se condividiamo questo secondo approccio, cerchiamo di sentirci sicuri, star bene, essere felici e realizzarci in modo autonomo e con ogni mezzo competitivo che riteniamo opportuno, e nel far ciò ci troviamo in conflitto con tutti gli altri che fanno lo stesso. Infatti, il nostro desiderio di essere felici a modo nostro e per conto nostro incontra e deve fare i conti con la realtà esterna, con le difficoltà e le resistenze che affiorano nell’ambiente ove agiamo. I nostri desideri incontrano degli ostacoli all'esterno e la loro realizzazione diventa problematica o conflittuale. Vogliamo essere felici, ma partendo proprio dal desiderio di felicità, arriviamo a essere competitivi,  stressati, nevrotici, sfruttatori e sfruttati, vanesi e applaudenti della vanità, amanti dei soldi, pazzi e criminali, incarcerati e carcerieri, giustiziati e giustizieri. Perseguendo in modo erroneo la nostra felicità, ci troviamo a vivere in un ambiente disumano, reso brutto e ostile dalle nostre stesse azioni.
    Riflettendo su questo stato di cose cominciamo a comprendere il grande paradosso dell'esistenza umana: siamo noi stessi, in quanto agenti umani immersi in una ricerca istintiva e cieca della felicità, gli autori del nostro malessere.

La felicità e gli uomini politici

    Ci sono enormi risorse di felicità umana che non vengono sfruttate. La maggior parte delle politiche realizzate nel mondo dai governi va esattamente nella direzione opposta. Queste politiche raramente vanno al di là della prossima scadenza elettorale, raramente guardano a ciò che succederà fra 20 o 30 anni.
Zygmunt Bauman

    La felicità del popolo non è l’interesse primo degli uomini politici. Sembra che molti politici perseguano prima di tutto i loro interessi e il potere, anche se si dichiarano democratici e dicono di promuovere il bene comune. Scrive per esempio il sociologo Sabino Acquaviva: "sappiamo che, per ragioni oggettive, di organizzazione, e soggettive, di interesse degli uomini che governano, questa 'democrazia' non risponde ai bisogni psicologici di felicità dell'uomo, ma è espressione, potenziale o reale, anzitutto degli interessi delle èlite dominanti, ma anche dei singoli ceti o classi. La felicità dei cittadini non è fra i fini della politica" (Acquaviva, 1994:96). D'altra parte, se un nuovo partito politico ponesse nel suo programma l'obiettivo della felicità, sarebbe forse considerato utopico. Si occuperebbe di una tematica importante che di solito viene relegata nel campo della psicologia, della filosofia o della religione. Invece, una nuova classe dirigente formata da persone intelligenti, sensibili e colte, dovrebbe porre come obiettivo dei suoi programmi politici il conseguimento della felicità piuttosto che dello sviluppo del prodotto interno lordo e del profitto delle grandi banche. Gli uomini politici che credono nella priorità della finanza, della produzione e del consumo hanno certamente una visione molto limitata del benessere sociale e della felicità. 

La felicità tecnologica

   Il desiderio di ricchezza causa un complesso di azioni che possono anche essere altamente tecnologiche., Le varie imprese economiche e industriali, per esempio, e i poteri finanziari, sono oggi essenzialmente legati alla tecnologia.
    D’altra parte, la tecnologia è di per sé stessa intimamente unita alla sopravvivenza dell'uomo. L'uomo è stato "tecnologico" sin dagli albori delle civiltà. Negli ultimi due secoli, e soprattutto negli ultimi decenni, la tecnologia ha compiuto uno sviluppo enorme, ma spesso va avanti in modo non più intimamente legato a effettive necessità.
    Denaro e potere tecnologico, hanno assunto recentemente un'importanza eccessiva, e talvolta, o spesso, il legame tra profitto e sviluppo avanzato della tecnologia può risultare deleterio. È vero che la storia umana è sempre stata caratterizzata da guerre, saccheggi, sfruttamento, e da lotte per il potere e per la ricchezza, ma adesso, anche grazie al grande potere dell'intelligenza tecno-scientifica, v’è un ulteriore più profondo e sottile sfruttamento che gli uomini perpetrano su altri uomini. In altre parole, possediamo la tecnologia ma siamo rimasti gli stessi uomini aggressivi, avidi, emotivamente primitivi, quali eravamo nei secoli scorsi; e il potere tecnologico aumenta il potere distruttivo umano. Se nel secolo scorso una foresta era tagliata nel giro di decenni, a colpi di ascia, adesso è distrutta in pochi giorni.
    Secondo Martin Rees, astrofisico di Cambridge, "le possibilità che la nostra attuale civiltà terreste sopravviva fino alla fine del presente secolo non superano il cinquanta per cento" (2004:11). Una grande catastrofe ambientale e umana è in atto adesso in tutto il mondo e noi non ne siamo consapevoli, o volgiamo altrove la nostra attenzione. Ma la tecnologia non è in sé stessa la causa del nostro malessere, ovviamente, perché in fin dei conti siamo noi che scegliamo di usarla secondo i nostri fini, spesso creando nuove condizioni di alienazione e di violenza.
    Eppure, se ci pensiamo bene, l'uomo ha inventato la tecnica con l'intento di essere più felice, di vivere meglio, con meno fatica e pericolo. E in verità, molte scoperte scientifiche e applicazioni tecnologiche hanno migliorato la nostra vita.
    Umberto Galimberti afferma che la tecnica è l'essenza dell'uomo ed è “nata non come espressione dello 'spirito' umano ma come 'rimedio' alla sua insufficienza biologica" (2002:34). Per Galimberti noi viviamo in un mondo tecnico "irrimediabilmente e senza scelta" anzi, "questo è il nostro destino di occidentali avanzati, e coloro che, pur abitandolo pensano ancora di rintracciare un'essenza dell'uomo al di là del condizionamento tecnico, come capita di sentire, sono semplicemente degli inconsapevoli che vivono la mitologia dell'uomo libero per tutte le scelte, che non esiste se non nei deliri di onnipotenza di quanti continuano a vedere l'uomo al di là delle condizioni reali e concrete della sua esistenza" (Galimberti, 2002:34). 
    E la nostra esistenza è oggi quella di uomini "irrimediabilmente" immersi in un mondo tecnico, tra televisioni, computer, telefonini, lavastoviglie, aerodinamiche protesi locomotorie, treni ad alta velocità, aerei supersonici, macchinette per misurare la pressione, frullatori telecomandati, coltelli elettrici, e innumerevoli altri oggetti che pochi decenni fa non conoscevamo ma che sono divenuti la nostra “essenza”.
    Se la tecnica, quindi, come afferma Galimberti, è nata effettivamente come rimedio all'insufficienza biologica umana, possiamo tuttavia chiederci se il rimedio non sia eccessivo.
    Pur consapevoli della difficoltà, ma non della impossibilità, di una scelta di vita semplice, provvista di una tecnica dolce che serva all'uomo più di quanto possa controllarlo e condizionarlo, possiamo fermarci a osservare se la nostra realtà tecnica ci abbia reso più felici, se dobbiamo lavorare tanto e faticosamente per essere e sentirci integrati in un mondo che non può che essere altamente e “irrimediabilmente” tecnologico.
    Succede, d’altra parte, che l’uomo comune è indotto dalla pubblicità e dal conformismo a “godere” delle sempre continue innovazioni tecnologiche e quindi in pratica le subisce pur credendo di sceglierle liberamente. 
    Negli ultimi decenni sono intervenuti nella nostra esistenza fenomeni legati alla tecnologia non solo nuovi ma anche del tutto imprevisti e indesiderabili. Questi fenomeni riguardano, oltre l’industria bellica, anche i grandi mutamenti e deterioramenti che l'intervento umano ha apportato e continua ad apportare nell’ambiente naturale. Il livello dell'anidrite carbonica, causa dell'effetto serra, per esempio, è aumentato del 50% dalla rivoluzione industriale inglese ad oggi. Gli scienziati hanno diversi modelli e ipotesi che riguardano l'effetto serra e i futuri mutamenti di clima. Essi non sanno ancora se e quando i meccanismi che equilibrano e rendono più o meno costante la temperatura della terra salteranno del tutto. Una possibilità è che nei prossimi anni la temperatura atmosferica aumenti solo di pochi gradi. Ciò causerebbe un incremento delle alluvioni, delle tempeste, della siccità e dei fenomeni atmosferici estremi che sono già in atto nel mondo. Aumenti ancora maggiori della temperatura media dell'atmosfera terreste causerebbero il completo scioglimento dei ghiacciai polari già in corso e il conseguente innalzamento del livello dei mari. Molte città e territori costieri verrebbero sommersi. I costi economici, ambientali e umani sarebbero ingenti. I mutamenti climatici potrebbero essere troppo drastici e rapidi, e le persone, gli animali e le piante potrebbero non facilmente adattarsi, e l'intero ecosistema, nella peggiore delle ipotesi, potrebbe collassare.
    Ma se ciò resta ancora oggetto di indagine, gli effetti deleteri dell'inquinamento delle terre, delle acque, e dell'aria sono evidenti. Anche gli effetti delle radiazioni causate dalle centrali atomiche e dai loro guasti sono un fatto evidente. Anche la grande deforestazione planetaria e l'estinzione di moltissime specie animali e vegetali sono un fatto nuovo e innegabile.
    Tanto più l'umanità si espande attraverso il lavoro e la tecnica, tanto meno posto rimane per le piante, i boschi e gli animali.
    E nello stesso tempo, gli uomini perdono contatto con la natura che li sostiene. L'esodo dalle campagne alle città, fenomeno già avvenuto in Europa, è adesso in corso soprattutto in Oriente. Gli uomini vivono assiepati nelle grandi città, e le campagne abbandonate sono sfruttate dalle aziende agricole multinazionali con grande uso di fertilizzanti e di veleni chimici.
    È probabile che la lotta chimica contro i parassiti delle piante diminuirà solo per cedere il posto all'ingegneria genetica, anch'essa controllata dalle multinazionali della chimica. Alcune piante transgeniche non possono subire l'attacco di determinati parassiti, e quindi non richiedono l'uso dei pesticidi, ma ancora non si sa se questo rimedio non sia peggiore del male che elimina.
     Se da una parte la tecnologia rende la nostra vita più comoda, d'altra parte il suo uso errato crea problemi maggiori di quelli che intenderebbe risolvere.

La perduta felicità dei "selvaggi"

     Lo sviluppo estremo e "irrimediabile" della tecnica, insieme al condizionamento cui essa ci sottomette, nasce in Occidente e da qui si estende al resto del mondo. Ma non è vero che le società occidentali siano per questo più felici di antiche e "arretrate" società orientali e africane. Rispetto a esse l'Occidente possiede la superiorità nel campo dell'organizzazione industriale e dell'efficienza organizzativa, nella capacità di articolazione logica del discorso scientifico e quindi nel campo della tecnica. Ma si tratta nel complesso di una superiorità priva di saggezza, priva quindi della conoscenza di sé e dell'armonia dei rapporti. In altri termini, un ingegnere occidentale che ha sbarrato con una diga un fiume africano, è efficiente, razionale, articolato, potente, ma non è intimamente più sereno, equilibrato, o più felice di come era felice la popolazione indigena la cui vita è stata sconvolta dalla necessità di lasciare le proprie case e le secolari tradizioni dei propri villaggi adesso sommersi dall’acqua. Un industriale straniero che nello stesso luogo impianta una fabbrica di artificiali bevande gasate e zuccherate, non ha una personalità più integrata ed equilibrata dei suoi nuovi clienti indigeni.
    Non voglio promuovere il mito del buon selvaggio che vive bene e felicemente prima dell'incontro con l'uomo occidentale. Ma senza dubbio, e l'evidenza storica lo dimostra, popolazioni antiche, integrate e stabili, hanno molto sofferto e continuano a soffrire a causa del loro incontro con la rapacità prima coloniale e adesso finanziaria ed economica dell'Occidente. È quindi vero che l'Occidente conquista e impone fratture all'interno di antiche tradizioni.  
    L'opera occidentale di colonizzazione e di conquista del terzo mondo ha remote radici storiche. Scrive a proposito Sabino Acquaviva: "abbiamo cominciato con le piccole esplorazioni e l'idea della colonia già con i Greci in Sicilia, nella Magna Grecia e altrove. Gli ideali greci di trasmissione culturale, creatività, colonizzazione, sono stati ripresi dai Romani e, in seguito, dai popoli europei con le grandi conquiste coloniali. A un certo punto la cultura, la scienza, la tecnica di questo continente si sono talmente sviluppate che l'Europa ha conquistato quasi tutto il pianeta e non soltanto dal punto di vista militare, ma anche culturale e scientifico" (Acquaviva, 1994:41).
    Al suo inizio quest'atteggiamento di conquista militare e tecnica della natura e degli uomini di terre lontane da parte dell'Europa si è manifestato in parallelo con la propaganda religiosa cristiana fondamentalista che mentre mirava a convertire i pagani, nello stesso tempo mostrava  loro il "giusto" modo di vivere, cioè i modelli e i valori occidentali. Le chiese cristiane istituzionali hanno oggi perso la loro forza e parte delle loro antiche connessioni con il potere statale, ma allo stesso modo in cui un certo Cristianesimo veniva vissuto un tempo come l'unica religione ad esclusione delle altre, oggi il vivere tecnologico e la corrispettiva visione del mondo vengono sentiti e considerati come l'unica realtà possibile. La capacità imprenditoriale e di conquista economica dell'Occidente, e delle multinazionali, non conosce ostacoli, né materiali, né umani; li distrugge man mano che inesorabilmente procede con la sua logica e col suo sistema di profitto. E tale opera di conquista economica si avvale di una convalidata e diffusa forma mentis predatoria e consumistica priva di pensiero autocritico, e si avvale, anche, di concezioni e termini che sono divenuti meramente ideologici, come crescita, sviluppo, progresso, che poco e nulla hanno a che fare con il reale benessere degli uomini e dei territori conquistati.
    Prima di venire a contatto con l'uomo occidentale, la vita di un popolo “sottosviluppato” è armoniosamente organizzata, ogni cosa ha il suo posto e tutto funziona all'interno di una cosmologia antica e ricca di rituali, di tradizioni che permettono l'integrazione degli elementi i più disparati. Non voglio dire che nelle antiche società africane, asiatiche, sudamericane, non esisteva la sofferenza, lo sfruttamento di una classe da parte di un'altra, ma erano certamente società ricche di senso, di significato, e spesso anche di solidarietà e di armonia.
    Le civiltà del sud America prima della conquista spagnola erano certamente culturalmente ricche e stabili, anche se divise in caste. Ma tale divisione non era diffusa in tutte le civiltà antiche. Presso alcuni popoli che vivevano a stretto contatto con la natura, per esempio tra gli indiani d'America prima della conquista inglese, non esisteva una grande divisione in classi sociali né alcuna differenziazione sociale dovuta al possesso dei beni. Se poi ci riferiamo all'esistenza delle antichissime tribù primitive dell’Africa, notiamo che il loro schema di vita era generalmente caratterizzato dalla mancanza di una classe agiata. Secondo il sociologo T. Veblen, "l'istituzione di una classe agiata è emersa gradualmente durante il trapasso dal primitivo stato selvaggio alla barbarie; o più precisamente, durante il trapasso da un'abitudine di vita pacifica a un'altra costantemente bellicosa" (1949:23). Se comunque queste sono tesi che solo uno studio storico antropologico approfondito può dimostrare o invalidare, tuttavia è chiaro che l'influenza dell'uomo occidentale, con le sue idee ed i suoi atteggiamenti, è stata ed è negativa nei confronti dei popoli conquistati. Basta che nel loro territorio arrivi un tecnico, un missionario, un turista senza alcuna sensibilità (come spesso sono coloro che credono di appartenere ad una civiltà superiore) e manifesti il suo stile di vita, ed ecco che la vita sociale, fisica e spirituale di un sano ambiente antico incomincia a sgretolarsi. E allora, a contatto con gli occidentali gli indigeni diventano anch'essi avidi, motivati dall'interesse, dal guadagno, dalla corsa al possesso di beni che non conoscevano e di cui prima facevano bene a meno. Oppure, se non diventano come i conquistatori, restano semplici e indifese vittime.
    Una grande vulnerabilità culturale appare essere la caratteristica comune di tutti i popoli conquistati dall'economia occidentale. Ha ben notato questo già nello scorso secolo Gustav Jung viaggiando sia in Africa sia tra gli indiani d'America. Egli riferisce che "se una tribù viene scompaginata, i suoi membri perdono le loro idee religiose, il tesoro della loro antica tradizione, e si sentono totalmente abbattuti. Perdono la loro ragion d'essere, si disperano. Come quello stregone che, con le lacrime agli occhi, disse: 'Non facciamo più sogni'. 'Da quando?'. 'Da quando sono arrivati gli Inglesi'. Sono completamente dépossedés, la loro vita si svuota di senso; e non ha più un senso perché noi li contagiamo con la nostra follia. Perché è una follia: abbiamo perduto l'ordine religioso della vita" (Jung, 1995:160).
    Noi occidentali non crediamo di essere folli; non ci rendiamo conto che vivere per il profitto e il consumo è una pazzia, contro l'uomo, contro l'ambiente, contro la stessa vita. Ma chi appartiene a una cultura sana ci giudica con distacco e realismo. Lo stesso Jung riporta il giusto giudizio sui bianchi espresso da un indiano pueblo da lui intervistato: "Guarda la faccia dell'uomo bianco: tratti taglienti, un naso insoddisfatto; gli americani sono costantemente alla ricerca di qualcosa. Noi non sappiamo che cosa; pensiamo che sono tutti pazzi". Jung commenta questa valutazione dicendo: "quella fu la prima volta che sentii dare un giudizio realmente oggettivo sull'uomo bianco e improvvisamente lo vidi anch'io con i loro occhi" (Jung 1995;160). L'indiano pueblo non sapeva cosa gli americani cercassero, non poteva immaginarlo perché era ancora tanto lontano dalla loro mentalità: gli americani cercavano il profitto, cercavano la ricchezza materiale, e non si curavano d'altro. E adesso, l'osservazione dell'indiano riguarda tutto l'Occidente americanizzato.
    L'approccio di Jung è condivisibile, io credo, ma oggi la situazione si presenta in termini ancora più drammatici. Ciò che nel secolo scorso era feroce e predatoria conquista coloniale da parte delle nazioni europee, oggi si è trasformato nell'immenso potere dei grandi centri mondiali della finanza e dell'industria. Dinanzi a questi poteri e alla globalizzazione che essi promuovono, i piccoli stati sono del tutto impotenti. Quanto poi riguarda gli stati egemoni, come gli Usa, è chiaro che essi fanno "valere le loro risorse politiche al fine non già di controllare l'enorme potenza dei centri finanziari e industriali che dominano il mercato globalizzato, bensì di realizzare una forza che non ha precedenti, la compenetrazione tra governo, interessi affaristici, complesso militare-industriale; così che la politica estera e militare dell'America appare chiaramente orientata a mettere le risorse dello Stato a disposizione della propria plutocrazia nazionale, che costituisce al tempo stesso il maggior nucleo propulsore della globalizzazione, la quale si configura come un'americanizzazione che permea l'Occidente e il mondo intero" (M Salvadori, 2003:69).
    Questo processo di occidentalizzazione o americanizzazione del mondo intero distrugge inesorabilmente la cultura, i valori, le tradizioni, le istituzioni e le credenze dei popoli orientali e africani e li rende uniformi. E questo accade proprio per la legge ferrea del profitto economico: "La produzione sempre più allargata delle merci ha bisogno di consumatori che abbiano gusti uniformi in ogni parte della terra dove la globalizzazione si estende" (M. Salvadori"2003: 71).
    Un processo di impoverimento e di omologazione avviene sia negli ambienti fisici naturali sia in quelli e creati dall'uomo. Le città del mondo tendono tutte a rassomigliarsi, le specie animali scompaiono, le foreste e gli habitat naturali sono distrutti, la natura è abusata. Ma nello stesso Occidente la situazione non è più felice: i ricchi diventano sempre più ricchi, gli speculatori finanziari prosperano, e aumentano i poveri, i disoccupati e i lavoratori precari e sfruttati.

La felicità di noi “americani”

   I popoli ricchi non sono felici. Si prenda come esempio il popolo americano. Gli americani sono, o sono stati finora, alla guida del “progresso” e di tutte le nuove tendenze che riscuotono successo nel mondo. Hanno realizzato grandi opere, e i più benestanti tra di loro hanno uno stile di vita grandioso, hanno quasi la necessità interiore di vivere una vita alla grande. Devono vivere in case grandi, guidare automobili smisurate, costruire autostrade a dodici corsie, edifici che sfidano le nuvole, grandi portaerei, e così via.
    Non si può fare di tutta l’erba un fascio, perché, come si sa, esistono anche negli Stati Uniti diverse realtà e tendenze alternative. Ma parlando in generale, potremmo ben dire che gli americani vivono alla grande e mangiano anche alla grande, continuamente, e sono nella maggioranza grandi, cioè obesi. Ma molte delle realizzazioni degli americani sono esterne, riguardano le cose e il corpo. Gli americani pensano in termini di vendite, di soldi, di profitto, ma non sono soddisfatti in rapporto a diverse cose, per esempio, come dicevo, in rapporto al cibo. Mangiano in continuazione, forse ossessivamente. Inoltre, all’enorme quantità di cibo che ingeriscono, si aggiunge l'altrettanto enorme quantità di cibo che gettano. Nella stragrande maggioranza delle case, come raccontano molti testimoni veritieri, il cibo non consumato e gettato via è un terzo, se non più, di quello acquistato. Qui ovviamente c'è qualche problema, che non è solo una mancanza di buon senso e di risparmio, ma è anche di natura affettiva e psicologica; un uomo felice, cosciente, e che ha una buona consapevolezza del proprio corpo, non mangia in continuazione e, salvo casi di disfunzione ormonale, non è obeso. Invece, l'obesità in America è un problema nazionale. L'americano che desidera essere felice deve quindi cominciare a essere consapevole di quello che mangia e di quanto mangia.      
    Nel lontano 1912 Carl Gustav Jung si recò negli Usa su invito della Fordham University di New York. Credo sia molto interessante l'impressione che egli ha ricevuto dal contatto con gli americani, e, anche se molto tempo è passato, le sue osservazioni restano attuali e spesso confermate dagli eventi successivi. Jung crede che la mente degli americani sia molto immediata, molto logica; si occupa "per tanta parte del tempo di quello che chiamiamo realtà, cioè del materiale grezzo della vita" utile per produrre grandi imprese, per costruire grattacieli. Il loro scopo è l'efficienza, e in tal modo hanno costruito un sistema grandioso” (1995:47). Ma allo stesso tempo la mente degli americani è molto semplice, non nel senso di essere illogica o disarticolata intellettualmente o tecnicamente, ma nel senso di essere unilaterale, di non tener conto dei risvolti importanti delle situazioni e dei rapporti. Ecco quindi che agli americani piace "chi ha solo un'idea per volta" e "se un uomo ha due idee contemporaneamente loro diffidano di lui. Se invece ne ha una sola gli danno ogni possibilità di realizzare la sua iniziativa"(1995:51). Ma allo stesso tempo gli americani non s’interessano di cose profonde, si distraggono facilmente, e seppelliscono nell'inconscio tutto ciò che riesce loro sgradevole.
    Jung ripete diverse volte il suo commento sull'infelicità degli americani. "L'America è il paese delle malattie nervose, e ogni malattia nervosa contiene un elemento psichico. La malattia è la dolorosa testimonianza di qualche conflitto nel corpo e nell'anima" (1995:49). L'americano è in generale competitivo, conformista, non si ferma a riflettere sulla validità delle sue fondamentali verità che egli acriticamente ritiene vere e ingenuamente quanto efficacemente esporta in tutto il mondo.
    Secondo Jung, quello di cui l'America ha bisogno, ed io direi, quello di cui adesso tutto il mondo americanizzato ha bisogno, "a fronte della potentissima spinta verso il conformismo, verso il desiderio di beni materiali, di cose che complicano la vita, verso il desiderio di essere uguali al proprio vicino di casa, di superare tutti i primati, e cosi via, è la capacità, grandiosa nella sua semplicità e salutare, di dire No. La capacità di fermarsi un attimo e di capire che molte delle cose desiderate sono superflue per vivere felici, e che sforzarsi di vivere esattamente come il nostro vicino 'arrivato' significa andare contro i dettami sostanzialmente diversi della nostra intima personalità. Giacché siamo verosimilmente molto diversi nell'intimo dal nostro vicino, e se decidiamo di uniformarci, di cambiarci, creiamo in noi un conflitto che sfocerà sempre, presto o tardi, in qualche forma di nevrosi, di malattia, di follia. Tutti noi incominciamo ad avvertire che qualcosa non funziona nel mondo (…) tutti abbiamo voglia di semplicità. Tutti soffriamo, nelle nostre città, per la mancanza di semplicità" (Jung, 1995:83).



La felicità di chi paga le tasse

    A parte quanto detto, un serio motivo per cui gli americani e gli occidentali in generale non possono essere felici è che pagano troppe tasse. Questo non sarebbe un male se i governi spendessero bene i loro introiti. Invece, gran parte delle tasse vanno a finanziare la costruzione di armi. Nel giornale "La Repubblica" dell'undici dicembre 2003, James Wolfensohn, presidente di un istituto bancario internazionale dichiara: "basta con le spese militari. Bisogna dare più risorse allo sviluppo". Egli dice, inoltre, che si utilizzano nel mondo per le spese militari "ben 800 miliardi di dollari l'anno contro i 56 per lo sviluppo. Bisogna fare il contrario e bisogna spiegarlo alla gente". Bisogna spiegare agli americani e a tutti i popoli "civili" distratti che la maggior parte delle loro tasse viene impiegata per la costruzione di armi micidiali, di mine che ammazzano o feriscono bambini innocenti. Bisogna dire ai popoli ricchi che nel mondo due miliardi di persone vivono con meno di due dollari al giorno. "Un'enormità" prosegue Wolfensohn, e "invece le risorse vanno alle armi, alle guerre. Per lo sviluppo restano solo le briciole". (La somma che si spende negli Usa per armi è enorme, 400 miliardi di dollari nel 2004, cioè la metà della spesa complessiva mondiale, senza contare le spese supplementari ispirate dalla guerra in Irak e in Afghanistan, (Terra Nuova, dic. 2003).

La felicità nel lavoro  

    Il territorio del lavoro è anche lo spazio attraverso cui si manifesta la necessità di socializzare, anche per una ricerca o una conferma dell'identità. Inoltre, il lavoro può diventare un mezzo attraverso cui raggiungere il benessere oltre il livello della sopravvivenza. Gli operai, i salariati, gli impiegati, stimolati da un generale atteggiamento rivolto all’acquisto e al consumo, sognano il maggior benessere economico attraverso cui credono si possano schiudere innumerevoli nuove possibilità e nuove scelte. Sia nelle società occidentali sia in quelle in via di sviluppo, il benessere economico viene percepito come un passo verso l’autonomia, verso una libertà ben oltre l'affrancamento dal bisogno. Ma viste da una prospettiva più ampia e più profonda, le cosiddette libere scelte di vita all'interno di una società ricca sono, di fatto, delle scelte scontate e prevedibili; finiscono spesso col riferirsi di più alla marca particolare o alla forma di un bene di consumo e meno alla questione se tale bene sia utile o inutile, necessario o meno. I beni prodotti sono innumerevoli e appaiono indispensabili all'interno di un contesto in cui i comportamenti sono uniformi. Le offerte di beni sono innumerevoli e se i soldi cominciano a non bastare occorre guadagnare di più per soddisfare nuovi bisogni, che però, una volta soddisfatti, sono sostituiti da bisogni nuovissimi e prima insospettati. Il lavoro diventa quindi il territorio di questa corsa strana, che però è percepita come necessaria e inevitabile. Il lavoro che dovrebbe essere un mezzo per nutrirsi e per vestirsi, per vivere, per collaborare, per ricercare e per riconoscere e sviluppare le proprie potenzialità, diventa quindi, se svolto principalmente per il guadagno, una corsa stressante, un circolo vizioso di insoddisfazione e frustrazione.
    Ma gli effetti collaterali di un lavoro svolto solo per i soldi, e quindi anche di un lavoro ripetitivo, noioso, non vocazionale, sono la perdita dell'autostima, la depressione, l’evasione, la teledipendenza, la continua ricerca di visibilità e di ammirazione, l’ansietà, lo stress, l’energia bloccata.
    Quando ero studente, passai alcune settimane lavorando nella catena di produzione di una fabbrica di birra della Svizzera. Il mio lavoro consisteva nel deporre delle casse di bottiglie su di un rullo trasportatore. Quando le casse si dislocavano o erano messe di sbieco, il rullo si inceppava, e si fermava anche tutta la catena. Arrivava quindi il caposala per ispezionare e mettere le cose a posto. Il lavoro divenne subito terribilmente noioso e, per renderlo più stimolante, ogni tanto mettevo di sbieco le casse sui rulli, che si fermavano, e me ne stavo quindi a guardare la faccia perplessa del caposala. Ma presto egli comprese la causa del problema, ed io fui messo a pulire il deposito dei cassoni di birra. Qui feci amicizia con un giovane assistente universitario polacco, anche lui condannato a spazzare il pavimento. Mi disse che la retribuzione mensile nella fabbrica svizzera ammontava a quello che guadagnava in sei mesi nella sua Polonia. All'università il lavoro gli piaceva, mentre qui il lavoro era noioso ma "ben pagato" e, dovendo sposarsi, gli occorrevano i soldi.
    Tra gli operai c’era un signore calmo e rassegnato che da dodici anni controllava che le etichette delle bottiglie di birra fossero incollate per il verso giusto e che ci fosse sempre colla sufficiente nell’apposito contenitore. Mi disse che la notte, prima di addormentarsi, continuava a vedere le colorate etichette passargli davanti agli occhi; una specie di mantra visivo che lo aiutava a prendere sonno. Aveva una famiglia da mantenere. Lavorava per guadagnare soldi. C'era quindi un “accordo” tra gli obiettivi principali della fabbrica e gli obiettivi dei lavoratori: la necessità del profitto.
    La modalità di produzione, la forma dei rapporti tra i lavoratori e i dirigenti, tra le macchine e gli uomini, diventano elementi secondari, considerati principalmente attraverso la necessità del profitto economico, che viene quindi distribuito in modo diseguale tra operai, dirigenti e direttori esecutivi. E, tuttavia, può essere vivo in molti il desiderio che il lavoro offra un senso oltre che un reddito, che sia un valore intrinseco e non puramente strumentale, e che l’ambiente di lavoro sia anche ricco di rapporti significativi.
    Nella fabbrica suddetta gli esperti birrai che determinavano il sapore e la qualità della birra sembravano soddisfatti. Uno di loro mi mostrò con orgoglio come avveniva la fermentazione, gli ingredienti usati, e mi fece gustare le diverse birre. Era soddisfatto perché poteva creare, organizzare il proprio lavoro, prendere iniziative, comunicare con i dirigenti e gli operai. Ma in un ambiente di lavoro più umano, anche gli operai, e non solo i tecnici, dovrebbero avere la consapevolezza di svolgere un lavoro necessario che può essere anche piacevole. Anche gli operai che eseguono lavori umili potrebbero sentirsi soddisfatti nel non essere considerati solo come un elemento produttivo, alla stessa stregua di una macchina. La soddisfazione nel lavoro si attua quando le aziende operano non prevalentemente come creatrici di profitto, ma come produttrici di servizi e di beni realmente necessari, o almeno effettivamente utili, quando diventano luoghi sociali di ricerca, di comunicazione, di partecipazione nelle scelte, di sviluppo delle risorse interiori di tutti i lavoratori. Ma così non è adesso in molti ambienti produttivi, e allora la situazione di disoccupazione può essere un guadagno rispetto ad un lavoro alienante e stressante, sempre che permangano, però, mezzi minimi di sussistenza o che esista una realtà sociale di solidarietà e di mutuo soccorso.


CAPITOLO QUARTO


LA FELICITÀ TRA DESIDERIO E BISOGNI

*

La felicità come ripetizione del piacere

    La continua successione di piaceri costituisce, secondo alcuni, la felicità. Per il biologo H. Laborit v'è un legame essenziale tra desiderio e felicità, e questa non sarebbe altro che la ripetuta esperienza della situazione gratificante. Ciò vale a dire che la felicità "abbraccia la successione ripetuta di desiderio, piacere e benessere"(1990:96). Si desidera qualcosa, si prova piacere nell’ottenerla, si riprende a desiderare e si riprova piacere nella soddisfazione del desiderio. E si rimane felici nella continua ripetizione di tale processo. Ma tale concezione della felicità tende a ridurre l'uomo a un meccanismo biologico di desiderio e di appagamento, e allora l’esistenza umana sarebbe costretta dalla necessità di soddisfare i desideri, veri o indotti, che si manifestano continuamente.
    Laborit afferma, inoltre, erroneamente, che non si può essere felici se non si desidera niente. Credo, invece, che sia data sempre all’uomo la possibilità di comprendere e superare il meccanismo del desiderio. Occorre cioè comprendere il legame esistente tra i vari desideri e i bisogni corrispondenti, e ulteriormente discernere i bisogni naturali, o reali, e da quelli indotti. È vero, quindi, che i desideri che derivano da bisogni reali devono essere soddisfatti, mentre i desideri legati a bisogni indotti possono ben restare insoddisfatti o superati senza gran sofferenza. Inoltre, se uno stato di autentica soddisfazione e di quiete segue l’appagamento di un bisogno reale, è anche vero che i bisogni meramente mentali, o indotti, non possono essere mai realmente e profondamente soddisfatti, e questo per il semplice fatto che non sono reali. Per esempio, il bisogno avere un indumento che ci protegga dal freddo è reale e può essere semplicemente soddisfatto, ma il bisogno di possedere un abito firmato e molto costoso non deriva da una necessità concreta, ma è un bisogno psicologico indotto, idiosincratico o culturale, che può apparire essenziale ma non può avere una soddisfazione reale a duratura. Anche se temporaneamente appagato, si riproduce continuamente, soprattutto se nato in una mente che non sa riconoscere un limite alla vanità e al lusso. Il meccanismo del desiderio causato da bisogni indotti o mentali è senza dubbio perverso. E inoltre, l’individuo che si volge alle cose esterne desiderate non per reale necessità, può nello stesso tempo essere ignorante dei bisogni interiori; e proprio perché questi non sono riconosciuti e soddisfatti, allora i piaceri derivanti da cose esterne assumono maggior importanza. Molto semplicemente ma saggiamente riferisce B. Rajneesh che "anche se vi venisse dato tutto ciò che chiedete, - ricchezze, potere, prestigio, qualunque cosa - avrete la costante impressione che manchi qualcosa dentro di voi, perché questo qualcosa che manca non ha alcun rapporto con ciò che vi è esterno. Si riferisce alla vostra crescita interiore" (1998:192). Secondo quest’autore, quindi, la felicità non è causata direttamente da cose esterne ma è, potremmo dire, un effetto collaterale della crescita interiore; è una fioritura dell'anima.
    E tuttavia possiamo considerare che i desideri fanno parte della nostra costituzione umana e nello stesso tempo sono influenzati o indotti dal contesto culturale e si legano, inoltre, al valore e al significato che noi diamo al nostro essere nel mondo. Siamo inseriti in un contesto ove agiamo, pensiamo, lavoriamo, lottiamo per appagare i nostri desideri. Inseriti in questo flusso, non sospettiamo che tale situazione può talvolta essere perversa.
    Occorre quindi comprendere come funziona il “meccanismo” del desiderio, come viene stimolato, come sorge, e occorre quindi vagliarlo, essere guidati da desideri alti e non da quelli insulsi e bassi; occorre quindi anche considerare, seguendo un approccio epicureo, quali desideri nascono da bisogni veri, essenziali, e quali sono invece indotti. 



La quiete dopo la soddisfazione di un bisogno
   
    Per ogni desiderio bisogna porsi la seguente domanda: cosa mi accadrà se si compirà ciò che ho desiderato? Che cosa se non si compirà?  
Epicuro

   Gli uomini hanno bisogni che richiedono di essere appagati e che si manifestano alla coscienza come desiderio. Possiamo definire il desiderio, quindi, come la manifestazione di un bisogno che può essere reale o creduto tale. Il desiderio, inoltre, si lega a uno stato di eccitazione, che può quindi estinguersi. Occorre cioè considerare che al desiderio appagato segue una forma di quiete, che può essere momentanea o durare fino all’insorgere di un nuovo agitato stato desiderante.
    Diversi uomini di valore, saggi e mistici, valorizzano soprattutto la situazione in cui l'anima è quieta, situazione simile allo stadio finale del desiderio, cioè al suo soddisfacimento. Ma per essi la quiete rappresenta un valore che può perdurare e non essere più, quindi, solo un momento nel meccanismo dell'alternanza tra desiderio e soddisfazione. La quiete, pertanto, si dovrebbe realizzare non temporaneamente e saltuariamente, ogni volta che un desiderio è soddisfatto, ma in modo più duraturo attraverso la drastica riduzione dell’eccitazione causata dai desideri superflui. Vediamo insieme, quindi, se è possibile percorrere questa via, cercando di chiarire a noi stessi il meccanismo del desiderio.

Il desiderio di dopamina

    Alla soddisfazione di un desiderio può seguire uno stato di quiete, che dura finché il desiderio non si ripresenta. Il desiderio insoddisfatto, invece, si lega a una certa tensione o irrequietezza, che si può manifestare anche in un’alterazione dell’equilibrio mentale. La soddisfazione del desiderio elimina la tensione. È importante notare, comunque, che a livello meramente organico tale soddisfazione è associata alla dopamina, un neuro trasmettitore che, insieme a ossitocina e beta-endorfina, svolge un ruolo importante nella costituzione del piacere. La produzione di dopamina si lega alla soddisfazione di uno stimolo fisiologico naturale quale quello del sesso o del nutrimento, ma anche all’ascolto della musica e presumibilmente alla contemplazione del bello.
     L’ossitocina, d’altra parte, è una molecola che facilita le contrazioni del parto e rafforza il legame tra mamma e neonato; prodotta pure dai maschi, ma in minor quantità, è definita “l’ormone dell’innamoramento”, e aumenta durante lo scambio di effusioni amorose. Questo mediatore chimico avrebbe la virtù di renderci di buon umore e più empatici. Le endorfine, inoltre, anch’esse sostanze chimiche prodotte dal cervello, hanno un’azione simile alla morfina e ad altre sostanze oppiacee. È comunque molto plausibile che dopamina, endorfine, ossitocina e altri ormoni, come anche la serotonina, volgarmente denominati “ormoni della felicità”, possano prodursi senza grande dispendio di mezzi materiali. Le endorfine, per esempio, si producono durante l’attività sportiva e fisica, e andare in bicicletta attraverso meravigliose piste ciclabili non ne causa minor produzione di quella presumibilmente causata dalla guida di un costosissimo suv; e non occorre, inoltre, possedere un conto in banca smisurato per amare ed essere piacevolmente inondati di piacere dopaminico. L’ottimismo, un’attività vocazionale, una positiva visione dell’esistenza, l’amore, si legano agli ormoni del piacere. Anche una corretta e ricca alimentazione ha un effetto positivo sul benessere fisico del cervello. È noto, intatti che alimenti come il grano, le patate, il formaggio, il pesce, le noci, i fichi, l’ananas, le banane, come anche la cioccolata, aumentano la produzione di serotonina.
    Certo, non possiamo ridurre il piacere a fattori esclusivamente chimico-neurologici, e tuttavia gran parte del nostro senso di benessere ha una causa interna, anche se trova al suo esterno una motivazione che lo potenzia e che spesso ha un valore preminentemente culturale o personale, ed è quindi relativo. La situazione chimica del cervello di un “primitivo” soddisfatto per avere acquisito una collana di conchiglie, è identica a quella di un adolescente che ha acquistato un giocattolo tecnologico, o di un adulto che ha acquistato una fuoriserie; queste persone sono “felici” il breve tempo in cui agisce il neuro trasmettitore. Dopo pochi minuti, ore o giorni, il loro sistema nervoso si abitua al nuovo stato di soddisfazione, che perde di intensità insieme al valore dell'oggetto acquisito. Si ripresenta, a questo punto, lo stato di tensione che porta a una nuova azione di acquisizione. Partono altri stimoli, culturali e/o personali; si desidera una nuova collana, un nuovo giocattolo, una nuova automobile, o un nuovo rapporto sessuale. Si ripercorre, quindi, l’itinerario attraverso i vari stadi di: desiderio, appagamento, piacere, quiete; e poi subentrano nuovi stimoli, nuovi desideri e una nuova azione di acquisizione, eccetera. Il sistema odierno di mercato, di lavoro e di produzione, si basa su questo semplice  meccanismo di stimolo e di soddisfazione temporanea del desiderio; solo che tale soddisfazione è nella maggioranza illusoria poiché riguarda piaceri indotti e quindi non propriamente reali, cioè piaceri che non sono espressione di bisogni naturali e necessari. E solo i desideri necessari e naturali possono essere pienamente e realmente soddisfatti. Il desiderio che esprime un bisogno naturalmente inesistente, invece, non è realmente appagabile. E per questo motivo, quindi, la corsa alla soddisfazione di desideri indotti è senza fine. La società economica e dei consumi odierna è caduta in questa trappola.
    Potremmo quindi affermare che il nostro atteggiamento verso il desiderio può cambiare se e quando ne comprendiamo la genesi e le motivazioni. E tale comprensione va unita alla conoscenza di noi stessi come individui inseriti in un sistema culturale sociale dai cui valori siamo più o meno condizionati.
  
 I bisogni naturali e/o fondamentali

    Partendo dalla constatazione del legame importante che esiste tra bisogno e desiderio, possiamo valutare un determinato desiderio soprattutto se comprendiamo il valore del bisogno che lo genera.
    Per i sociologo Sabino Acquaviva i bisogni fondamentali si dividono in cinque classi: la prima classe è formata dai bisogni fisiologici, come quello di bere, di mangiare, di abitazione, di sesso. Alla seconda classe appartengono i bisogni legati alla sicurezza, alla mancanza di paura, alla prevedibilità, a un certo ordine nelle situazioni umane. Alla terza classe apparterrebbe il bisogno di intimità e di rapporti affettivi, d'amore. Alla quarta classe appartiene il bisogno di stima o di rispetto di sé stessi, e di riconoscimento da parte degli altri. E infine, alla quinta classe appartiene il bisogno di autorealizzazione, di utilizzare e di esprimere al meglio le proprie capacità e potenzialità (1994:77).
    Questa casistica non esaurisce, tuttavia, il numero dei bisogni che possono essere ritenuti fondamentali. Per esempio, alcuni sentono profondamente il bisogno di esplorare, di viaggiare, di sentirsi liberi, indipendenti e di non ricevere ordini. E di converso, è osservabile in altri il bisogno di essere stanziali e di controllare il proprio territorio. Altri hanno il bisogno di essere guidati e di ubbidire, e altri ancora di comandare e dominare.
    Ma un’attenta riflessione, unita forse allo studio dell’opinione dei saggi, potrebbe offrire, comunque, la possibilità di discernere un desiderio che nasce da un bisogno reale e profondamente sentito da quello che nasce da altra fonte, come per esempio dal conformismo, dalla vanità, o da un problema caratteriale. Importanti sono, a questo proposito, le indicazioni di Epicuro, secondo il quale si deve cercare di comprendere se il desiderio nasce da un bisogno naturale e necessario, oppure da un bisogno naturale ma non necessario, o addirittura da un bisogno né naturale né necessario. Non dovrebbe essere difficile, quindi, individuare e soddisfare i bisogni naturali e necessari ed evitare di perdere tempo soldi ed energia cercando di appagare tutti gli altri.

I bisogni infantili

    Quando riflettiamo sui bisogni fondamentali possiamo notare che essi danno adito a diverse possibili "complicazioni" dovute molto probabilmente a sintomatologie personali. Per esempio, il fondamentale bisogno di essere riconosciuto come essere esistente con le sue inerenti qualità, può trasformarsi nel bisogno di essere al centro di una data situazione o di essere ammirato; subentra la vanità di chi si sente vivo solo se può essere oggetto di attenzione. Oppure, il semplice bisogno di mobilità degenera e si manifesta nel desiderio di acquistare con duro lavoro, o con altri mezzi, un mastodontico fuoristrada. O ancora, il semplice bisogno di avere un luogo dove abitare, si complica nell’acquisto di diverse grandi e lussuose ville, e così via.
    L’atteggiamento di grande valutazione degli oggetti in generale, è “normale”, nel senso che è diffuso, e il possesso di innumerevoli beni e prodotti è quindi un valore che viene inteso in modo conformista: ciò che è mostrato nella pubblicità, ciò che i vicini, i conoscenti e gli amici già possiedono, viene desiderato e considerato come qualcosa di cui si ha bisogno e che è indispensabile, e nessuno mette in dubbio la necessità di possedere tanti oggetti senza i quali i nostri genitori ben vivevano. È vero che in alcune situazioni, soprattutto di lavoro, un’automobile è indispensabile, per fare un esempio, e tuttavia, in un mondo tecnologico e complesso come il nostro, attorniati da tante cose, non riusciamo più a distinguere i bisogni veri da quelli indotti, creduti veri solo per il fatto di essere generati e generalmente esistenti all'interno di una determinata cultura.
    Vi sono, quindi, innumerevoli bisogni del tutto innaturali e non necessari, che potremmo definire infantili, ai quali corrispondono pseudo desideri e pseudo piaceri che, secondo S. Fanti, motivano e determinano "la folle agitazione dell'individuo". Taluni bisogni sarebbero quindi la manifestazione di compulsive pulsioni inconsce che a loro volta generano un obbligatorio attivismo collettivo. E tanto assente sarà la consapevolezza della morbosità di tale obbligatorio attivismo quanto difficile sarà la ricerca di un vero benessere psicologico. Si ha bisogno di possedere molte cose e oggetti non essenzialmente necessari che una volta acquistati devono essere riacquistati in più grande quantità e in modelli più nuovi e mai infine completamente appaganti.
    Di fronte alla visione di tanti oggetti presenti nel mercato si tende a credere che se avessimo una gran quantità di soldi potremmo acquistarli ed essere soddisfatti. È vero, invece, che "l'incapacità a realizzare i molteplici desideri a base infantile non è la vera causa dell'insoddisfazione" (S. Fanti: 1992: 135). Infatti, anche quando i bisogni infantili sono stati appagati, l'insoddisfazione di base resta sempre in agguato, dato che la sua causa è più profonda, di natura più specificamente psicologica.


Identità e progettualità

    Per ben distinguere la qualità dei desideri, occorre considerarli e valutarli anche dalla prospettiva che tiene conto della formazione dell'identità. In questo senso i desideri sono da considerarsi non solo come espressione di bisogni fondamentali o indotti, ma anche come fattori che insieme ad attitudini e modi di vita formano e confermano una data identità. Anche l'oggetto del desiderio, una volta ottenuto, può divenire parte dell’io, individuandolo o, in alcuni casi di grande identificazione, come costituendolo.
    Inoltre, il desiderio si lega all'identità anche perché la rende operativa, progettuale e dinamica. Il desiderio di successo, per esempio, può spingere un giovane all’azione, e attraverso l’azione egli cambia, matura e conosce il mondo e se stesso. E può anche rendersi conto, quindi, se il desiderio di successo si lega armoniosamente alla sua vocazione più autentica oppure alla vanità. Una cosa è, infatti, per fare un esempio, se un giovane dotato di talento musicale lotta per il suo riconoscimento, nello stesso tempo rimanendo fedele alla sua vocazione; e altra cosa è se vi rinuncia optando verso la cieca ricerca del successo in sé e per sé. In entrambi i casi il desiderio è un movente, ma chi segue la propria intima vocazione rimane se stesso anche se non ha successo, mentre chi rinuncia alla propria vocazione per una qualsivoglia carriera di successo, rimarrà essenzialmente e intimamente insoddisfatto. 
    E tuttavia, talune fortuite e incontrollabili circostanze delle vita potrebbero rendere difficile la conoscenza e la coltivazione dei propri doni e delle proprie inclinazioni e, d’altra parte, succede, forse molto spesso, purtroppo, che un dato desiderio sia culturalmente indotto e renda progettuale e dinamica delle identità uniformate, che finiscono col darsi molto da fare, anche stressandosi, per essere al passo con i tempi, per non essere diversi, condividendo, con piccole personali variazioni, i valori correnti. Ed è vero, quindi, che gli uomini della nostra società dovrebbero faticare molto qualora intendessero realizzare la loro più profonda e autentica identità e progettualità. E solo in seguito al compimento di tale fatica, una volta divenuti consapevoli della determinazione sociale dei loro approcci esistenziali, e persino dei loro desideri, e quindi liberati dal conformismo, dalle distrazioni mediatiche e dalle mode, essi potrebbero essere in grado di ritrovare se stessi.

Il “fondo” di noi stessi

    Chi cerca se stesso e la sua interiore consistenza potrebbe ritrovarsi in un rapporto alto, essenziale, quale può essere quello con la propria anima o con l'infinito, ma forse, prima ancora di questo, egli rischia di trovare e realizzare un vuoto o il senso della sua "nullità". È interessante notare l’opinione di Heidegger a proposito. Di fronte a sé stesso ed alla sua stessa esistenza, fuori dalla protezione del conformismo, l'uomo proverebbe angoscia: l'angoscia causata essenzialmente dalla certezza della morte e quindi dalla possibilità del suo "nulla". L'uomo diventa "qualcosa" nella realizzazione dei suoi desideri, nel fare, nelle cose e nelle immagini in cui s’identifica, nelle sue azioni e nei suoi traguardi, pur se talvolta sono passeggeri o inconsistenti. Fuori da tutto ciò che è effimero e mutevole, egli si ritrova in un non luogo, un "nulla" dell'esistenza in sé. E la consapevolezza di questo nulla procura angoscia a Heidegger, come forse molti di noi. E se questo è vero, allora è anche vero che lo stare nell'esistenza con la progettualità del sempre fare qualcosa e con la fretta è una fuga da noi stessi, dalla situazione in cui ci troveremmo soli con la nostra più profonda "identità", vale a dire con il fondo di noi stessi, che si presume esista oltre ogni attivismo fine a se stesso, oltre ogni immagine e identificazione, oltre il possesso e l’incessante desiderio delle cose. Questo non voler o non poter stare di fronte a sé stessi forse ben spiega, l’indaffarato andirivieni degli uomini, la diffusa ricerca di cose, come anche l'inseguimento della visibilità. Se non riesco a esistere per me e in me stesso, cerco di esistere nello sguardo dell’altro, desidero, cioè, divenire una buona immagine per gli altri.

Bisogno di ricchezza e di immagine come rimedio dell'inadeguato sentimento di sé

    Il non poter o il non saper consistere di fronte a sé stessi richiede che il senso interiore mancante all'esistenza si ricerchi all’esterno, nei beni posseduti, nello status, nella visibilità e nell’ottima immagine. E l’altro diventa importante se conferma il valore della nostra esistenza. Si ha quindi bisogno di essere visti, di essere notati, guardati, ammirati. E siccome gli altri molto più facilmente riescono a notare solo ciò che appare e nel modo come possono, allora occorre apparire in un certo modo, spesso a prescindere dalla propria intima consistenza. Si esiste nell’apparire, talvolta anche nella esibizione. Si pensi ai poveri ricchi che hanno la necessità di esibire le loro care cose, le quali acquistano maggior valore ai loro occhi proprio perché sono viste dagli altri. "L'esibizionismo (…) indica in senso esteso una condotta difensiva la cui finalità è quella di attirare lo sguardo ossia la considerazione altrui, per cui alle fragilità e insicurezze personali si risponde mostrando di possedere qualcosa, cercando di esistere attraverso lo sguardo dell'altro" (R. Venturini, 1995:194).
    Il desiderio di esibirsi o di essere visto, è senza dubbio espressione di immaturità. Una conformazione psichica insicura, carente e dipendente, tenderebbe quindi ad usare e concepire il mondo esterno, i rapporti, le situazioni  e le cose, come mezzo della propria convalida. In questo caso il potere, il benessere materiale, il successo, la visibilità, non sono più un effetto collaterale dell’attività dell'uomo che realizza una sua sana progettualità, ma diventano una necessità, un fattore di dipendenza, una realtà senza la quale l'identità si sente sminuita, o ritrova un suo proprio inadeguato sentimento. Il sentimento di sé vuoto, incompleto o angosciante, probabilmente già formatosi in alcuni rapporti frustranti dell'infanzia, permane nell'età adulta, e l'individuo continua a custodire al suo interno un bambino con cui intrattiene un rapporto infelice. Da qui nasce l’estrema fuga degli uomini nel mondo del fare, delle cose e dei riconoscimenti, il continuo essere indaffarati in mille distrazioni o nella ricerca del profitto, in speculazioni finanziarie, attraverso cui cercano di trarre con forza e astuzia il sentimento buono di sé che non hanno o non riescono ad ottenere in altro modo.

Bisogno del riconoscimento reale, oltre il successo e la ricchezza

    Anche in una società ingiusta come la nostra attuale, l'uomo di valore può essere riconosciuto, amato e apprezzato per ciò che è. D’altra parte, l'uomo di successo non sempre viene amato in sé ed esclusivamente per le sue qualità, se ne possiede. Egli viene "guardato" anche o solo come immagine valida che è valida proprio perché è universalmente "guardata". Si pensi, inoltre, a certi banali personaggi televisivi che sono famosi solo perché sono sempre alla ribalta. Lo sguardo degli altri ottenuto attraverso il successo esprime talvolta, quindi, una mancanza di rapporto diretto e vero più che un valore. In questi casi il successo sta alla mancanza di un profondo rapporto umano così come l'idolo sta alla mancanza del vero sentimento del sacro.
    Il bisogno di essere guardato, quando esiste, può essere appagato in modo veramente gratificante solo quando lo sguardo è d'amore e di vero contatto, quando esprime una comunicazione pregnante.
    Alcuni autori affermano che il buon sentimento di sé è una costante emotiva che nasce nell’infanzia e cresce nello sguardo materno. Infatti, "un sentimento di sé buono, positivo e stabile, è frutto soprattutto della fedeltà dello sguardo materno, vale a dire che la madre deve guardare sempre lo stesso bambino e sempre allo stesso modo" (Quaglia,1995:180). Anche poi, nel corso della vita, un essere umano può essere riconfermato nel suo positivo sentimento di sé dallo sguardo di chi lo ama. Il sentimento di sé costituisce, comunque, la base della propria identità e immagine, e si rivela e si riafferma come centro emotivo "stabile" prevalentemente all'interno di rapporti percepiti come stabili e quindi sicuri. L'essere si riconosce come identità valida nel sentimento di sé che nasce e cresce nel rapporto valido, profondo, quale può essere quello d'amore e di dialogo. Invece, il rapporto in cui una delle parti si pone e viene recepita come essere solamente o prevalentemente perché ha soldi e successo, è un rapporto che taglia corto attraverso la possibilità di un reale riconoscimento e di un'autenticità relazionale. In questo caso "rispetto" e "amore" potrebbero cessare se i soldi e il successo vengono a mancare.
    La realizzazione di rapporti autentici d'affetto, di simpatia e di amore, mi rendo conto, può sembrare ideale, e tuttavia non è rara. Succede, infatti, che delle persone si intendano a fondo e si rispettino reciprocamente per le loro qualità interiori, innate o coltivate; si dilettino insieme nell'apprezzamento della bellezza del paesaggio, della musica e dell'arte, si scambino idee personali e sentimenti autentici attraverso un buon carattere relazionale, ricercando e attuando una vita buona. 



CAPITOLO QUINTO

FELICITÀ RELAZIONALE ED ESISTENZIALE

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Felicità come fecondità e relazione
   
    Se cerchiamo in un dizionario etimologico troviamo che il termine “felice” ci riporta al verbo FEO, produco, che ha il senso proprio di fecondo. E, infatti, i termini fecondità e felicità, derivano dalla stessa radice sanscrita. Dallo stesso verbo deriva il termine “femmina”, che riporta, appunto, alla fecondità. Secondo questa originaria accezione del termine, felice sarebbe quindi chi produce e genera vita e opere. Ma la fecondità, la produzione, la creazione, implicano sempre la presenza della relazione; relazione con un altro essere umano oppure con un oggetto, che pur sempre al rapporto umano ci riconduce. Componente essenziale della felicità sarebbe quindi la presenza e l’ottima qualità della relazione, cioè creativa e produttiva di risultati e di significati.
    L’uomo è un essere sociale che nasce nella società e cresce emotivamente e mentalmente nel rapporto con i propri simili e, d’altra parte, le relazioni umane felici, feconde, armoniose, significative, lo gratificano profondamente. Se tali relazioni mancano, allora i soldi diventano più importanti: sono come le stampelle usate da persone che non si reggono bene in piedi, soprattutto in un ambiente privo di solidarietà umana e tra uomini che pensano prevalentemente o solo a se stessi. In mancanza di relazioni armoniose, in mezzo a lotte, incomprensioni, egoismi, i più capaci e furbi riescono ad affermare se stessi le proprie idee ed i propri programmi per mezzo del potere e dei soldi. E la ricchezza materiale sembra costituire, per certi versi, una via d'uscita dalle dispute. Chi è ricco paga l'attuazione della sua volontà e potrebbe apparire, quindi, più realizzato e soddisfatto. Si stabilisce un'equazione tra danaro e soddisfazione, ma questa è un'equazione che nasce da una difficoltà relazionale non risolta e rivela l'incapacità di trovare una soluzione di reale armonia.
    Il fattore della relazionalità, con sé stessi, con gli altri, con l’esistenza, assume quindi una grande importanza. Anche per C. G. Jung, le relazioni personali soddisfacenti sono una delle più importanti cause della felicità. In un'intervista pubblicata sul Sunday Times il 17 luglio 1960 Jung sintetizza i fattori fondamentali per la felicità dell'uomo: "Primo: una buona salute fisica e mentale. Secondo: relazioni personali e intime soddisfacenti nel matrimonio, nella famiglia, nelle amicizie. Terzo: la capacità di percepire la bellezza nell'arte e nella natura. Quarto: un livello di vita sufficiente e un lavoro soddisfacente" (1995:552).
    È interessante notare che Jung non considera la ricchezza materiale come una preminente fonte di felicità. Occorre, invece, che il livello economico sia sufficiente. Ma "livello di vita e lavoro soddisfacenti dipendono naturalmente in gran parte dalla ragionevolezza delle nostre aspettative e dal nostro senso di responsabilità" (1995:552).
   
La felicità relazionale dei ricchi

    Si può essere felici nel rapporto con altre persone, con un ambiente, un oggetto, o qualsiasi altro contenuto che ha qualità relazionale. Anche i casi di felicità provata in solitudine, come per esempio nella contemplazione del bello, possono implicare un rapporto particolare, vale a dire una compenetrazione con una certa realtà che è estetica, spirituale, e nello stesso tempo relazionale. Ma può altresì esistere una felicità senza oggetto, cioè senza un’apparente relazione con il mondo esterno, come per esempio nello stato mistico in cui l’essere è raccolto in se stesso come “fuori dal mondo”.
    Se però consideriamo il valore della relazione, notiamo che il più delle volte essa implica l'affermazione dell'identità, o dell’immagine. Si potrebbe dire, quindi, che ognuno ha bisogno di manifestare il valore, vero o presunto, che associa alla sua identità e, di conseguenza, gli appaiono felici le condizioni e le situazioni ove ciò avviene. E, di converso, la felicità relazionale viene a cessare o non si costituisce quando l’identità non è accettata e riconosciuta. V'è, quindi, un generale e legittimo bisogno psicologico di riconoscimento, che è soddisfatto nelle situazioni in cui la nostra identità, le nostre idee e le nostre azioni hanno un certo valore per gli altri e sono, appunto, riconosciute, o almeno considerate. Tale bisogno presuppone necessariamente la correlazione e denota una certa dipendenza dagli altri nella costituzione della propria identità e dell’autostima. Ciò spiega anche il motivo per cui taluni legano la propria identità alla ricchezza materiale che è, quindi, un mezzo tristemente e generalmente efficace per essere considerati riconosciuti  e per influire sugli altri.
    La ricchezza materiale implica per taluni, quindi, l’esistenza o la creazione di rapporti umani più o meno soddisfacenti e può essere ambita non tanto e solo  in sé stessa quanto ed anche come mezzo di rapporti gratificanti. Il ricco potrà permettersi un certo numero di servitori dai quali con soddisfazione ottiene prestazioni e riguardo in cambio di soldi. Un rapporto più o meno soddisfacente, anche se non necessariamente sincero e profondo, egli può stabilire con la maggioranza delle persone con cui si rapporta; gli basta entrare in un negozio di lusso e mostrare le sue carte di credito per essere benevolmente accolto e riverito. Anche in mancanza di amicizie e di rapporti sinceri, il ricco si muove nella vita con la soddisfazione di ricevere il rispetto, generalmente dovuto ai soldi, che lui potrà credere autentico e personale. Il ricco, quindi, non potrebbe piacevolmente spendere i suoi soldi in una situazione ostile, non potrebbe godersi le sue ricchezze in una situazione ove è in pericolo, ove è costretto a lottare strenuamente, a organizzare strategie di attacco, di offesa o di difesa. E allora, una situazione di vita semplice, ma ricca di rapporti umani piacevoli, profondi e sinceri, potrebbe essere preferibile a una situazione di ricchezza materiale usufruita in un ambiente asservito oppure ostile o conflittuale. Il rapporto armonioso tra gli uomini rivela quindi la sua grande importanza per chi ricerca la felicità, e ogni bene materiale o spirituale presuppone sempre qualche tipo di rapporto positivo. Anche chi pone il danaro come il bene tra i più grandi, alla fin fine attraverso di esso desidera stabilire con gli altri un rapporto per lui soddisfacente. Chi acquista un'automobile costosissima o qualsiasi altro oggetto di lusso, non lo fa solo per "necessità" ma anche e spesso soprattutto per un motivo relazionale, per essere ammirato e per dimostrare il suo status, il suo valore, che fa erroneamente coincidere con i suoi beni e con la sua capacità di far soldi. Attraverso l'oggetto materiale egli ricerca un tipo di rapporto favorevole e quindi per lui armonioso, anche se, purtroppo, egli intende l'armonia in modo unilaterale, cioè sotto l'aspetto della centralità e dell'importanza del proprio io che deve essere ammirato nella sua compenetrazione con gli oggetti posseduti. Il ricco, in altre parole, potrebbe essere considerato come un ingenuo o maldestro ricercatore dell’ottima relazione, che tenta di perseguire attraverso il potere dell’avere più che attraverso la qualità del suo essere; accumula ricchezza materiale invece di attuare il valore delle relazioni umane libere, sincere e disinteressate.

Felicità come armonia relazionale

    Tra le cause più importanti della felicità potremmo quindi senza dubbio annoverare l’armonia e la buona qualità dei rapporti; e chi si relaziona in modo sereno, fiducioso, costruttivo, ricco e piacevole con il prossimo, ha un grosso vantaggio nella sua ricerca di una vita felice rispetto a chi stabilisce o soffre rapporti negativi.
    E se, d’altra parte, l’armonia relazionale si basa prevalentemente sulla comprensione di se stessi, degli altri e della realtà dei rapporti, ogni comprensione, occorre dire, deriva dall’attenzione, e anche dalla riflessione e dalla ricerca: e si può forse imparare a rapportarsi bene con il prossimo e trarre soddisfazione o felicità dal rapporto allo stesso modo come si apprende a fare musica insieme, o come s’impara a eseguire bene un pezzo musicale al pianoforte? Il piacere che deriva dall'esecuzione musicale del solista o dell'orchestra si fonda sullo studio. La felicità può anche arrivare come un dono del cielo, e potrebbe nascondere in sé, in fin dei conti, elementi imponderabili che non è sempre possibile rivelare e riconoscere, ma svanisce allo stesso modo com'è venuta se non impariamo a riconoscerne le cause e a coltivarla; e l’attenzione, la riflessione e anche forse una certa disciplina possono creare le condizioni adatte per il suo fiorire. Potremmo quindi paragonare la felicità a una musica sublime: l'armonia musicale nasce nel cuore dell'uomo ma ha bisogno di applicazione e di tecnica musicale per esprimersi.
    L'armonia non implica l'omogeneità assoluta di valori, sentimenti, atteggiamenti e idee, ma è piuttosto la profonda corrispondenza e l'equilibrio di vari elementi e di varie parti, sia all'interno del corpo e dell'essere individuale, sia nei rapporti tra le persone e con le cose. Prendendo a prestito una definizione, quindi, della teoria musicale, potremmo dire che l'armonia è un accordo dolce di più voci e strumenti seppur differenti. È anche una coesistenza soddisfacente e un rapporto congruo e dialogico tra le idee.

La felicità degli uomini intelligenti

    Credo sia stato Epicuro ad affermare che occorre intelligenza per riuscire a essere felici. Ma questa verità sembra essere contraddetta dall’esempio di molte persone senza dubbio intelligenti e tuttavia poco felici. Si può essere un grande accademico, un grande chirurgo, un tecnico o uno scienziato, una persona di indubitabile sagacia mentale, e tuttavia avere nel cuore una tristezza, un dolore talvolta causato da una relazione difficile con il partner o da un rapporto non armonioso con i figli o con i colleghi, che potrebbero essere altrettanto intelligenti. E ad ogni modo, esistono diversi tipi di intelligenza, e chi sa far carriera, soldi e avere successo non ha necessariamente anche l'intelligenza delle emozioni, e può addirittura non avere alcuna consapevolezza e sensibilità dei propri ed altrui sentimenti. Anche alcuni intelligentissimi finanzieri, direttori esecutivi, uomini politici, strateghi, generali e condottieri, potrebbero mancare di sensibilità verso il mondo dei sentimenti propri e altrui. D’altra parte, gli uomini molto intelligenti e nello stesso tempo umanamente rozzi hanno successo e sono ammirati. Gli stessi libri di storia esaltano proprio tali uomini. E così, per esempio, s’insegna a scuola che Napoleone era un grand’uomo, un grande stratega, e si sorvola sul fatto che era anche un distruttore, che il suo successo seguiva i morti e i feriti in battaglia. La storia è piena di geni militari emotivamente rozzi, eppur intelligenti e lodati. L’intelligente condottiero spartano, Pausania, per esempio, capo della prima coalizione greca contro i Persiani, e vincitore della battaglia di Platea, è anche noto per la sua grande rozzezza emotiva. E infatti, “gli uomini al suo comando si irritarono ben presto per il suo comportamento arrogante e violento sia nei confronti degli alleati che dei cittadini greci dell’Anatolia, in particolar modo contro le donne. Questo tipo di condotta si sarebbe in futuro rivelato comune per gli Spartani in posizione di potere e lontani dalla loro patria. Il loro addestramento irreggimentato li lasciava evidentemente poco preparati ad agire in modo umano quando erano liberi dai limiti imposti dal loro stile di vita in patria, dove si trovavano sempre sotto il controllo di qualcun altro” (T. Martin, 2006:122).
    L’intelligenza, quindi, non apporta felicità se è disgiunta da altre importanti qualità umane. Potremmo anche dire che l'intelligenza delle persone felici si lega a un loro stato di consapevolezza umana e umanitaria, alla conoscenza di sé stessi, alla congrua valutazione delle azioni nella dinamica dei rapporti sociali. Ci riferiamo, quindi, non più tanto e solo all’intelligenza quanto alla saggezza. Se ricerchiamo la felicità dobbiamo quindi cominciare a discernere il valore delle cose cui la nostra coscienza ordinaria fa riferimento e capire se possono procurarci vero benessere e migliori rapporti.

La felicità nella ricerca di senso

    Possiamo considerare l'intelligenza, dal latino intus-legere, come la capacità di vedere o leggere dentro le cose, oppure come la capacità di scegliere e legare insieme, inter-ligare, elementi diversi di una cosa, di un problema o di una situazione. Ma l’intelligenza di per sé non ha un valore morale e può anche essere applicata per fini distruttivi; non vale molto se non è legata, come già dicevo, alla saggezza. L'intelligenza priva di saggezza serve, quindi, a escogitare efficienti strategie di competizione e di conquista, è quella dei grandi finanzieri e degli speculatori. Inoltre, anche le persone molto intelligenti possono nello stesso tempo essere infelici se la loro vita non ha un senso.
    Nella società tecnologica dei consumi tutto si può vendere e comprare. È rara la spontaneità del dono, del tempo non pagato dedicato all'ascolto, all'attenzione, al servizio. Non si ha tempo da “perdere” per fermarsi, contemplare, dialogare, ma si è disposti a vendere il proprio tempo, talvolta anche di perdere sé stessi ed il senso della propria vita in cambio di una ricompensa pecuniaria, e l'uomo che non riesce a darsi o trovare un significato vero e profondo, deve continuamente distrarsi per non cadere nella noia o nell’angoscia. 
    Gli americani continuano a scrivere libri su come diventare ricchi e famosi, ma accanto al diffuso desiderio di soldi, di sviluppo economico, di lavoro ben pagato, c'è l’essenziale bisogno di dare un senso alla propria esistenza, di attuare le proprie potenzialità umane, di avere rapporti armoniosi che rendano felice il sentimento di sé. E c’è anche, e forse soprattutto, il bisogno di avere una certa sensazione positiva della nostra posizione nell'infinito, cioè come uomini ancora capaci di meraviglia di fronte alla propria vita inserita in una realtà che la trascende.

La felicità dell’esistere

    All’interno della nostra vasta realtà individuale e sociale v’è un valore grande e importante, spesso dimenticato, che sta alla base di tutto e che deve essere riconsiderato e apprezzato: la consapevolezza dell’esistere. Carl Jung scrive che in fin dei conti "ciò che conta di più è esistere, ed è più raro di quello che si creda. Avere un compito quotidiano e svolgerlo bene; e nello stesso tempo prestare attenzione a ciò che avviene dentro di noi, oltre che all'esterno, essere coscienti della vita in tutte le sue forme, in tutte le sue espressioni" (1995:508).
    Secondo Jung la felicità è, quindi, un corollario dell'esistenza. Ma egli si riferiva, ovviamente, a una modalità d'esistenza particolare; l'esistenza cosciente. Ed è interessante notare come questa idea sia in fin dei conti “epicurea”. Infatti, come vedremo tra poco, per Epicuro l’esistenza in sé è piacere, a patto che sia libera dal dolore e, molto presumibilmente, egli doveva avere in mente l’esistenza consapevole  poi valorizzata da Jung.
    Il senso della frase Junghina: ciò che conta di più è esistere, si potrebbe rivelare soprattutto in alcuni casi estremi, cioè in quelli in cui tutto l'oro del mondo non serve a prolungare l'esistenza di un condannato a morte. Nel romanzo L'idiota, Dostoevskij, per esempio, racconta i pensieri di un condannato a morte. Sulla via verso il patibolo questi diventa profondamente consapevole del valore, del senso e dell'intensità dell'esistenza. In situazioni limite, e forse anche nei momenti di profondi mutamenti e crisi personali e sociali, può succedere, infatti, che l'uomo si risvegli, divenendo consapevole del valore dell’esistenza in sé. Il condannato confessa a se stesso, quindi, che se solo potesse andare indietro nel tempo, vivrebbe ogni momento con coscienza, consapevole delle sue azioni e del valore della vita. Succede, quindi, che proprio all'ultimo minuto, in prossimità del patibolo, egli riceve l’insperata notizia della grazia e ritorna libero. Ma poi, purtroppo, e nonostante tutti i buoni propositi, ritorna a vivere come prima, immerso nelle solite azioni e nei soliti pensieri, immemore del valore di ogni momento della sua vita.
    Non è del tutto impossibile incontrare, soprattutto nei paesi “sottosviluppati” delle persone povere di beni materiali ma ricche di serenità, spesso di gioia. Si può sentire presso di loro una certa calma, un dolce silenzio sgombro da pesanti legami con gli oggetti e non rattristato da pensieri inutili, da preoccupazioni, dal conflitto. Dal punto di vista comune occidentale tali persone sono ingenue, ed è comunque strano o sorprendente per una mente razionale che alcuni uomini possano vivere immersi in un'estasi gioiosa senza una individuabile causa esterna materiale. Ma ciò non dovrebbe sorprendere se si realizza che la felicità è un fattore endogeno, è l'esistenza in sé, liberata da superflui fardelli, è la celebrazione della vita. In determinate condizioni, tolti alcuni ostacoli, la felicità è prodotta naturalmente dalla psiche serena. L’assenza di stress, il non dover correre sempre a destra e a manca, l’assenza di invidia, il rifiuto di paragonarsi agli altri o a un'immagine ideale di sé, l’assenza di recriminazioni, di malattie, l’assenza di rapporti pesanti o gelatinosi, l’assenza di legame con innumerevoli oggetti esterni non necessari e spesso del tutto inutili; tutte queste "assenze" liberano il terreno alla manifestazione del senso del benessere inerente alla vita, e possono rivelare una ricchezza interiore spirituale. Chi è dentro la propria esistenza pienamente e consapevolmente è dentro la principale fonte della sua felicità.

La felicità come serenità

    Se ricerchiamo la felicità nel senso dell’esistere, possibilmente all’interno di una vita semplice, ci poniamo in un'ottica che è completamente diversa da chi cerca fama e ricchezza e, tuttavia, coloro che promuovono e cercano la ricchezza materiale ed il successo cercano e promuovono la stessa "utopia": la felicità. La differenza tra le due diverse prospettive sta principalmente nella considerazione dei mezzi più che nel desiderio del risultato. Da una parte si cerca la felicità fuori, dislocando il proprio sé più autentico nel possesso delle cose esterne, oppure attraverso la ricerca dell'identità “chiara” e “forte” che la fama, anch’essa un fattore esterno, può dare. D’altra parte, invece, si dà più valore all’interiorità, rimanendo centrati nel sé, perseguendo una felicità che, se raggiunta, è più solida. La felicità è un fatto interiore, ed è quindi giusto e logico cercarla lì dove si trova, e non fuori. I grandi filosofi, i saggi, i veri religiosi, credono, appunto, e affermano che la felicità ha origine in un quid, in un'alchimia difficile, ma possibile, che si attua nel cuore dell'uomo.
    Epicuro identifica la felicità con la serenità e credono la stessa cosa diversi altri saggi e filosofi. Anche il pessimista Schopenhauer, per esempio, afferma che tutto ciò che non apporta serenità non è forse degno di essere desiderato e "se si vuole giudicare la felicità di un individuo ricco, giovane, bello e onorato, ci si chieda se è anche sereno; viceversa, se è sereno, risulta indifferente se sia giovane o vecchio, povero o ricco: è felice". Inoltre, crede il filosofo, "alla serenità nulla contribuisce meno delle circostanze fortunate esterne" (1997:27).
    Torniamo allora al concetto di povertà positiva, da intendersi anche come serena libertà da pesi inutili e ingombranti. La ricchezza materiale, infatti, può rivelarsi un peso, un generatore di stress, un’inutile zavorra, un ostacolo per il libero e sereno godimento dell’essere nell’esistenza.


La felicità secondo Epicuro

    In realtà, se ben consideriamo, una volta liberati dai pregiudizi, dalle paure, dalle superstizioni, dai condizionamenti dei mass media, dal conformismo, e dai rapporti pesanti e infelici, una vita buona è più facilmente realizzabile. E, infatti, così liberati, e quindi riconnessi con il nostro naturale stato di serenità, non potremmo essere e sentirci felici? In questo stato in sé completo non abbiamo bisogno di superflue protesi esistenziali e soddisfiamo solo i bisogni che Epicuro definisce naturali e necessari, essendo in più allietati dal piacere dell’amicizia e dei rapporti veramente umani, sinceri e significativi. E non sembri questa una riduzione ai minimi termini del concetto di felicità, soprattutto se consideriamo che all’interno dei rapporti umani veri e armoniosi può aver luogo il perseguimento della nostra vocazione. E allora, riconoscendo le condizioni essenziali del nostro benessere psicofisico, o felicità che dir si voglia, riconosciamo nello stesso tempo l’illusorietà e la futilità delle cose prima ritenute importanti, e le abbandoniamo come un uomo che mette da parte i trastulli infantili. Ci liberiamo anche dalla necessità di compiere lavori strenui e alienanti per comprare oggetti inutili o per acquisire attraverso lotte e stress posizioni che non ci rendono intimamente felici.
    In realtà, ci avvediamo che abbiamo desiderato certe cose e certe condizioni non in sé stesse ma perché credevamo fossero portatrici di felicità. La felicità, quindi, in se stessa è ciò che cerchiamo e ci rendiamo conto che la sua ricetta non deve essere ricca di ingredienti e per ottenerla non occorre tanto aggiungere cose alla vita quanto, invece, occorre togliere ciò che è superfluo. Comprendiamo anche che la maggior parte dei nostri mali è opera nostra, se abbiamo scelto di vivere in modo complicato, e che possiamo in parte o del tutto evitarli conducendo un’esistenza semplice.
    È vero, tuttavia, che taluni sembrano vivere ricercando e perseguendo tutto ciò che li rende infelici e che porta sofferenza a se stessi e al loro prossimo. Per esempio, ricercano il potere come bene in sé, anche se tale ricerca si accompagna alla lotta, allo stress, alla prevaricazione o alla violenza. Ma generalmente le cose e le condizioni desiderate dagli uomini sono strumentali rispetto a ciò che è intrinsecamente voluto: la felicità. Ricerchiamo, quindi, gli oggetti, le condizioni, gli onori, la ricchezza, le immagini, e spesso anche il potere, non di per se stessi ma in vista della felicità che potrebbero procurarci mentre, invece, ricerchiamo la felicità sempre per se stessa e non strumentalmente. E allora, per esempio, posso desiderare di avere molti soldi in vista del piacere e del benessere che mi portano, ma non desidero la felicità in vista dei soldi che mi potrebbe procacciare. La felicità è fine a se stessa e, come afferma Epicuro, le condizioni per il suo raggiungimento sono semplici.
    Ho già brevemente menzionato le condizioni che secondo lui sono fondamentali per il raggiungimento della felicità. La teoria epicurea sulla felicità e la sua classificazione dei bisogni merita, allora, la nostra più profonda attenzione e considerazione. E proprio nell’attuale situazione storica la nostra attenzione deve essere focalizzata e profonda. Viviamo, infatti, ora forse più che nel passato, una situazione di crisi, che segue le ultime grandi innovazioni tecnologiche e le trasformazioni nei rapporti umani. E tali trasformazioni sono state e sono così radicali che le mutate condizioni della nostra esistenza non si lasciano più comprendere attraverso i vecchi schemi di pensiero e neanche alla luce degli atteggiamenti correnti, che sostanzialmente esprimono la posizione materiale e la volontà del potere. Tali atteggiamenti sono molto spesso acriticamente e inconsapevolmente condivisi dalle classi dominate e, con le verità che esprimono e sottendono, hanno portato e portano il profondo squilibrio che notiamo nel nostro ambiente naturale e sociale. Ma non è più possibile perseguire il profitto e in nome dell’economia e della finanza devastare ambienti naturali e antiche tradizioni umane; non è più possibile che il profitto prenda il posto che spetta all’umanità e alla felicità. Se questo trend continua, gli squilibri naturali e sociali risulteranno estremi e forse irreversibili. Ma se la situazione di crisi attuale non è consapevolmente avvertita dalla maggioranza degli uomini essi, pur tuttavia, vivono dentro la loro pelle e nelle loro particolari situazioni esistenziali un malessere crescente. E allora qui ed ora l’antica concezione epicurea dei rapporti umani amicali e significativi e della felicità può mostrare il suo valore per l’uomo contemporaneo. Tale concezione offre e ripresenta, infatti, un sostanziale ribaltamento dei valori correnti perché pone in primo piano la ricerca della soddisfazione dei bisogni umani profondi e universalmente validi, e costituisce, inoltre, un approccio fondamentale per il conseguimento della felicità o di ciò che il filosofo definisce col termine “piacere” che va inteso, però, come lui stesso, e non i suoi detrattori, lo intende.
    Epicuro viveva serenamente in una comunità di amici in un giardino ai margini di Atene ove nel 306 a.C. aveva fondato la sua scuola filosofica. Diversamente dai filosofi suoi predecessori e contemporanei che argomentavano prevalentemente su questioni astratte e metafisiche, Epicuro si occupava dei problemi reali dell’esistenza del singolo individuo. Il centro della sua riflessione era quindi “il problema dell’esistenza” su questa terra, dentro la nostra pelle, dentro la nostra vita qui e adesso. E, se vogliamo, questo è il “problema”, o la più grande immediata questione, che ogni uomo consapevole, sensibile sincero e razionale si pone. Tutte le altre questioni, infatti, assumono un’importanza secondaria o relativa quando e se l’essere in sé consapevolmente si risolve nella sua essenza, che non è astratta, concettuale, ma reale, sentita  e contingente. E per Epicuro, il “problema” dell’esistenza è risolto quando essa risulta prima di tutto serena. E questo non è dir poco perché, infatti, gli uomini sono invasi da turbamenti, da passioni, dal dolore e, soprattutto, da pulsioni e desideri la cui soddisfazione spesso implica lotte, conflitto, tensione, infelicità. E tuttavia, secondo Epicuro la felicità che consiste nell’assenza di turbamenti è una meta raggiungibile dall’uomo, il cui compito primo e fondamentale è, appunto quello di ricercarla e realizzarla. Ed alla serenità si aggiunge, afferma Epicuro, il “piacere”. La vita serena, infatti, è di per sé piacevole o, si potrebbe anche dire, felice. E nella filosofia epicurea il piacere, insieme alla serenità, costituisce il sommo bene.
    Occorre, quindi, fare attenzione al significato dato a tale termine. Il piacere infatti non è inteso dal filosofo come mero appagamento dei sensi e delle voglie umane o come soddisfazione dei bisogni che non sono naturali e necessari. Scrive egli infatti nella sua lettera a Meneceo: “Quando dunque diciamo che il piacere è un bene, non alludiamo ai piaceri dissoluti che consistono in grandi abbuffate come credono alcuni che ignorano o interpretano male il nostro insegnamento; ma alludiamo all’assenza di dolore nel corpo e all’assenza di turbamento nell’anima”. Per Epicuro il piacere coincide, quindi, con la stessa vita serena, e la vita serena, priva di turbamenti è in se stessa piacere, “ed è per questo motivo – aggiunge il Nostro – che riteniamo il piacere principio e fine della vita beata, perché lo consideriamo come il bene principale e innato”.
    Rapportando la sua concezione del piacere ai tempi moderni, potremmo ben dire che il piacere non consiste nella soddisfazione dei bisogni indotti, suggeriti dai mass media e resi “necessari” e dal conformismo, dall’imitazione e dalla vanità. E questa concezione epicurea del piacere ben si accorda, quindi, con la ricerca di una vita semplice e libera dai falsi bisogni, dalle artificialità, dalle complicazioni e dagli idoli della società contemporanea: una vita buona, se ben consideriamo, non richiede grandi investimenti economici ed è quindi alla portata di tutti.

Riesame delle nostre finalità
   
    Alla luce di una concezione epicurea della vita, e ancor più se la nostra esistenza è molto complessa, se siamo molto indaffarati, instancabilmente attivi, potremmo fermarci un attimo per riflettere sul significato e sul valore delle finalità delle nostre azioni, cercando di comprendere se, una volta realizzate, saremmo più felici.
    Si confronti, per esempio, la qualità di un’azione che ha senso e significato inerente, con l’azione e lo stato mentale di chi persegue indaffaratissimo e con accanimento un determinato fine. Ebbene, nel secondo caso la coscienza si dirige verso quegli elementi e quelle situazioni utili per il conseguimento di un fine particolare, tralasciando o calpestando altri elementi. Per esempio, se uno di sera discute di affari con un socio o cliente ed è fortemente interessato o identificato nel tema, tralascerà probabilmente di notare il fulgore delle stelle, il chiarore della luna, e forse anche il fatto che sua moglie se la intende con il suo cameriere, la cui coscienza a sua volta potrebbe essere diretta verso le donne e poco o quanto basta verso i soldi. Se un ingegnere di una multinazionale pensa principalmente al profitto che potrà trarre da suo lavoro, non si interesserà degli abitanti dei villaggi che sommersi in seguito alla costruzione di una diga, da lui progettata, che blocca un fiume. Se le conseguenze dannose del suo lavoro vengono portate alla sua attenzione, ne sarà indifferente o troverà delle ragioni a suo favore, e non cesserà di progettare grandi opere finché il profitto sarà il suo primo interesse. La stessa reazione potrà avere un chimico di una multinazionale al quale si rimprovera che i diserbanti da lui composti inquinano le falde acquifere e sono dannosi alla salute, oppure un costruttore di armi al quale si ricorda quale sia l’effetto distruttivo dei suoi prodotti. Ciò che risulta preminente nel suo lavoro è, appunto, il profitto. Sulla base di determinati fattori, quindi, la mente sceglie l’oggetto della sua attenzione e direzione. E tali fattori hanno, ovviamente, un’origine e un riscontro sia nella cultura sia nella conformazione psichica particolare di un individuo. Ma oltre a cercare di prendere in considerazione lo stato mentale caratterizzato dal perseguimento di un dato fine particolare di cui non si è consapevolmente vagliato il senso, potremmo anche chiederci, cosa succede nello stato della nostra mente quando, pur essendo vigili e svegli, e pure attivi nel nostro lavoro vocazionale, il cui senso è inerente, non perseguiamo alcun fine limitato quale può essere il danaro o il successo e la fama. Si tratta, si può ben supporre di stati contemplativi fuori dal tempo, cioè fuori dal tempo pensato e programmato che occorre per la realizzazione di un dato fine. Gli stati contemplativi hanno senza dubbio una correlazione nel corpo, nella sua postura e nel suo movimento e anche nel sentire o nel sentimento di sé. Chi ha in mente uno scopo e lo persegue ha il corpo proteso verso il fuori, in movimento, se non in agitazione. Inoltre, per realizzare ad ogni costo una data finalità occorre spesso lottare contro coloro che si oppongono o hanno finalità diverse, con lo stress che ne risulta. L’agitazione è causata anche dall’eccessiva identificazione nello scopo da raggiungere e dalla paura di non riuscire a realizzarlo. E la paura si lega spesso a una certa azione che ha una sua finalità sentita come preminente a scapito di ogni altra. Chi invece compie un’azione per il suo senso intrinseco e con piacere e partecipazione, non perseguendo uno scopo futuro ma essendo nello stesso tempo sveglio e vigile nel momento presente, non avrebbe timore o speranza. Essendo adesso e qui, non ha la coscienza rivolta verso un fine futuro, e potrebbe non avere paura o speranza riguardo una finalità che non esiste.
    Potremmo dire che ogni finalità di per sé, a meno che non sia veramente necessaria ed essenziale, crea una certa perturbazione di un dato equilibrio, personale o sociale.
    Un ambiente naturale e ipoteticamente libero da ogni intervento di finalità umane, tende sempre verso il proprio equilibrio e le varie sue componenti interagiscono limitandosi o favorendosi vicendevolmente in modo tale che nessuno di esse possa predominare e diventare un flagello, con conseguenze generali esiziali. D’altra parte, ogni forte influenza o intervento umano provoca verosimilmente la rottura dell’equilibrio.
    Anche gli ambienti umani possono essere visti come sistemi naturali che tenderebbero verso un loro equilibrio se non fossero presenti al loro interno le azioni troppo incisive di uomini che perseguono forti finalità. Un ambiente umano “naturale” contiene, ovviamente, varie finalità che però si equilibrano limitandosi o rafforzandosi vicendevolmente. Queste sono le finalità legate alla sopravvivenza e alla vita comunitaria pacifica cioè alle necessarie e talvolta e creative attività di scambi economici, culturali, umani. Se una di tali finalità diviene predominante, se per esempio un gruppo di persone pensano ed agiscono molto efficacemente per realizzare un loro obiettivo particolare a scapito di altre necessità ed esigenze, allora la loro azione crea necessariamente uno squilibrio. E gli squilibri grandi esistenti nella nostra società traggono origine principalmente, appunto, nel diffuso desiderio di profitto inteso come finalità importante e preminente. Tale finalità, perseguita acriticamente, anzi follemente e senza controlli, crea l’arricchimento di pochi e l’impoverimento di ampie classi sociali, la sottovalutazione di altri valori umani e, quindi, sofferenze e squilibri relazionali. Coloro che perseguono date finalità senza consapevolezza e rispetto del benessere dell’ambiente naturale e umano, non hanno neanche, presumibilmente, l’idea di essere distruttivi. Anzi, con le migliori intenzioni coscienti, ma coscienti solo di una finalità parziale, quale è, appunto, il profitto, distruggono l’ambiente naturale e umano, e di conseguenza, a lungo andare, anche se stessi. Tale azione distruttiva non si arresta se non interviene la consapevolezza, cioè la realizzazione della grande pericolosità di ogni finalità unilaterale ed eccessiva.
    D’altra parte, questa consapevolezza difficilmente può nascere all’interno di grandi agglomerati umani e tantomeno all’interno di grandi gruppi e organizzazioni multinazionali di potere i cui membri sono troppo protesi e identificati nella realizzazione delle loro finalità. Innumerevoli piccoli ambienti di collaborazione e di sopravvivenza, ma collegati tra di loro, ed esistenti fuori dalle leggi e dall’imperio delle multinazionali e dei gruppi finanziari, potrebbero invece costituire realtà positivamente equilibratrici. È importante, pertanto, che i membri di tali comunità non condividano i valori e le finalità dei gruppi dominanti. All’interno di piccole comunità conviviali, particolari finalità non dovrebbero diventare preminenti. Coesistono, invece, diverse finalità effettivamente legate al benessere e, ovviamente, individuate dalla ricerca comune, dalla collaborazione e dalla saggezza, cioè dall’effettiva conoscenza di ciò che costituisce il benessere dei gruppi e degli individui al loro interno.
    Tra gli importanti fattori e campi di azione che possono fungere da correttivi dei disequilibri causati dalle incisive finalità umane, preminente è l’amore in senso lato, che di per se stesso non è e non deve essere finalizzato. L’amore certamente crea situazioni amene e porta dei risultati positivi, ma non segue una finalità o un tornaconto personale.  
    L’amore si manifesta soprattutto all’interno dei rapporti io-tu, cioè non strumentali e di guadagno. La persona con cui ci rapportiamo è importante e degna di rispetto in sé e non come strumento di un nostro fine. E dato che la società non può essere amata che in modo astratto, mentre l’amore si rivolge ad individui reali e prossimi, allora i rapporti d’amore non strumentali e non finalizzati avvengono in piccole comunità tra i singoli individui e tra individuo e comunità e tra individuo e ambiente naturale circostante.
    E l’amore si rivolge anche a ciò che eleva l’uomo verso dimensioni che si presumono essere  prive di  finalità consapevolmente definite, come l’arte, la poesia, la letteratura, la contemplazione. In tali dimensioni la porzione della mente che di solito persegue fini limitati viene assorbita in una realtà o stato più vasto, ove operano e si manifestano fattori importanti di grande integrazione psichica e sociale.



CAPITOLO SESTO

ALLA RICERCA DI NUOVI PARADIGMI

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Così come siamo

    La realtà degli uomini è caratterizzata da conflitti, da incomprensioni, da guerre da sconvolgimenti climatici ed ecologici. Gli uomini politici servono, in generale, gli interessi delle grandi banche e delle multinazionali, si occupano prevalentemente di conseguire e consolidare il loro potere e attuano provvedimenti secondo prospettive limitate, sia umanamente sia temporalmente. Essi possono agire così perché anche i governati sono apparentemente insensibili o poco reattivi di fronte alle ingiustizie e allo stato di sofferenza del mondo, o non hanno gli strumenti culturali per eleggere governanti capaci e onesti. Oggi come nel passato, io credo, gli individui in generale perseguono edonistiche infantili distrazioni, e come persone immature e influenzabili sono trattati dai politici, dai potenti, dai mass media e dalla pubblicità. Le questioni veramente importanti non sono generalmente trattate dai mass media, e nella vita privata non si trova il tempo per stare insieme e dialogare. Non molti sono i genitori che hanno tempo e prestano attenzione intelligente vera e assidua verso i loro figli. E i ragazzi, lasciati soli tra i loro giochi tecnologici e di fronte ai mass media che li condizionano all’interno dei valori consumistici correnti, non hanno la possibilità di crescere emotivamente. La scuola, d’altra parte, non si occupa dell’educazione emotiva dei ragazzi. Uno sguardo attento su noi stessi e sui nostri simili ci rivela quindi, parlando in generale, un uomo infantile, circondato da innumerevoli beni, superficiale, distratto, spesso stressato e in lotta.
    Tuttavia, questa visione pessimistica seppure congrua, io credo, della nostra realtà, non è completa ed esaustiva. Infatti, mentre gli uomini in generale subiscono il condizionamento dei mass media e del conformismo, esistono oasi di consapevolezza che si manifesta nella ricerca di azioni valide e congruenti e di un’esistenza alternativa rispetto ai valori e alle politiche correnti. E questa nostra riflessione si inserisce quindi, pur nei suoi limiti, in un contesto di ricerca più vasto; un contesto poco visibile, eppure reale, oltre che importante.
    Gli uomini che sinceramente riflettono su questioni vere e importanti, ricercano e lavorano non solo in quanto individui singoli ma anche come espressione di un'umanità che cerca. I loro pensieri ed esempi si radicano in una ricerca generale.
    L'umanità occidentale da una parte è apparentemente persa in varie fughe e distrazioni, nel desiderio di consumo e di benessere materiale, e d'altra parte comincia a essere consapevole che i vecchi paradigmi del profitto, della separazione tra gli uomini, della furbizia e dello sfruttamento, non possono e non devono più guidare le azioni. V'è quindi adesso, anche se i problemi sono molti e forse gravi, un'avanguardia di uomini consapevoli.

Le avanguardie di nuovi paradigmi

    Supponiamo che gli strumenti del lavoro fossero caduti dal cielo nelle mani dei selvaggi, e questi uomini avessero vinto l’odio mortale che tutti hanno per un lavoro continuativo.
Jean-Jacques Rousseau

    La nostra situazione umana sarebbe ricca di meravigliosi sviluppi collettivi se un profondo mutamento paradigmatico avvenisse almeno in un piccolo ma influente numero di avanguardie.
   E questo è possibile se si considera, infatti, che i nostri paradigmi, gli approcci esistenziali, le premesse date per scontate che determinano le nostre scelte oggi sono, in realtà, la conseguenza delle azioni di gruppi marginali o, diremmo meglio, di piccole avanguardie del passato. Vorrei fare un semplice esempio. Nella nostra civiltà occidentale il lavoro è considerato la condizione normale e auspicabile per tutti gli esseri umani, mentre la disoccupazione è considerata una disgrazia, un male, se non un peccato. Inoltre, per avere una certa sua dignità, vale a dire per essere riconosciuto, il lavoro deve essere remunerato con i soldi. Più uno guadagna più il suo lavoro è generalmente considerato importante, e viceversa. Ma dovremmo forse riflettere sul fatto che in altre parti del mondo non è così, e non è stato sempre così neanche in Europa. Potremmo quindi notare e considerare che la nostra odierna etica del lavoro si è formata o perfezionata durante la rivoluzione industriale inglese in seguito all'impegno di certe avanguardie. Queste erano formate da veri e propri pionieri della "modernizzazione", i quali credevano in una nuova etica del lavoro e cercarono con successo di diffonderla tra masse di uomini refrattari ai nuovi paradigmi, uomini che mostravano una forte opposizione contro la necessità di un duro lavoro in fabbrica e che conducevano una vita semplice e generalmente tendevano ad accontentarsi del necessario, vale a dire di ciò che ottenevano attraverso il lavoro nei campi, seguendo il ritmo delle stagioni, o attraverso l'artigianato. Ma grazie all’opera forte e incisiva di certe avanguardie essi sono diventati gli odierni uomini inglesi, abitanti di un paese ove l'etica della produzione e del lavoro è sacra e diffusa.
    Secondo Z. Bauman le avanguardie della modernizzazione dovettero affrontare il problema dato dalla necessità di costringere all'esecuzione di compiti noiosi e ripetitivi "persone che erano abituate a dare un significato al proprio lavoro, stabilendone le finalità e controllandone gli sviluppi." Tali persone tendevano quindi a considerare prive di senso le nuove costrizioni. Per risolvere questo problema "bisognava abituare gli operai a una cieca obbedienza, (…) obbligandoli a svolgere un'attività insignificante ai loro occhi. (...) Il nuovo sistema di produzione industriale aveva bisogno di creature senz'anima: meri ingranaggi di un meccanismo complesso". La nuova etica del lavoro predicata dalle nuove avanguardie della rivoluzione industriale inglese "consisteva, fondamentalmente, nella rinuncia alla libertà. (…) La crociata condotta all'insegna di questa etica è stata, a tutti gli effetti, una battaglia volta a imporre il controllo e la subordinazione. Una lotta di potere, nella sostanza anche se non nella forma, per costringere gli operai ad accettare, in nome della nobiltà del lavoro, una vita tutt'altro che nobile o rispondente ai loro principi di dignità morale" (Z. Bauman, 2004:23).
    Importanti nuove avanguardie di imprenditori, di politici, filosofi e predicatori si servirono quindi dell'idea di "modernizzazione" come "incitamento o giustificazione dei loro tentativi di sradicare, con le buone o con le cattive, un'abitudine considerata come il principale ostacolo all'avvento del mondo nuovo che essi intendevano costruire: quest'ostacolo era costituito dalla tendenza diffusa a evitare, se possibile, la presunta benedizione del lavoro in fabbrica e la docile sottomissione al ritmo di vita stabilito da capireparto, dall'orologio e dalle macchine” (2004:20).
    Il giudizio morale, filosofico e umano, attorno al valore e alle conseguenze delle idee delle avanguardie della modernizzazione può variare, ma non credo che il loro ruolo possa essere negato. Le avanguardie esistono, e se quelle della rivoluzione industriale inglese, e tante altre, sono state negative e deleterie, tuttavia possono esistere, e forse esistono, io credo, avanguardie positive, il cui esempio può essere influente. Viviamo insieme, e i nostri pensieri, i nostri atteggiamenti e le nostre azioni hanno una grande influenza reciproca.
    Roberto Assagioli racconta che un suo amico "che era appena arrivato a New York e non aveva nulla da fare, uscì dall'albergo col proposito di girellare tranquillamente per la città. Ma dopo pochi minuti si accorse che stava andando a passo di carica ed era ansante. Meravigliato, rallentò l'andatura, ma poco dopo si accorse che di nuovo andava a passo di carica. Tutti intorno a lui andavano in gran fretta ed egli aveva subìto in modo irresistibile la tacita ma imperiosa suggestione del loro esempio" (Assagioli, 1988:202). 
   È difficile comportarsi in modo indipendente, sano e consapevole quando tutti gli altri attorno a noi corrono e perseguono le mete tipiche, e non necessariamente positive, del nostro tempo. Ma se il comportamento della maggioranza influenza quello dei singoli individui, è altresì vero che la maggioranza segue le mode, le tendenze e i valori dei pochi. Gli imprenditori e gli uomini ricchi e potenti, i dirigenti delle grandi banche e delle multinazionali sono una minoranza ma influenzano e guidano il gusto, le opinioni e le azioni delle masse. E allora, una nuova direzione intrapresa da pochi influenti e illuminati individui potrebbe essere altrettanto determinante. Se, per esempio, alcuni industriali decidessero di sostituire la produzione di petrolio con quella di pannelli solari, le folle si adeguerebbero e scoprirebbero all'improvviso, anche grazie a una concomitante azione pubblicitaria, di aver impellente bisogno di questi nuovi prodotti ecologi per riscaldare la casa. Da parte loro, gli industriali del petrolio e del carbone che si convertissero ai valori dell’ecologia, potrebbero pur continuare, in altro modo, a fare grandi affari. E, certamente, l‘unico modo per arricchirsi non è quello di estrarre e vender petrolio, impiantare nuove industrie automobilistiche, costruire autostrade, babelici grattacieli, gallerie, dighe che deviano fiumi e distruggono antiche comunità. Invece, la bonifica e l’irrigazione di terreni desertici, la costruzione di case coibentate circondate da orti e giardini, l’abbattimento di orribili palazzi frutto della speculazione edilizia, la riforestazione del pianeta, e via dicendo, potrebbero costituire una grande e remunerativa impresa economica. Ma se gli industriali e i pochi grandi ricchi continuano a essere i modelli di una forma di vita e di consumo deleterio, ciò è dovuto, io credo alla loro mancanza di fantasia, di vera intraprendenza, se non a cecità, inconsapevolezza o cinismo. È possibile, comunque, che le generazioni di vecchi industriali, legate alle loro obsolete idee diano spazio, per naturale rotazione generazionale, a giovani e saggi imprenditori. Al momento presente, i ricchi e i potenti che guidano il mondo non sanno essi stessi, io credo, in cosa consista il loro vero benessere; credono di attuarlo come esseri separati dalla natura e dagli altri, e non conoscono il piacere e la gioia della condivisione e della fratellanza, della solidarietà e della considerazione per i poveri. E si potrebbe dubitare, credo, sulla loro effettiva felicità.
    Gli uomini sono esseri sociali che vivono in comunità e s’influenzano reciprocamente in diversi modi. La diffusione della cultura e del dialogo è molto importante, ma anche la questione dell’imitazione, se non del conformismo, all'interno dei grandi gruppi, potrebbe indurci a valutare adeguatamente il fattore dell'influenza che pochi individui possono esercitare sia nei modelli di consumo sia nei rapporti interpersonali. Un nuovo modo di concepire i rapporti si attua non attraverso l'opera di "rivoluzionari" che, mentre sovvertono lo status quo politico, continuano a manifestare vecchi modelli di pensiero e di comportamento, ma attraverso la rinascita di valori squisitamente umani. Pochi individui consapevoli, veramente umani e saggi, avrebbero certamente nel mondo un'influenza grande già solo per il semplice fatto di star bene con sé stessi ed in mezzo agli altri; non perché possiedono cose preziose, immagini gratificanti di sé o verità assolute, ma perché sono autentici, saggi e solidali. Potrebbe quindi capovolgersi l'abitudine attuale diffusa nelle masse di seguire i modelli e le concezioni di vita di uomini ricchi potenti e allo stesso tempo vani, egoisti e incuranti del’ambiente e del prossimo.
    Scrive Assagioli che nel passato "i geni, i saggi, i santi, gli eroi, gli iniziati erano riconosciuti come avanguardia dell'umanità, come la grande promessa di ciò che ogni uomo potrebbe diventare. Ciò è affermato nei grandi incitamenti del Cristo: 'Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro nei cieli', e: 'Cose più grandi di quelle che io ho fatte farete anche voi'. Questi esseri superiori, senza disprezzare l'umanità comune, hanno cercato di suscitare in essa la spinta, l'anelito a trascendere la 'normalità' e mediocrità in cui si trova, a sviluppare le possibilità latenti di ogni essere umano" (Assagioli, 1988:73).
    Se cominciamo a osservare il mondo con vista nuova e a vivere una vita buona e serena, possiamo noi stessi costituire le avanguardie di nuovi paradigmi. Spetta a noi, quindi, proporre e mostrare soluzioni ed esempi, che siano veramente nuovi e pregnanti, cioè pratici e concreti. Chi vuole cambiare il mondo cominci da sé. Il mutamento della società e del mondo si lega intimamente al mutamento individuale nell’interiorità. L'uomo porta in sé e manifesta una tensione verso una reale possibilità di autoconoscenza, di completezza e realizzazione. Se un uomo cambia, il mondo comincia a cambiare.

Il ridimensionamento della ricchezza: una proposta per un’avanguardia di ricchi
 
    Si può talvolta, o spesso, intensamente sentire il desiderio di una vita ricca, di un'esistenza profonda, oltre le paure, le preoccupazioni, oltre i vecchi stili di vita e le vecchie abitudini. Questo desiderio, forse innato in ogni uomo, è nella nostra società generalmente indirizzato verso il possesso delle cose, verso il potere, il successo e il prestigio della propria immagine, oppure verso i divertimento e l’evasione. Ma talvolta un uomo, dopo aver conquistato successo, potere e beni materiali, si rende conto che persiste in lui un’insoddisfazione, una vaga inquietudine, se non un vuoto; ha tutto ma avverte una mancanza di qualcosa che non sembra saper definire; si manifesta in lui il desiderio di una vita profondamente umana e ricca di senso. E allora si ferma a riflettere, a ricercare un benessere più alto, e potrebbe anche forse cessare di percorrere le vecchie strade del potere, della ricchezza, del controllo. Esce dal suo paradiso artificiale e conosce il mondo, la vita reale dei suoi fratelli nelle bidonville, nelle periferie squallide delle grandi città, nei villaggi africani senza acqua e corrente elettrica, tra i disoccupati in attesa di un sussidio statale, tra i poveri in fila per un pasto alla Caritas, nelle stazioni ferroviarie di notte tra i barboni, sui barconi nel mediterraneo tra uomini e donne che fuggono dalle guerre e cercano asilo politico in Europa, tra gli immigrati clandestini che di notte sono assiepati in baracche e di giorno lavorano nei campi per quattro euro l’ora, in nero.
    A proposito dei paradisi artificiali costruiti esclusivamente con i soldi, possiamo considerare le parole di Gesù sulla possibilità che un ricco ha di entrare nel paradiso celeste: "È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio" (Marco 10:25). È difficile per un ricco entrare in paradiso perché egli si trova già nel suo "paradiso", vale a dire nella sua gabbia dorata che lo rinchiude fuori dal contatto diretto con il vasto mondo, con gli indigenti e i miserabili.
    E tuttavia, non è del tutto impossibile che un ricco illuminato e intelligente si ridimensioni, per libera scelta o per necessità, in un modo di vivere moderato, equo e felice. Non più in continua corsa e affanno verso l’avere, non più distratto dai beni materiali, potrebbe fermarsi a contemplare sé stesso, la natura, nuove prospettive esistenziali, e diventare quindi più consapevole della sua naturale tensione verso una vita vera, armoniosa e piena di significato. Se i ricchi riuscissero a liberarsi da molti pesi e distrazioni inutili, da molto lavoro stressante compiuto per fare soldi, da attività dirette dal conformismo di classe, avrebbero più tempo libero e la possibilità di sviluppare i loro veri interessi. La semplificazione dell'esistenza permetterebbe loro non solo di liberarsi dal peso di consumi eccessivi ma anche di eliminare le schermature di fronte alla vita. E solo qui, in questo loro contatto più diretto con la vita, le loro sintomatologie esistenziali possono trovare sollievo e trasformarsi in serenità.
    Attraverso il ridimensionamento della ricchezza e la semplificazione esistenziale si comincia davvero a percepire l'essenzialità e il valore della vita, propria, del prossimo.

Il percorso verso la conoscenza di sé: saggezza e semplicità
           
    I contenuti dell'animo umano, il suo dolore, le sue passioni, i suoi movimenti, possono anche non essere spiegati teoricamente, ma possono essere consapevolmente sentiti, osservati e visti, e la chiara visione, non caricata da complesse interpretazioni, può in sé stessa essere comprensione e base per ogni susseguente congrua e saggia azione.
    Si pensa alla saggezza come a un possesso piuttosto che come a una perdita. La ricerca della grandezza dell'io viene applicata anche alla concezione di una saggezza che consisterebbe nel possesso di conoscenze profonde, complesse e irraggiungibili ai più. La saggezza, invece, può essere strettamente legata alla semplicità più che alla complessità dei pensieri. I filosofi che sono anche saggi parlano chiaramente e in modo comprensibile indicano la verità. in mezzo a uomini apparentemente importanti che rivestono la realtà con ricamati drappi verbali, l'uomo semplice vede ciò che è chiaro ed evidente. Sudditi e cortigiani ciechi onorano un re nudo credendolo sontuosamente vestito, ma un bimbo lo guarda e lo vede com’è.
    Chi vive in un mondo complicato pensa a soluzioni complicate; si adottano soluzioni complesse per i problemi più vari, e si evitano le risposte semplici. Per esempio, costosi ansiolitici e cure di malattie psicosomatiche sono una soluzione tecnica complessa ma inadeguata rispetto a quella che può trovarsi in una vita semplice, armoniosa, non stressata.
    Un grattacielo di vetro, acciaio e cemento, è la soluzione complessa della semplice necessità di vivere e lavorare all’interno di una dimora. I grattacieli richiedono grandi spese per il riscaldamento e il condizionamento d'aria ma case semplici sono più facili da costruire e da mantenere. Chi prima poteva costruirsi una modesta casa con materiali direttamente e liberamente raccolti nell’ambiente, come legno, pietra, creta, adesso non può permettersi il costo dei materiali, delle pratiche burocratiche e dei progetti.
    Tutto l'Occidente funziona sul principio della complessità, che richiede l’opera di esperti e di operai e tecnici specializzati. E una delle conseguenze della dipendenza dai tecnici e dagli esperti è un venir meno del rapporto diretto con le cose e con i manufatti di cui non si cura più la manutenzione e che si buttano perché si guastano o solo perché il mercato e la pubblicità ne offrono modelli nuovi.
    La complessità è pervasiva, è spreco, che fa guadagnare alcune ditte, dà lavoro ad alcuni uomini, ma impoverisce l’ambiente.
    La complessità che richiede grande studio e grandi risorse è di fatto una visione ristretta delle cose e dei problemi; esiste perché la soluzione semplice spesso non richiede eccessiva organizzazione, né esperti, burocrazia, permessi, tasse, potere concentrato, e non fa arricchire nessuno.
    Le burocrazie centrali, le grosse imprese, le multinazionali, sono una risposta complessa a dei problemi semplici. È semplice vivere in un villaggio, usare energia solare, spostarsi in bici e con mezzi pubblici, produrre e consumare in loco, avere un giardino, coltivare un orto, riciclare i rifiuti. È molto complesso, inquinante e insostenibile, vivere in una grande metropoli, consumare energia prodotta da centrali inquinanti, guidare una grossa auto, acquistare prodotti e generi alimentari provenienti da luoghi distanti migliaia di chilometri, produrre tonnellate di spazzatura che va bruciata in nocivi e costosi inceneritori. Nel primo caso le decisioni e le responsabilità sono prese direttamente dalla gente, che lavora e produce in modo semplice, nel secondo caso, invece, si è governati da grandi ditte e multinazionali che lavorano per il profitto in modo complesso e sono lontane dalla vita e dai bisogni della gente. E la complessità crea profitto, quindi, prevalentemente agli organizzatori e ai tutori della vita complessa, alle grandi burocrazie e alle multinazionali; crea grandi costi ambientali e umani che ricadono sulla comunità.
    I deleteri effetti delle risposte complesse a questioni semplici sono adesso visibili dappertutto: città complesse, amministrazioni complesse, poteri complessi, problemi ambientali e di coesistenza umana sempre più complessi. Ma la complessità stressa l'uomo, lo irretisce in un insieme di cose e situazioni che non comprende e non controlla e da cui crede di non aver più una via d'uscita.
    La tecnologia complessa, che apparentemente risolve un problema, di fatto ne crea altri nuovi che richiederanno tecnologie ancora più complesse, e così di seguito in un circolo vizioso. Si pensi per esempio a una soluzione altamente tecnica del problema dell'energia. La costruzione di una centrale atomica è un'operazione molto complessa che richiede grandi investimenti, grande ingegneria, e crea pericoli e ripercussioni sull'ambiente i cui costi non vengono pagati direttamente dalle multinazionali costruttrici ma dalla comunità tutta, soprattutto dopo una catastrofe come ne sono avvenute. Le scorie radioattive richiedono ulteriore uso di lavoro e di tecnologia per essere trattate e conservate. Le malattie dovute all'esposizione alla radioattività richiedono ulteriore uso di complessa tecnologia medica. Senza contare che l'energia elettrica ottenuta viene molto spesso sprecata o usata per il lavoro di trasformazione delle materie prime in oggetti di consumo inutili, con ulteriore costo e danno ambientale, che poi richiederà ulteriore lavoro e tecnologia per essere risanato.
    La risposta molto più semplice al problema dell'energia è, prima e soprattutto, il risparmio, e poi l'utilizzazione di fonti d'energia rinnovabili e non inquinanti, l'uso di risorse locali che richiederebbero la responsabilità e il lavoro delle stesse persone che le utilizzano. In molti luoghi, per esempio, c'è molto spesso tanto vento da produrre con la sua forza energia in quantità. Nei posti meno ventosi delle basse valli alpine esistono ruscelli e corsi d'acqua ove potrebbero essere posti piccoli generatori più che sufficienti a fornire energia elettrica a gruppi di case e villaggi. Ovunque, inoltre, possono essere installati pannelli solari che producono energia a zero costo ambientale. Queste soluzioni implicano una maggiore autonomia dei piccoli centri e un ridimensionamento dei grandi e complessi organismi di produzione ed erogazione dell’energia.
    Complesse soluzione tecnologiche non riguardano solo, ovviamente, la questione energetica. Gli esempi potrebbero esser innumerevoli. Si pensi anche, per esempio all'uso dei fertilizzanti, alla grande quantità di concime nitrato versato nei campi che poi, attraverso le piogge, viene a immettersi nelle acque. Concimi ed erbicidi sono prodotti con moderni mezzi tecnologici da grandi aziende il cui principale interesse è il profitto più che il benessere delle campagne e dei coltivatori. Questi ultimi potrebbero risolvere il problema personalmente o localmente con un tipo di agricoltura biodinamica. Anche la raccolta selezionata dei rifiuti, con la trasformazione di quelli organici in compost fertilizzante, risolverebbe in modo tecnologicamente semplice e meno costoso il loro problema. La complessità, quindi, è nemica della saggezza e impedisce l'uso delle risorse nel loro stesso luogo di produzione; impedisce il coinvolgimento diretto delle persone nei loro problemi, crea disoccupazione.

Semplicità e bellezza

    Possiamo constatare che molto spesso le cose semplici sono anche belle.
    Non è questo il luogo ove definire un esaustivo concetto del bello; intorno ad esso variano molto i pareri, le teorie ed i gusti personali. Possiamo tuttavia dare alla bellezza una definizione generale, ma credo valida, definendola come armonia di rapporti.
    Senza quindi definire ulteriormente l'idea della bellezza, vorrei però porre l'attenzione sul suo rapporto con la tecnologia. La mia tesi è che un'opera costruita con mezzi tecnici moderati più raramente si rivela brutta o offensiva per l'ambiente. Inoltre, la tecnica moderata implica un rapporto più diretto tra le mani del costruttore e l'opera costruita. Di contrario, una tecnica elaborata e complessa che si avvale di macchine sofisticate, pone l'uomo ad una distanza maggiore dalla sua opera; ciò significa che egli la concepisce mentalmente e la sua visione mentale, grazie allo sviluppo della tecnica, può essere attuata senza alcun limite. Gli antichi potevano pur concepire una torre che raggiunge le nuvole, ma non potevano costruirla. I loro alti edifici dovevano quindi tenere conto dei mezzi esecutivi che una tecnica moderata poteva loro offrire. E tali edifici risultavano, a mio parere, armoniosi e belli.
    Visitando di recente la cattedrale di Siracusa ne sono rimasto colpito. Sappiamo che questa chiesa sorge nello stesso luogo ove sorgeva un tempio greco, e adesso lo ingloba. Le greche colonne esterne sono state unite da possenti mura, eppure continuano a mostrare la loro forza. Ogni colonna è composta di tre massicci blocchi di pietra, messi uno sopra l'altro con una tecnica certo mirabile e allo stesso tempo moderata. La vista di un tempio greco suscita in noi un senso di armonia e di semplicità. La bellezza non è creata attraverso complicati abbellimenti ma è data principalmente dallo studio e l'applicazione di un superbo senso delle proporzioni. Sarebbe bastato poco per rendere meno armonioso un tempio greco. Se fosse stato costruirlo più alto, oppure in cemento armato, cosa non possibile, le sue proporzioni ne avrebbero sofferto molto, e non sarebbe durato tanto. Infatti, la forza coesiva del cemento cede nel tempo.
    Lo stesso criterio di semplicità e di armonia dei rapporti può facilmente essere applicato a molti, forse alla maggioranza degli edifici italiani del medioevo e del rinascimento. Basta andare in giro per le vie di Firenze e constatare che i suoi edifici antichi sono belli, armoniosi, ed allo stesso tempo "semplici". Quando poi, invece, le concezioni puramente mentali dell'artista o del committente cancellano l’armonica semplicità, allora gli edifici cambiano; essi possono meravigliare, stupire per la preziosità e l'elaborazione dei particolari, ma non suscitano più, credo, un senso di quieta armonia. Il senso delle giuste proporzioni e della semplicità architettonica va perduto, credo, con il barocco. Si noti l'esempio della stessa meravigliosa cattedrale siracusana di cui parlavo: in tempi storici più recenti la sua sobria ed elegante facciata romanica è stata mascherata da mera artificiosità barocca, che si ripresenta nelle innumerevoli chiese barocche esistenti nel territorio.
    Ma i committenti e gli artisti del barocco erano pur sempre limitati dalla tecnica del loro tempo. E questo non succede più. Adesso qualsiasi cosa concepita dalla mente di un architetto, anche la più orribile, può essere realizzata grazie alle recenti tecniche di lavorazione dell'acciaio, del vetro, della plastica, e dei cementi. Se fino a pochi decenni or sono le case in pietra di una città non potevano essere troppo grandi e quindi erano spesso semplici e di modesto impatto ambientale, adesso molte città sono profondamente oltraggiate e abbruttite da palazzi in cemento armato alti e orribili. Soprattutto le periferie delle nostre città italiane sono esteticamente e realisticamente invivibili. Gli edifici non hanno più una proporzione umana, sono privi di armonia. Ma, ovviamente, la colpa non è del cemento o della tecnica in sé ma nell’uso che se ne fa.
    Dicevo già che non è questa la sede per definire il concetto di bellezza. Tuttavia, le impressioni che riceviamo da una passeggiata tra le vie del centro di una bella città medievale sono del tutto diverse da quello che riceviamo passeggiando tra le vie di una città moderna. Mi viene in mente l'esempio di un'altra città siciliana, Messina. Questa città è stata infatti totalmente e malamente ricostruita dopo il terremoto del 1908. È ovvio, e non occorre essere professori di estetica per capire che il principale criterio di costruzione è stato quello di far soldi. Edifici bellissimi sopravvissuti al terremoto, ma anche alcuni altri immediatamente susseguenti, spesso di notevole fattura, furono distrutti dai nuovi costruttori. Se confrontiamo le immagini antiche di Messina e la realtà odierna, la differenza è veramente strabiliante.
   Le concezioni estetiche orribili dovevano forse esistere anche in passato nelle menti dell'uomo ma a causa del modesto grado di sviluppo della loro tecnica non potevano essere realizzate.

L’approccio politico-sociale e la necessaria correlazione umana e ambientale

     La realizzazione della nostra umanità, le nostre scelte, e quindi la nostra ricerca di felicità, devono prescindere dalle idee e dai valori stereotipi proposti e sostenuti attraverso i mass media dalle élite della ricchezza finanziaria e del potere politico ed economico. È irrealistico se non ingenuo credere che un mondo migliore, e quindi umano e solidale, possa basarsi sulle loro politiche e sui loro valori. Sin dagli albori della storia, i ricchi hanno perseguito i loro interessi, ignorando o sfruttando i poveri. Invece, qualsiasi possibile mutamento, e nuove iniziative politiche e sociali, devono necessariamente scaturire da una nostra sopraggiunta conoscenza e attuazione di valori umani. C’è bisogno, quindi, di cominciare da noi stessi. Noi stessi siamo il mondo, ne incarniamo i valori, gli atteggiamenti, le sue eredità culturali e psicologiche, le direzioni verso cui si muove; siamo in necessaria interdipendenza e in rapporto gli uni con gli altri, e il reale mutamento che avviene nella vita di un uomo avviene nel mondo, e non solo in lui.
    Prima di ogni cosa, deve mancare la nostra adesione al valore del denaro. Accendiamo il televisore e subito si mostrano gli idoli adorati dai ricchi e dai potenti; idoli basati sul culto della mera esteriorità cui si lega l’importanza dello status e del prestigio, del lusso, l’appartenenza a contesti esclusivi ai quali si accede per censo. E da ciò segue che tutti coloro che, pur condividendo i valori dei ricchi, non riescono ad attuarli, gli esclusi dalla ricchezza materiale e dal mondo del lavoro super pagato, sono considerati alla stregua di falliti e di rifiuti.
    Si tratta, però, di un sistema di valori che sostengono un sistema politico e sociale disumano, ove l’importanza di ogni uomo è subordinata ai suoi soldi e al suo potere. E finché noi pensiamo secondo paradigmi disumani, qualsiasi azione politica, qualsiasi governo o regime, non ci porterà vero benessere. Alla politica e al potere di chi si cura solo di sé stesso e del suo gruppo, deve subentrare il governo di esseri umani scelti da esseri umani, tutti insieme consapevoli di essere in necessaria correlazione. All’interno di tale condizione, il benessere del singolo individuo si rapporta alla situazione del suo ambiente umano e naturale. All’ambiente in senso lato, quindi, dobbiamo porre grande attenzione; e ciò significa prendersi cura l’uno dell’altro e, anche, necessariamente, della natura all’interno della quale viviamo, anzi, con la quale viviamo in necessaria simbiosi. Mentre salvaguardiamo l’aria, l’acqua, le foreste, la natura, promuoviamo la nostra vita e il nostro vero interesse. Nello stesso tempo, mentre ci prendiamo cura l’uno dell’altro, costruiamo il nostro stesso benessere, che non può e non deve esistere in situazioni di ingiustizia e di sofferenza. Questa nostra intima correlazione umana e ambientale è regolata da leggi universali. In tutto il mondo le offese alla dignità umana e le opposizioni alla ricerca di felicità creano generale disarmonia. Nello stesso tempo, la natura reagisce violentemente quando non è rispettata e salvaguardata. Credo che la consapevolezza della necessaria correlazione universale deve essere prioritaria in ogni azione di un buon governo umano.
    Inoltre, un buon governo deve essere libero soprattutto dall’influenza dei grandi gruppi finanziari. Infatti, non credo sia possibile alcun progresso e diffuso benessere sociale se al grande potere del denaro non possa essere contrapposto quello della comunità e dello stato. E non è neanche possibile l’esistenza di uno stato sovrano che non ha la facoltà di stampar moneta, come nel caso di una nazione come l’Italia, le cui scelte politiche ed economiche sono regolate o dettate dal mercato. Quando osserviamo il mondo, e anche la nostra società, notiamo per prima cosa la povertà di molti e nello stesso tempo il lusso di pochi. Certo, è ben giusto che una persona che ha studiato, che ha lavorato con intelligenza e disciplina per acquisire una certa e valida formazione professionale sia ben remunerata, ma il suo reddito non dovrebbe comunque risultare esorbitante rispetto a chi compie un lavoro più umile. E quindi un buon governo deve essere in grado di legiferare contro le grandi diseguaglianze, eliminando la mercificazione dei rapporti, promuovendo, sin dall’educazione nelle scuole primarie, la cultura della solidarietà, e pur anche l’esperienza degli scambi fondati sul dono. Occorre anche una politica di redistribuzione e di riduzione del lavoro, (adesso peraltro in gran parte compiuto o facilitato dalle macchine) a favore dell’aumento del tempo dedicato all’educazione, all’arte, alla ricerca, alla cura del paesaggio, alle dimensioni veramente umane della vita. La grande produzione di beni, con la concomitante grande organizzazione della distribuzione, deve essere progressivamente ridotta e sostituita dalla produzione e distribuzione di beni e servizi all’interno di comunità ecologiche il più possibile autosufficienti, e quindi senza un grande consumo di carburante per i trasporti, con diminuzione dell’inquinamento ambientale. Estesi terreni agricoli non coltivati dai proprietari devono essere espropriati o resi disponibili a disoccupati che volessero trasferirsi in campagna e lavorare la terra. L’economia deve essere sostenuta non con la costruzione di opere faraoniche gestite dalle multinazionali, ma con sussidi all’artigianato e alle piccole aziende, con incentivi per la creazione di autosufficienze energetiche, la coibentazione delle abitazioni, con l’espansione e la cura del verde nelle città, il potenziamento del trasporto pubblico, eccetera. Ma intanto, ancor prima di eleggere dei governanti onesti e saggi, dobbiamo e possiamo cominciare da noi stessi. È forse proprio vero che un popolo ha il governo che si merita, e un popolo di persone mature e consapevoli non accetterà mai un governo di politici corrotti, narcisisti, che fanno gli interessi propri e dei ricchi. Possiamo quindi eleggere buoni politici solo quando noi stessi siamo i primi a riconoscere e realizzare nuove congrue e più umane visioni del mondo.
    Dobbiamo pensare insieme, quindi, a proposte concrete di vita semplice che possono essere adottate individualmente e in collaborazione, e anche ulteriormente elaborate, approfondite, sviluppate secondo le necessità, le predisposizioni e le condizioni particolari. Ma è importante, io credo, che ogni scelta di vita semplice debba valutare gli uomini e la vita di per sé, e non in base a fattori meramente economici e finanziari. Infatti, come vado argomentando in questo libro, il nostro benessere reale è poca cosa se misurato con il metro dei soldi, della produzione e del consumo. La realizzazione della nostra umanità è impresa ben più grande.

L’aumento del Pil non apporta più benessere

    La grande importanza data dai media al profitto inteso come finalità ultima, e quindi al Pil, fa parte, insieme ad altri fattori, dell’approccio esistenziale delle élite dominanti. In realtà, però, il Pil non è indice di benessere ma denota solo la quantità delle cose prodotte e vendute. Tali cose non sono necessariamente beni; sono, invece, semplicemente merci, che possono anche essere inutili o dannose. D’altra parte, un bene prodotto e non venduto, ma goduto privatamente o regalato, come per esempio un’opera d’arte o il prodotto dell’orto, un rapporto conviviale, eccetera, non incrementa il Pil, ma incrementa il benessere. Si immagini, per esempio, un villaggio o un gruppo che sopravvive producendo e consumando in proprio beni che non sono venduti. In questo caso i prodotti e i beni non sono merci, e quindi non rientrano nel calcolo del Pil, ma sono goduti come oggetti di vero benessere. Invece, un cittadino che va a lavorare in macchina, fa acquisti nei centri commerciali, consuma cibo prodotto industrialmente e proveniente da luoghi lontani, compra medicine contro lo stress, eccetera, ben contribuisce all’aumento del Pil, ma non è necessariamente più felice di un uomo a basso contributo di Pil che vive in campagna, si sposta a piedi o in bici, consuma i prodotti locali e i frutti dell’orto.
     L’odierna adorazione del Pil è senza dubbio deleterio. Gli uomini sono diventati fondamentalmente produttori di merci, che devono essere consumate sempre in maggior quantità, affinché il Pil e l’occupazione cresca; e nello stesso tempo cresce la quantità dei beni dismessi, cioè la spazzatura.
    L’assurdità dell’adorazione del Pil viene efficacemente mostrata nelle parole di Maurizio Pallante:  “Se vai in automobile da casa al lavoro consumi una certa quantità della merce carburante. Quindi fai crescere il Pil. Se lungo il tragitto trovi code e intasamenti, ci metti più tempo, ti stressi di più, ma consumi più carburante, quindi fai crescere di più il Pil. Se credi che il Pil (Prodotto interno lordo) misuri il benessere non puoi arrabbiarti. Devi essere contento, perché stai contribuendo ad accrescere il benessere collettivo, e di riflesso, anche il tuo. Quando sei in coda devi sorridere. Se a causa dello stress ti distrai e hai un incidente, il costo di riparazione delle macchine incidentate lo farà crescere ancora di più. Per toccare il cielo con un dito occorre che come conseguenza dell’incidente ti portino in ospedale, perché i costi del ricovero e delle cure comportano un’ulteriore impennata del Pil”.
     E quindi, sempre secondo M. Pallante: “La ricchezza di un paese non si può misurare con il Pil, che è un indicatore monetario e che in quanto tale può quantificare solo le merci, gli oggetti e i servizi scambiati con denaro. Siamo convinti che, al contrario, la ricchezza di un paese consista nei beni che vengono prodotti e nei servizi che vengono forniti, ma non dovremmo più confondere il concetto di merce con quello di bene. Quindi dovremo anche cambiare il misuratore della ricchezza nazionale e rincorrere una decrescita, vale a dire una riduzione volontaria della produzione di alcuni tipi di merci che si ritengono inutili o dannose” (M. Pallante, 2009:21)

Il mito della crescita

    Un’altro dei valori molto presenti nei mass media e generalmente condivisi è quello che riguarda la crescita dell’economia. Ma qualsiasi organismo vivente non può crescere all’infinito. Arriva il momento, prima o poi, in cui la crescita diventa molto lenta o diminuisce del tutto. Non è possibile continuare a produrre merci che risultano inutili o in eccesso, né continuare a costruire strade, ferrovie, porti, e opere faraoniche che promuovono la crescita economica ma non creano nuovi posti di lavoro. In realtà, lo sviluppo della tecnica richiede sempre meno mano d’opera. Occorre quindi, nella ricerca del lavoro e del benessere, non commettere l’errore di sostenere le politiche che richiedono grandi investimenti per la costruzione di grandi opere che sconvolgono l’ambiente.
    Alla fede nella crescita ad ogni costo occorre sostituire l’idea della manutenzione, della sostenibilità e della redistribuzione del lavoro. Soprattutto nelle società occidentali ricche, non bisogna lavorare di più, ma lavorare tutti e di meno. E nello stesso tempo occorre eliminare le eccessive differenze di reddito. Non deve essere più moralmente e politicamente accettabile che un direttore esecutivo di una qualsivoglia ditta guadagni 140 volte più di un operario o di un impiegato, e conservi in banca i soldi che non riesce a spendere, forse anche speculando in borsa, mentre i disoccupati e i poveri salariati stentano a far quadrare i conti. La redistribuzione del lavoro e della ricchezza deve avvenire anche tra i popoli e le nazioni. Non deve essere accettata la presente realtà in cui i popoli occidentali soffrono di sovralimentazione, e quelli poveri sono denutriti. Secondo i dati pubblicati dalla Fao, (2012) nel mondo le persone denutrite sono 925 milioni, e 36 milioni sono i decessi all’anno (di cui 5,6 milioni di bambini) dovuti a carenza di cibo e malnutrizione. E nello stesso tempo, in Occidente 1,3 miliardi di persone sono sovrappeso o obesi (dei quali 155 milioni di bambini) e 17,5 milioni soffrono per malattie cardiovascolari, 3,8 milioni per diabete cioè, in pratica, soffrono a causa della sovralimentazione. Anche nel campo della produzione di cibo non occorre che avvenga una crescita ma una redistribuzione. Infatti, “il sistema produttivo mondiale è in grado di fornire 2800 calorie medie giornaliere per ciascun abitante del pianeta, a fronte di un fabbisogno reale di 2550 calorie. Se a questo si aggiunge che ancora oggi il 30% della produzione mondiale di alimenti viene distrutta o sprecata nei processi di conservazione, trasformazione, distribuzione e consumo, risulta chiaro come, con una miglior gestione delle filiera produttiva, avremmo cibo sufficienti per tutti. E questo anche nell’ipotesi di una crescita della popolazione a 9 miliardi di abitanti entro il 2050” (C. Mazzini, Il Fatto, 4-6-2012).

La ricchezza reale

    Il potere dei grandi gruppi finanziari è basato sulla nostra comune credenza che ciò che essi sanno ben gestire, il denaro, sia un valore grande di per sé. Ma se smettiamo di credere in questo, se scopriamo il valore della nostra vera ricchezza, umana, culturale, spirituale e materiale, diminuisce o cessa il ruolo dei finanzieri.
    Occorre tenere a mente che i soldi sono carta colorata che ha valore solo perché le persone credono ne abbia. In altre parole, i soldi necessari per gli scambi di merci e servizi, sono promesse e titoli di fiducia. Infatti, chi produce beni concreti, un artigiano, per esempio, li cede a qualcuno in cambio di alcuni foglietti di carta colorata, ma se tutto finisse lì farebbe un pessimo affare. Succede invece che può dare alcuni di questi foglietti alla cassiera del supermercato ottenendo in cambio cibo e cose utili. Tutto questo è ovvio, ma durante queste transazioni si tende a dimenticare che la vera ricchezza consiste nel bene prodotto, venduto e acquistato, e non nella carta colorata, che indica il valore di scambio degli oggetti. Se venisse a mancare la fiducia che tutti hanno nella carta colorata, questa non avrebbe più valore, come succede in momenti di crisi economica e di svalutazione della moneta. In questo caso un chilo di patate vale molto di più di un chilo di banconote. Ma anche in tempi normali, i beni reali e i servizi utili, e chi li produce, sono e devono essere più importanti delle carte colorate e di chi le stampa e le gestisce.
    In fin dei conti il valore dato ai soldi in se stessi si basa su una credenza magica, perché, infatti, per effetto di uno strano incantesimo, pezzi di carta colorata sono valutati e amati più dei beni reali.
    Non creder più in questa magia significa, quindi, rapportarsi con la ricchezza vera, quale essa sia: case, terreni, alberi, orti, utensili, lavoro, solidarietà, eccetera. Occorre quindi ridurre la liquidità nella misura che serve agli scambi necessari, e fondare la propria sicurezza materiale sui beni concreti e sul valore dei rapporti umani collaborativi e solidali. Ricordiamo, quindi, che più soldi depositiamo nelle banche più diamo loro potere.
    La fiducia nei soldi e nelle banche alle quali i soldi si affidano corrisponde in pratica ad una mancanza di solidarietà sociale e alla cessione della propria fiducia nelle mani di chi la gestisce al posto del fiduciario. Le grandi banche e i gestori di fondi a loro volta speculano con i nostri soldi, o li usano anche per influenzare o determinare la politica degli stati attraverso operazioni complesse e talvolta poco chiare; si pensi per esempio all’ultima bolla dei derivati e al danno procurato all’economia reale. Si tratta, in questo caso, di una grande anomalia e ingiustizia perché il lavoro speculativo di coloro che gestiscono soldi e titoli diventa più importante del lavoro produttivo.
    Occorre quindi che vi sia una riappropriazione della fiducia e quindi del potere fin qui riposto nelle mani dei banchieri. In pratica, occorre da una parte, non comprare oggetti a credito, perché in questo modo ci si mette alla mercé delle banche creditrici; e, d’altra parte, chi ha soldi depositati in banca farebbe bene a riprenderli e ritrasformarli in ricchezza reale, quale può essere un bene o un servizio concreto. Chi possiede già tanta ricchezza reale e non sa cosa fare con i soldi superflui depositati in banca, dovrebbe riprenderli e darli ai poveri, affinché essi possano scambiarli con i beni reali di cui hanno bisogno, e tale nobile azione dovrebbe essere incentivata da giuste politiche statali di redistribuzione del reddito. I soldi devono essere considerati, quindi, come puro mezzo di scambio, e non come valore in sé, e se ne dovrebbe conservare in proprio una quantità minima, quanto basta per gli scambi di merci e servizi o per le emergenze. L’eccedenza si restituisce ai poveri e allo stato che la deve usare per opere di benessere sociale. In questo caso si limita o si annulla il potere delle grandi banche e dei gruppi finanziari speculatori. Non v’è giusto motivo per il quale i membri di tali gruppi debbano godere di beni reali che non producono ed essere anche supportati dalla fiducia di chi lavora onestamente. Potrebbero trovare altri mezzi socialmente equi di sostentamento e di benessere.

Rischiare, via dalla logica di mercato

    Una vita semplice, seguendo la propria vocazione, potrebbe ben attuarsi fuori dalla legge di mercato e del lavoro sottopagato. La mancanza di una grande riserva di soldi non deve impedire agli uomini di realizzarsi, essere autentici e vivere in armonia con se stessi e il mondo. Occorre, invece, che siano ricchi di idee, di entusiasmo, di fiducia, di passione per la verità, di collaborazione e solidarietà.
    Il mondo è pieno di anziani che da giovani erano pieni di entusiasmo, appassionati di verità e di umanità, e che nel corso degli anni hanno accettato le regole del mondo reale privo di giustizia, le regole del conformismo. Alcuni di essi sono anche diventati ricchi, e forse nello stesso tempo hanno impoverito la loro anima, hanno tradito la loro essenza. È vero che quando si è molto giovani certe visioni della vita e del mondo possono essere fantastiche, ma diventare adulti e mettere da parte certe utopie della giovinezza e vedere il mondo così com’è non significa accettare le sperequazioni, le ingiustizie, i compromessi. L’uomo è un animale socievole che sopravvive in mezzo ai suoi simili adattandosi, e l’adattamento, l’essere e il pensare come gli altri membri del gruppo lo rende accetto e gli apporta sicurezza materiale e psicologica. D’altra parte, in un mondo come il nostro, l’adattamento al gruppo non è sempre foriero di sanità psicologica e di giustizia. Occorre rischiare, non aver paura di essere e pensare fuori dai ranghi e dagli stereotipi, anche se, così facendo, si va incontro a una certa insicurezza, anche economica. Le persone che pensano, che quindi dubitano, che cercano, sono privi della sicurezza data dalla condivisione delle idee del gruppo di appartenenza. E di converso, chi è ben integrato in un gruppo, quale esso sia, si può sentire più sicuro a scapito della sua indipendenza di pensiero. Il rischio fa parte della vita, tanto più di una vita vissuta ricercando e seguendo la propria integrità e la propria vocazione.

Bisogno e desiderio

    Un particolare desiderio può essere l’espressione di un bisogno sostanziale e vitale oppure di un bisogno indotto o artificiale.
    I bisogni umani veramente fondamentali e vitali sono pochi e semplici. Si ha bisogno di cibo, di acqua, di un rifugio, di vestiti, di sonno, di amore e di rapporti significativi, di dialogo, di un’attività soddisfacente.
     I bisogni indotti o artificiali sono, invece, un’elaborazione o complicazione psichica dei bisogni fondamentali. Per esempio, il semplice bisogno di ripararsi dal freddo, che può essere soddisfatto indossando un maglione, può essere complicato dal desiderio di possedere un maglione firmato e costoso. Nel tentativo di soddisfare i bisogni essenziali entrano quindi in gioco complessi fattori culturali, personali e psicologici che, a ben vedere, complicano la vita. Attraverso il possesso e l’ostentazione di un capo firmato si vuole mostrare il proprio status, il proprio “valore”, o si tenta di compensare un’insicurezza interiore, oppure si segue il dettato della pubblicità, o tutte queste cose e altre messe insieme. I desideri che esprimono bisogni artificiali o indotti sono infiniti e la loro soddisfazione non procura duraturo e profondo benessere. Un capo firmato non basta e occorre acquistare quello dell’ultima moda; l’automobile che funziona non va più bene se i nostri amici ne possiedono una più grande, bella e potente. La pubblicità, il conformismo, il desiderio di essere alla pari con gli altri, suscitano innumerevoli desideri di cose intrinsecamente inutili, che vengono presto abbandonate o sostituite da altre cose. Tutto ciò costituisce uno spreco di risorse umani e naturali.
    Inoltre, purtroppo, gli oggetti posseduti danno valore e talvolta essenzialmente formano l’identità di chi li possiede. Ma si tratta di un’identità superficiale che si lega a tante cose esterne più o meno inutili, cioè alla soddisfazione di bisogni indotti.

L’ozio creativo

    Nella nostra società è considerato importante il lavoro che dà un reddito, e non importa se ha un senso, se gratifica o se invece serve per costruire armi, sostanze inquinanti, oggetti dannosi o inutili ed effimeri. Molti uomini sono spesso anche iperattivi, desiderando guadagnare soldi con i quali acquistare sempre più oggetti.
    L'ozio, invece, inteso però come lo intendevano gli antichi romani, cioè come libero e buon uso del proprio tempo, può inglobare in sé un'attività ricca, gratificante e necessaria. In una società tesa all'occupazione, all'aumento della produzione, ai soldi più che alla felicità e all’autorealizzazione, la stessa sana idea dell'ozio a tempo pieno sembra inaccettabile. Ma il tempo libero dell’ozio offre grandi vantaggi esistenziali. Chi vive nell’ozio non prende parte in tutto ciò che viene definito come il male del mondo; non inquina, non stressa, non lotta e non compete, non ricerca il potere e non è soggetto a quel potere che si esercita prevalentemente all'interno del mondo del lavoro e della produzione. Inoltre, ha molto più tempo libero proprio perché non desidera il possesso di beni inutili e non è quindi intento a lavorare per procurarseli; ha il poco necessario di che vivere e se ne accontenta, non è soggetto al potere delle cose superflue. Il tempo libero dell’ozio, quindi, lungi dall'essere un difetto, costituisce, invece, la nobiltà del carattere di chi non ha la necessità di lavorare principalmente per soddisfare bisogni impropri ed inessenziali. Qualsiasi attività del tempo libero dell’ozio, per quanto umile, può essere gratificante per chi ad essa si dedica senza fretta e con attento coinvolgimento. Chi valuta il proprio tempo si dedica solo al lavoro necessario che soddisfa i bisogni strettamente essenziali, sia quelli materiali sia quelli spirituali e psicologici. Il lavoro è per lui, quindi, non solo un mezzo per ottenere certi scopi, ma anche ciò che conferisce maggior senso alla sua libertà. Chi promuove il proprio ozio sa stare con sé stesso e con il suo senso inerente. L'attività creativa dell'ozioso fa passare le cose dal non essere all'essere e, di contrario, il lavoro inutile, alienante, dannoso, fa passare il lavoratore dall'essere al non essere. L'ozio ristabilisce l'equilibrio e restituisce l'essere all'uomo. Infatti l'ozio, inteso, come dicevo, nel senso che gli davano gli antichi romani, include in sé ogni attività creativa, piacevole, veramente necessaria.

Senza automobile

    Ho la patente ma ho rottamato la mia vecchia auto. Una parte delle mie entrate andava in fumo attraverso il suo tubo di scappamento, senza contare le spese di assicurazione e manutenzione. Dopo la rottamazione ho usato molto i mezzi pubblici, anche viaggiando in lungo e in largo per la Sicilia e visitando paesini sperduti tra le montagne ma raggiunti dalle corriere. Ho così avuto modo di incontrare e intrattenermi con altri viaggiatori, cioè con le persone reali che non avrei incontrato viaggiando chiuso dentro una mia personale protesi locomotoria. E poi, abitando in città, si può fare a meno si un’automobile e si risparmia facendo uso del taxi, dei mezzi pubblici, o affittando un'auto quando se ne ha veramente bisogno.
    La costruzione di un’automobile implica molto uso di risorse naturali, consumi energetici non solo per l’assemblaggio ma anche per il trasporto di materiali da un continente all’altro, lavoro spesso noioso, alienante e mal retribuito.
    Inoltre, se proprio non si può fare a meno dell’auto, perché si vive in campagna, o per altri fondamentali motivi, se ne usi una di piccola cilindrata. Infatti, il voler possedere un’automobile grande e potente può indicare qualche serio problema di identità e di autostima: si ha i bisogno di mostrare fuori ciò che non si ha dentro.
    Immagino città future nelle cui piazze siano parcheggiate auto elettriche o solari che i cittadini possono prendere in affitto nei momenti di effettivo bisogno: si potrebbe inserire una carta prepagata al posto della chiave, e via.

Gli acquisti inutili e velleitari di abbigliamento

    Vogliamo godere di una vita ricca, abbiente, il che ci ha orientati ad assumere come principale indicatore l’acquisto, lo shopping. Pare che tutte le strade che portano alla felicità portino ai negozi.
Z. Bauman

    In un mercatino ho recentemente acquistato per cinque euro un pantalone di ottima fattura, e una camicia nuova per un euro. Poi, camminando per le vie del centro ho visto esposto in una vetrina un pantalone al pezzo di 330 euro. Rimasi sconcertato. Chi avrebbe acquistato questo capo di abbigliamento? Le motivazioni potevano essere solo psicologiche e non logiche: forse il desiderio di indossare un capo di valore e sentirsi quindi di valere di più. Ma quale mente può concepire le cose in questo modo?
    Oltre che comprare capi costosi, spesso se ne comprano più del necessario. Il mio consiglio è quindi quello di acquistare solo i capi di abbigliamento che sono effettivamente necessari, o quantomeno non acquistarne in quantità maggiore di quella che effettivamente si usa. Non buttare un vestito solo perché è fuori moda o si ha l’impulso di fare un nuovo acquisto, ma riconoscere piuttosto le cause psicologiche di tale bisogno indotto. Stress, noia, mancanza di affetto o di rapporti umani veri e sinceri, possono indurre le persone a comprare il superfluo o, addirittura, a fare acquisti compulsivi.

Gli oggetti non necessari e il conformismo

    Si spendono molti soldi per stare alla pari con gli amici e conoscenti. Quasi tutte le persone che conosco hanno comprato un telefonino ultramoderno e costoso, anche fino a 600 euro. Non le invidio ma le stimo al pari di ragazzetti intenti a giocare con i loro giocattoli. E si pensi che in Ruanda una famiglia spende 50 euro l’anno per l’affitto della sua capanna. Da parte mia, con seicento euro preferisco comprare all’incirca trenta litri di olio extra vergine di oliva più duecento chili di formaggio più 50 chili di susine, oppure fare un lungo e piacevole viaggio. Quando uno è povero, si rende meglio conto, io credo, del valore sostanziale delle cose, ma se ha molti soldi li spende per sciocchezze.
    Alcuni oggetti tecnologici sono dei magnifici giocattoli ed è difficile resistere al loro fascino, ma il desiderio di possedere oggetti inutili e costosi è anche espressione di conformismo. Molti si sentono male se non possono spendere come le persone che sono per loro un riferimento. Il conformismo denota in essenza una mancanza di chiara autonoma direzione e di sicurezza interiore. Mi conformo se non sono sicuro delle mie idee e delle mie azioni, se ho bisogno di approvazione, se il senso della mia identità è privo di autonomia. Personalmente, non mi paragono a chi fa sfoggio di oggetti tecnologici, come non mi paragono a un bimbo che gioca con i suoi giocattoli. D’altra parte, l’uomo, in quanto animale sociale, è forse naturalmente portato all’imitazione. I bambini imparano imitando gli adulti. Il percorso verso il non conformismo è quindi difficile.
    La mancanza di conformismo non significa, comunque, avere in poco conto gli altri, le loro idee e il loro modo di agire. Ma è possibile rapportarsi con il prossimo in modo intelligente e creativo senza conformarsi. La mancanza di conformismo significa anche non desiderare tante cose inutili solo per stare alla pari con gli altri. Ogni tanto è opportuno fare l’inventario di ciò che si possiede e disfarsi delle cose inutili o che non hanno più un significato, o rinnovano ricordi dolorosi. Tutti i vestiti non indossati e gli oggetti non usati per più di un anno potrebbero essere in pratica inutili e ingombranti e  possono essere regalati, oppure venduti, anche in un improvvisato mercatino di strada, come si fa negli Usa.

Senza un televisore

    Internet, la televisione e i mass media in generale possono in un certo senso staccarci dalla realtà umana. Attraverso la televisione e internet si evade spesso, infatti, in un universo di immaginazione  precostituita da altri. Osserviamo le immagini dell’intero globo terrestre filmato da un satellite, e alla fine non vediamo altro e oltre uno schermo a cristalli liquidi, e il mondo reale si riduce a un’immagine virtuale: i poveri africani, le guerre, le alluvioni, i terremoti, le conseguenti sofferenze, diventano parte, in fin dei conti, di un grande turbinio di immagini che si susseguono lontane dalla visione ravvicinata della realtà. Non per niente la stessa tele-visione è non altro che una visione a distanza e non coinvolta. Qui siamo di fronte ad un fenomeno relativamente nuovo, ma si pensi agli sviluppi che potrà avere nell’immediato futuro. Si pensi che il bambino medio occidentale vive già nell’immaginazione virtuale precostituita per lui, trascorrendo molte ore del giorno seduto davanti alla televisione, a internet o alla play station, magari contemporaneamente rimpinzandosi  di merendine, patatine e dolcetti.
    Senza televisione si vive più sereni e felici. Liberi dalla televisione, si guadagna molto tempo, che può essere impiegato in azioni interessanti, creative, e nella convivialità. Inoltre, possono essere usati in altro modo i soldi necessari per pagare il canone e quelli che servono per comprare e ricomprare un modello con prestazioni e misure superiori. Occorre considerare, inoltre, che la maggior parte dei programmi televisivi sono veramente stupidi, violenti, diseducativi, a parte il fatto che la televisione è uno dei mezzi principali attraverso cui le classi dominanti promuovono e pubblicizzano i loro valori.

Le foreste e il consumo di carne

    Chi mangia molta carne dovrebbe essere consapevole, credo, che i suoi reni sono sottoposti ad un gran lavoro di eliminazione dell’acido urico e, nello stesso tempo, che un animale è vissuto in condizioni innaturali, spesso con molta sofferenza, ed è quindi stato ammazzato e fatto a pezzi.
    È noto, inoltre, che intere foreste dell’America del Sud vengono tagliate per fare spazio ai pascoli, mentre molti terreni agricoli, i cui prodotti potrebbero sfamare masse di uomini sottonutriti, sono utilizzati nella coltivazione di cereali per il consumo bovino. Eliminando o riducendo il consumo di carne si risparmia, si favorisce l’ambiente e si fa bene alla salute.

Il nuovo non è sempre un valore

    Nuovi oggetti sono continuamente prodotti, venduti, consumati. Ciò implica la continua sostituzione dei vecchi modelli. Questo processo è dispendioso e non sempre necessario. Alcuni oggetti “vecchi” sono più solidi e belli di quelli nuovi. Inoltre, molti oggetti nuovi sono inutili. Si pensi inoltre al lavoro sottopagato, anche di minori, che sta dietro a un moderno prodotto tecnologico.
    Il coltan (abbreviazioni dei minerali columbite e tantalite) è essenziale per lo sviluppo di nuove tecnologie per la fabbricazione di cellulari, satelliti, televisori al plasma, macchine fotografiche, computer, giocattoli elettronici. L’ottanta per cento del coltan si trova in Congo dove viene estratto con il lavoro disumano di adulti e anche di bambini alcuni dei quali muoiono nelle frane.

Viaggiare in treno

    A meno che non si debba svolgere un lavoro caratterizzato dalla necessità di rincorrere il tempo, si può abbandonare la schiavitù della velocità e gustare la lentezza del viaggio in treni regionali. Si fanno incontri interessanti, si ammira il paesaggio, si legge, si chiacchiera, o semplicemente si sonnecchia. Inoltre, i treni regionali sono più spaziosi e meno costosi, e i soldi risparmiati possono essere usati per pagare una camera nella notte di riposo tra un treno e l’altro. Soprattutto nel nord Europa, si risparmia molto viaggiando in treni regionali e comprando il biglietto con diversi giorni di anticipo.


Ospitalità e vacanze-lavoro

    Ho trascorso diverse settimane in Germania, in riva al fiume Meno, in una caratteristica casetta di legno posta dentro un giardino di meli. Mi hanno prestato una bici e ho trascorso molto tempo percorrendo le numerose e ben tenute vie ciclabili tedesche e attraversando pittoreschi villaggi. A chi mi ospitava ho dato in cambio il mio appartamento di città. Ho anche trascorso ottimi periodi di relax in monasteri europei ove sono stato ospitato con poca spesa, o in cambio di poche ore giornaliere di giardinaggio. Continuo così le mie vacanze spendendo poco.

Semplicità nel matrimonio

    Il matrimonio non è, in realtà, la vocazione naturale di tutti gli uomini e di tutte le donne. Alcuni si sposano per motivi validi e consapevolmente, altri prendono moglie o marito per un’infatuazione che dopo poco tempo si trasforma in incomprensione o in divorzio, oppure si sposano per conformismo, per paura di rimanere soli, per debolezza o per altri motivi.
    Alle donne in generale non darei consigli sul matrimonio poiché su questa questione esse hanno una marcia in più, ma a un uomo consiglierei, se non può optare per il celibato, di scegliere una compagna che apprezza le cose essenziali, comprende il significato effimero dei desideri indotti diversamente da una donna che per sue insicurezze e sintomatologie, spende un sacco di soldi per vestiti, monili, oggetti vari, eccetera. Non è sempre vero, ovviamente, che le donne siano più inclini a spendere soldi, soprattutto se guadagnati dal marito; d’altra parte, se hai un sacco di soldi, trovi molto facilmente una donna che si “innamora” di te. Ma stai attento. Se conduci una vita semplice, e una donna ti vuole bene, puoi star certo che apprezza te e non i tuoi soldi. Con una donna che è tanto intelligente e saggia da valutare e perseguire le cose importanti dell’esistenza, condurrai una vita più significativa e serena di quella che puoi condurre con un donna frivola che non si sente sé stessa se non spende continuamente. Se entrambi avete le stesse idee e gli stessi approcci verso un’esistenza semplice, potrete meglio educare i vostri figli e inculcare loro sani principi.

La casa in campagna

    Non è sempre agevole lasciare la propria casa e trasferirsi altrove, ma un trasloco può risultare più facile  per chi è meno legato all’ambiente della città. Il costo della vita è minore in campagna e l’atmosfera naturale fa bene alla salute. Certo, occorre rinunciare alle distrazioni offerte della città, al sogno ad occhi aperti dinanzi a vetrine che mostrano prodotti costosi e generalmente inutili, e occorre anche riprendere il contatto con se stessi, non aver timore della mancanza di rumori. Ma il contatto profondo con la natura ripaga.
    Quando si ricerca la felicità, occorre tener conto dell’ambiente della nostra terra, che è un insieme intercorrelato e interdipendente. L’ambiente naturale in cui viviamo è anche quello che ci genera e ci nutre, è quello con il quale viviamo in un rapporto essenziale e profondo. Staccati dalla natura e immersi in un ambiente artificiale e tecnologico, dimentichiamo troppo facilmente l’importanza fondamentale della terra, dei fiumi, delle foreste.
    L’esistenza del pianeta terra e degli esseri viventi, è legata a quella del sole e delle stelle. Non siamo staccati dall’Universo, né da tutto ciò che ci circonda, e tutto è correlato. Ogni cosa, ogni azione, seppur piccola, è parte di un insieme globale. Ma molto spesso, dimentichiamo questa semplice ed evidente verità e agiamo in un settore particolare senza la consapevolezza e la conoscenza delle ripercussioni che la nostra azione può avere sull’insieme. E tuttavia, non possiamo continuare troppo più a lungo a vivere come se fossimo i padroni di una natura della quale abusiamo.
    D’altra parte, la natura stessa può renderci felici, e più ci comportiamo in armonia con essa, più lo siamo. Questo è anche il motivo per cui le persone che hanno disordinati ritmi di vita, che mangiano troppi grassi e che vivono in ambienti chiusi, innaturali, totalmente artificiali, circondati da macchine, automobili, infiniti e costosi gadget tecnologici, e che sono troppo stressati e non si rilassano, non possono essere molto felici. Potrebbero cambiare vita, semplificarla, trasferirsi in campagna.

Vita in comunità

    La scorsa estate ho visitato in Germania un luogo singolare: un antico castello con annesso terreno, acquistato da alcune famiglie che condividono la loro vita. Il luogo è ameno, inserito in un bel paesaggio e circondato da foreste. Le persone coltivano insieme un grande orto, si dedicano ai lavori di manutenzione del sito, collaborano in diversi modi e condividono anche una grande cucina, con dei turni per la preparazione dei pasti. La collaborazione permette ai singoli individui di avere più tempo libero e molti beni sono condivisi e non acquistati da ognuno singolarmente. Non solo dal punto di vista del risparmio, ma anche sotto l’aspetto del dialogo e della crescita personale, la vita comunitaria e la convivialità sono forse da preferire alla vita isolata in un piccolo appartamento di una grande città. In un ambiente cittadino ove vige la competizione, gli individui sono più stressati. È molto probabile, invece, che la collaborazione e la convivialità che si possono ricercare e stabilire in una vita comunitaria favoriscano il benessere psichico e fisico.

Produzione e consumo nello stesso territorio

    Le autostrade, gli aerei, le auto, i treni superveloci, sono una risposta complessa alla semplice necessità di viaggiare e di trasportare beni da un luogo all'altro. Si perforano montagne e si costruiscono linee ferroviarie per treni super veloci non perché siano effettivamente necessari ma per il puro profitto, per seguire l’ideale della continua crescita del PIL. Inoltre, l'innovazione tecnologica in sé crea il suo bisogno. Paradossalmente, le nuove linee ferroviarie superveloci e le grandi autostrade creano la possibilità e la necessità del trasporto e del commercio, e non viceversa. Allo stesso modo in cui l'introduzione dell'automobile crea la necessità di possederla e usarla, l'accresciuta possibilità di trasporto delle merci aumenta la richiesta del loro trasporto, anche quando non è necessario; si fanno venire da terre lontane molte delle cose che prima erano trovate o prodotte in loco. In Inghilterra, ove crescono forse le migliori e più gustose mele del mondo, si acquistano mele che provengono dalla Nuova Zelanda. Grandi autotreni carichi della stessa roba viaggino per direzioni opposte. Polli allevati in Inghilterra vengono trasportati al sud della Francia e polli allevati in Francia sono venduti a Londra. Container colmi di utensili di dubbia qualità viaggiano per mare dalla Cina in Europa. Tutto questo si chiama progresso ma è solo desiderio di profitto, spreco e complessità.

Ricchezza sociale e individuale

    Come ho già argomentato, la ricerca della felicità implica la valorizzazione della vita semplice intesa non come mancanza ma come esistenza libera dai bisogni indotti, una vita ove sono invece appagati i bisogni essenziali e naturali come quello di nutrirsi, possedere una casa, vestiti, vivere in un ambiente sociale solidale, avere buoni e profondi rapporti umani e con la natura, svolgere un lavoro utile e interessante. Occorre quindi considerare che gli individui che conducono una vita semplice, e sono in questo senso “poveri”, possono ben creare e far parte di una società ricca. Ciò significa che la positiva povertà individuale può esistere insieme alla ricchezza sociale ed esserne espressione; può cioè unirsi alla ricchezza dell'ambiente naturale e dei rapporti, all’istruzione, alla cultura, all’arte, alla scienza. Anche diverse conoscenze scientifiche e umane e diversi aspetti dell’educazione possono essere tramandati e acquisiti liberamente. Non occorrono molti soldi per condividere conoscenze e talenti, per dialogare, persino per fare musica, teatro. Soprattutto il benessere che nasce da rapporti significativi e solidali non è e non deve essere legato ai soldi. Un paese ricco, nel senso più profondo del termine, non è, insomma, un paese fatto di gente piena di soldi. Infatti, non è solo in base al reddito che i singoli individui possono definirsi ricchi o poveri, ma per le loro capacità umane, riconosciute e coltivate, come anche in base ad un nucleo di diritti fondamentali, tra cui la libertà e la possibilità di scelte. In realtà la povertà individuale può ben caratterizzare una società ricca e solidale.
    Inoltre, gli abitanti poveri di una società ricca non devono spendere soldi per godere dei beni che sono in origine naturalmente liberi e disponibili per tutti, come la natura incontaminata, l'acqua, l'aria respirabile, ed anche alcuni prodotti coltivati o spontanei della terra. Altri beni possono esser condivisi e non appartenere esclusivamente a individui singoli: computer, auto, case per le vacanze, bici, biblioteche, palestre giardini, cucine sociali, eccetera.
    Anche l’energia non dipendente da costose importazioni di petrolio, e quindi eolica e solare, potrebbe essere venduta a buon mercato una volta ammortizzati i costi di impianto. “Paradossalmente”, quindi, un ambiente di individui "poveri" può essere il segno di una ricchezza ambientale e umana. Si tratta di un ambiente ove anche si riflette bene sull’uso delle risorse. E una società diviene sempre più ricca nel suo complesso quando le risorse sono usate non per individuali consumi velleitari ma per il bene comune. Per esempio, le persone che hanno scelto lo stile di una vita semplice, non comprano una grossa automobile ma finanziano una rete di servizi pubblici efficienti. Non pagano le tasse per costruire un inquinante inceneritore di spazzatura perché riducono i rifiuti già in partenza, selezionando quelli che possono essere riciclati. E ancora, controllano che i danari pubblici, i loro soldi, non siano spesi per la costruzione di un’autostrada, di una linea ferroviaria superveloce, per armi, ma per l'educazione e la cultura, la salute, la salvaguardia dell’ambiente. Si può fare una scelta, quindi, tra l’incremento della ricchezza materiale di singoli individui e l’incremento della ricchezza culturale e ambientale del territorio e della società. Invece della soddisfazione di particolari egoismi, si può scegliere di lavorare insieme per una società ricca nel suo insieme, ove i beni sono condivisi ed equamente distribuiti, e soprattutto ricca culturalmente e umanamente; una nuova società ove le relazioni siano umane, solidali, improntate verso la condivisione, il riconoscimento reciproco, il rispetto, la compassione e la giustizia.

La solidarietà tra i poveri

    In questo libro ho presentato una certa concezione di quei ricchi che si interessano prevalentemente del loro benessere materiale e non si curano generalmente delle sofferenze dei miseri. Essi hanno un gran successo mondano grazie alle loro capacità organizzative, alla loro intelligenza speculativa, alla determinazione e alla volontà di far soldi. Mostrano la sicurezza che deriva loro dai soldi e sono serviti e riveriti, spesso non per se stessi ma per i soldi che danno come remunerazione di beni e servizi. Eppure, i ricchi, seppur protetti e comodamente sistemati nei loro ambienti chiusi e lontani dall’altrui miseria materiale, sono anch’essi toccati dalla sofferenza, sono vittime delle stesse angosce e malattie, soprattutto dell’anima, ben diffuse sulla terra. E già il fatto di essere ricchi ma circondati dalla miseria, e non curarsene, è la manifestazione di una malattia dell’anima, io credo, o di un indurimento del cuore.
    Se i miseri soffrono, quindi, perché devono percorrere diversi chilometri al giorno per trovare un po’ d’acqua, se sono costretti a scambiare ore di duro lavoro per pochi soldi, se non hanno cure mediche, se hanno fame, o se sono disoccupati e non sanno come sopravvivere, d’altra parte i ricchi si preoccupano per diversi altri motivi che sono per loro altrettanto importanti. Si preoccupano perché i ladri possono derubarli, perché in seguito all’ emancipazione dei loro servi possono perdere dei privilegi, o perché i loro titoli in borsa possono crollare. Alcuni ricchi soffrono anche perché stressati dal super lavoro, dalla concorrenza dei loro competitori e, nonostante le loro sicurezze materiali, sono talvolta sopraffatti da pensieri foschi sul futuro. Essi soffrono, inoltre, seppur inconsapevolmente, la soggezione ai loro beni perché, infatti, la loro stessa ricchezza li signoreggia, come un padrone nei confronti di uno schiavo. E la dipendenza dai beni vincola il cuore, non v’è dubbio. Nella valutazione del benessere materiale dei ricchi non si tiene conto, quindi, della padronanza che i beni esercitano sulle loro anime. D’altra parte, non è generalmente molto facile, io credo, assumere un atteggiamento calmo e distaccato nei confronti dei soldi, soprattutto quando se ne hanno molti o troppo pochi.
    Notiamo, quindi, che mentre la sofferenza dei miseri è certamente grande, i ricchi soffrono la loro stessa condizione materiale e umana. La sofferenza, il disagio, le preoccupazioni sembrano essere, quindi, una prerogativa dell’animo umano, e una possibile o ipotizzabile liberazione potrebbe scaturire da una metanoia dello spirito, un’inversione di rotta, più che solo da una redistribuzione della ricchezza, seppure auspicabile. E possiamo chiederci chi possa costituire l’avanguardia di un radicale mutamento di direzione. È molto interessante notare, io credo, che per i grandi saggi di tutti i tempi e luoghi, la povertà stessa è il terreno della serenità e della rinascita dell’anima. I poveri sono soli e sfruttati, ma hanno proprio loro la possibilità di realizzare una rinascita interiore liberandosi dai valori materiali. E tale rinascita avrebbe un grande effetto all’esterno e nei rapporti: la solidarietà.
    Ma la condizione necessaria affinché si attui la solidarietà tra i poveri è il mutamento delle loro forme-pensiero, dei loro paradigmi, approcci e valori. Il povero, quando e se supera la mentalità acquisitiva del ricco, è più comprensivo verso la situazione del suo simile, ed è quindi più disposto al reciproco aiuto e alla solidarietà.
    Il povero che comprende le cause e le condizioni del suo stato può anche arrivare a realizzare di valere più della sua contingente situazione materiale. Non deve essere sopraffatto e non deve ridursi a oggetto dell’angoscia, che è poi situazione comune anche presso i ricchi, ma la supera realizzando se stesso come umanità e quindi realizzandosi nella solidarietà. La vera ricchezza, cioè l’umanità, è alla portata del povero. Non è certo facile da ottenere, ma è per lui meglio realizzabile. Il povero lasci al ricco, quindi, le sue idee di separazione e stabilisca la regola della solidarietà.
    Viviamo in un tempo molto particolare della storia umana, anzi, è proprio il tempo in sé ad aver mutato la sua misura. Tutto avviene più velocemente e con velocità si fa molto, si produce, si viaggia, si comunica molto, ma anche le diseguaglianze aumentano più velocemente. E in questo scorrimento veloce di situazioni e avvenimenti viene meno, soprattutto, il tempo sacro della riflessione intorno alle cose fondamentali della nostra esistenza, e quindi intorno all’esame delle nostre mete, dei nostri significati e della nostra universale condizione umana. Ed io credo che se nel flusso di continui veloci avvenimenti ci fermassimo a riflettere, potremmo realizzare che la condizione alla quale noi possiamo veramente sentire di appartenere, oltre ogni contingente differenza, e vi apparteniamo di fatto e per nascita, è quella propriamente umana, cioè di fratellanza e di solidarietà. Per questo motivo, quindi, la solidarietà non è e non deve essere un dovere ma è, di fatto, il corollario di un profondo mutamento interiore di direzione verso la realizzazione della nostra umanità.

Diventare esseri umani

    La solidarietà, oltre ad essere il corollario della nostra reale umanità, è la componente essenziale di ogni buona, pregante e piacevole umana relazione. Dobbiamo concepire noi stessi non come “homines clausi", cioè come uomini che si credono individui liberi e separati, ciascuno intento al perseguimento dei propri particolari interessi, ma come nodi di una vasta rete di rapporti, azioni, idee, valori e atteggiamenti (Elias, 1988:104). Se non è appropriato considerare separatamente le foglie di un albero, poiché esse traggono vita dalla stessa radicale linfa e, tutte insieme, con i rami, il tronco e la radice, costituiscono una stessa ed unica pianta, allo stesso modo non è plausibile considerare separati gli uomini, che hanno tutti la stessa origine, la stessa realtà che li sostiene. Il mondo è un sistema di rapporti e di interdipendenze reali e necessarie; tutto è correlato e ogni cosa, ogni essere e ogni intelligenza, non ha origine e non vive separatamente e di per sé, ma come parte di un tutto che lo comprende. Al vecchio paradigma della divisione subentra quello della similarità, della collaborazione, della solidarietà, dell’amicizia, della nostra condivisa situazione umana.  
    I motivi più importanti di divisione e di mancanza di amicizia tra gli uomini sono costituiti, quindi, dalla mancanza di una prospettiva unitaria e umana, dalle differenze nell’intendere le cose, nelle idee, cui spesso corrisponde una differenza nella situazione materiale. Eppure, le disparate situazioni materiali e le differenti visioni esistenziali, non sono in sé causa prima, a mio parere, ma il risultato della mancanza di umanità. E proprio tale mancanza ci chiude nel recinto delle nostre idee particolari o all’interno di sacche di benessere materiale o di lusso sfrenato. D’altra parte, però, la nostra umanità non si realizza se persistono esorbitanti divisioni materiali. Ma qui ovviamente il discorso diviene variegato. Riferiamoci brevemente a entrambi i fattori: alle idee e alle posizioni materiali.
    Nella vasta società degli esseri umani, si stabilisce a volte una sincera intesa tra gruppi di uomini che condividono gli stessi sentimenti e le stesse idee e forse anche lo stesso reddito. Tale intesa è ovviamente una cosa grande e bella e, pur tuttavia, a volte la stessa grande coesione all’interno di dati gruppi alimenta essa stessa, paradossalmente, il conflitto: i seguaci dell’idea x, solidali e amici tra di loro, si contrappongono ai seguaci dell’idea y, a loro volta solidali e amici tra di loro. Può esistere quindi una certa intesa o fratellanza all’interno di un gruppo, che però, nello stesso tempo, è nemico di altro gruppo o lo ignora. Si osserva tutto ciò facilmente nella nostra società. Anche i gruppi religiosi che seguono in teoria principi alti, stabiliscono talvolta fratellanze, o pseudo fratellanze, chiuse.
    Ma rimane l’altro fattore importante: la disparità nella situazione materiale. Come potrà il ricco dialogare col povero, come potranno essere fratelli o amici? Sarà mai possibile che essi condividano la propria umanità consapevolmente in situazioni materiali estremamente disparate?
    La soluzione di questo problema è in parte data dalla beneficenza, ma se ben consideriamo, si tratta di una soluzione insufficiete, proprio perché è solo una parziale restituzione al povero di ciò che gli è dovuto, e di cui le ingiustizie sociali lo hanno privato.
    Il mondo occidentale preso nel suo insieme è ricco; in molte famiglie e individui la ricchezza sovrabbonda, talvolta più di quanto possa essere singolarmente usata e goduta. E nello stesso tempo i poveri soffrono. La soluzione di questa dicotomia non sta nell’accrescimento e nella diffusione generale della ricchezza e delle consuetudini di vita consumistica dell’Occidente. La soluzione potrebbe essere data, invece, proprio dal fattore umanità, vale a dire dalla valorizzazione del bene più grande: la fratellanza tra tutti gli esseri umani. Stabilita la quale le disuguaglianze dovrebbero considerevolmente attenuarsi se non scomparire. Ma soprattutto, il valore della ricchezza materiale sarebbe svalutato di fronte al valore, al piacere, alla gioia del nostro essere umani, insieme, a tutti gli effetti.
    È possibile attuare tutto ciò? Non si tratta solo di una bella utopia? Sì, in un certo senso, soprattutto se si considera che per migliaia di anni si sono predicate tante buone idee senza alcun successo. E tuttavia cerchiamo, riflettiamo insieme, dialoghiamo. D’altra parte l’uomo non è una forma statica ma flessibile, e la sua natura originaria, da taluni giudicata negativa e irrisolvibile, è invece un dato possibile di mutamento e di sviluppo, che dipende da un quid imponderabile, inerente alla stessa intelligenza vitale, come anche dal tempo e dalla cultura in cui i singoli uomini nascono e maturano. E all’interno della nostra cultura esistono già innumerevoli tradizioni umanitarie. Occorre quindi anche considerare che in opposizione a un’immagine negativa della natura umana, e contro la pur evidente realtà di uomini estremamente individualisti ed egoisti, v’è il comune desiderio di appartenenza e di amicizia, v’è la realtà di una necessaria dipendenza e interdipendenza tra gli uomini, l’istinto innato di socializzazione, il desiderio di cooperazione, se non di umana fratellanza.

La ricerca continua

    Oltre alla ricerca di certi atteggiamenti consapevoli, sani e umani verso l’esistenza, non esistono soluzioni facili e regole da applicare alle diverse situazioni, ma credo che le persone di buona volontà possono dialogare e insieme individuare e realizzare nuovi approcci esistenziali nella convivialità e nella condivisione. I poveri e i disoccupati soffrono, soprattutto se sono lasciti a se stessi, ma la loro situazione muta quando si riconoscono come comunità di fratelli e si rendono conto che la loro vera ricchezza, umana ed esistenziale, non dipende dalla condivisione dei valori dei ricchi, dal perseguire successo e soldi, ma dalla consapevolezza e dallo sviluppo delle loro capacità umane. Poveri di tutto il mondo, non lottiamo il potere dei soldi e non lo serviamo, ma liberiamoci dalle sue verità strumentali, costruiamo un mondo umano e solidale.



COROLLARIO

La povertà "estrema": Gesù e San Francesco



    San Francesco, figlio di un ricco mercante di Assisi, lascia la sua casa e va nelle grotte del monte Verna. Lo circonda la foresta, l'assenza della civiltà. Sotto questo aspetto la sua vita è forse più  “radicale” di quella di Gesù che, anch'egli senza fissa dimora, passa solo quaranta giorni nel deserto in una situazione di vita totalmente immersa nella natura. San Francesco e Gesù sono uomini fuori dal comune e il loro esempio non sembra possa essere facilmente seguito dal più devoto cristiano. D’altra parte, è adesso quasi impossibile fare l’eremita o muoversi  liberamente in un paese moderno ove la terra è recintata, coltivata, forata dalle miniere, impoverita della flora e della fauna. L'ambiente naturale che sosteneva gli antichi eremiti è adesso un ambiente quasi interamante occupato dagli interventi umani. La vita senza fissa dimora in un ambiente naturale, non è quindi realizzabile, tranne che per brevi periodi o nelle rare oasi della natura ancora esistenti.

    Gesù, chi era veramente? Sono state scritte innumerevoli vite di Gesù basate sui racconti dei vangeli canonici e apocrifi. Differenti interpretazioni suggeriscono diversi significati che riguardano lui e i suoi insegnamenti. Gli stessi cristiani, ortodossi, cattolici o protestanti, non sono d'accordo su alcuni punti del suo magistero. Alcuni pongono l'accento su particolari insegnamenti, sulla sua predicazione intorno all’amore, alla fratellanza, alla povertà, o sulla nuova nascita. Altri trovano dei paralleli tra le sue parole e gli insegnamenti del buddismo, altri ancora discutono sugli aspetti strani o non chiari del suo comportamento; chi era il Gesù che, affamato e adirato contro un albero di fico sterile, lo maledice facendolo rinsecchire? Chi è il Gesù che dice "ogni albero che non dà buon frutto viene tagliato e gettato nel fuoco" (Matteo 7,29) e nello stesso tempo afferma che gli uomini che non danno ascolto alle sue parole vanno incontro allo stesso destino nel fuoco eterno della geènna? Teologi e studiosi interpretano queste non ecologiche parole cercando di renderle coerenti con il fondamentale insegnamento d'amore cristiano.
    Ma a parte tutte le possibili diverse interpretazioni, a parte l'atteggiamento personale verso Gesù, su di un punto non è possibile avere dubbi, tanto risulta chiaro nei vangeli; questo punto riguarda il suo stile di vita semplice e il suo atteggiamento verso i soldi e la ricchezza. Risulta infatti chiaro dalla lettura dei vangeli, che Gesù non aveva una stabile dimora, era povero e non teneva in nessun conto la sicurezza data dai soldi.
    La missione profetica di Gesù viene annunziata da Giovanni Battista, anch’egli povero. Infatti, "Giovanni era vestito di pelli di cammello, con una cintura di pelle attorno ai fianchi, e mangiava cavallette e miele selvatico" (Marco 1,6). Anche Giovanni, quindi, predicava la povertà e la comunanza dei beni e, rispondendo alle folle che lo interrogavano, diceva: "Chi ha due tuniche, ne dia una a chi non ne ha, e chi ha da mangiare, faccia altrettanto" (Luca 3;10).
    Non diversi erano gli uomini che Gesù mandava ad annunziare la sua parola: "E ordinò loro di non prendere per viaggio nient'altro che un bastone; né pane, né sacca, né danaro nella cintura; ma di calzare sandali e di non portare due tonache" (Marco 6, 8-9). E Pietro stesso conferma dicendo: "Noi abbiamo lasciato i nostri beni e ti abbiamo seguito" (Luca 18,28).
    Questa assoluta povertà, che poi verrà apprezzata e imitata da San Francesco, ben si accorda con l'altra esortazione di Gesù: "Non preoccupatevi per la vostra vita, di quello che mangerete o berrete, né per il vostro corpo, di quello che indosserete (…). Guardate gli uccelli del cielo: non seminano e non mietono né raccolgono nei granai; eppure il Padre vostro che è nei cieli li nutre. Non valete forse più di loro? E chi di voi, per quanto si preoccupi, può allungare anche di poco la propria vita? E per il vestito perché vi preoccupate? Osservate come crescono i gigli dei campi: non faticano e non filano; eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro" (Matteo 6, 25-29).
    Ci chiediamo, allora, se solo un discepolo radicale e totalmente spoglio di tutto, di averi e di legami con le cose, potrebbe mettere realmente in atto il comandamento di Gesù: "Non preoccupatevi del domani, perché il domani stesso si preoccuperà di sé. A ciascun giorno la propria pena" (Matteo 6,34).
    Gesù non esclude i ricchi dalla sua grazia ma espressamente dice che "difficilmente un ricco entrerà nel regno dei cieli", anzi "è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago che un ricco entri nel regno di Dio" (Matteo, 19, 23-24). A un giovane ricco che esprime il desiderio di divenire suo discepolo Gesù raccomanda: "Una cosa sola ti manca: va', vendi quello che hai e dallo ai poveri e avrai un tesoro in cielo; e vieni e seguimi " (Marco, 10,21). E la ragione di questo appare molto semplice e chiara: "Nessuno può servire due padroni, perché o odierà l'uno e amerà l'altro, oppure si affezionerà all'uno e disprezzerà l'altro. Non potete servire Dio e la ricchezza" (Matteo 6,24). E ancora: "dov'è il tuo tesoro, la sarà il tuo cuore" (Matteo 6,21).
    Qui quindi si esprime il valore del rapporto tra l'oggetto esterno e la realtà interiore dell'uomo. In altri termini, potremmo dire che un eccessivo investimento della libido fatto su cose esterne impoverisce l'uomo al suo interno; egli non si pone in sé stesso, in ciò che sta dentro, nel regno dei cieli che può attuarsi nell'integrità del suo cuore, ma il suo essere si pone fuori di lui, all'esterno, si deconcentra e si identifica con le cose esterne effimere: "Non accumulate per voi tesori sulla terra, dove tarlo e ruggine consumano e dove ladri scassinano e rubano; accumulate invece tesori nel cielo" (Matteo, 6,19).
    Ci troviamo qui di fronte a parole chiare, parole che è difficile non tenere conto qualora si intenda seguire Gesù sul serio, e non ideologicamente o superficialmente. Com’è possibile essere cristiani e ricchi allo stesso tempo? Ma a questo punto è molto interessante notare come alcuni teologi cristiani riescono a "interpretare" il chiaro insegnamento di povertà dato da Gesù. Alcuni di essi pongono tale insegnamento come mero ideale, come una perfezione quasi irraggiungibile, cui però bisogna tendere. Qui le distinzioni e le eccezioni diventano tanto varie quanto complesse nella loro articolazione. Il semplice comandamento di Gesù non è più semplice, ma viene articolato interpretato e forse anche adattato ai valori economici correnti. Ecco quindi che il reverendo padre cattolico Raniero Cantalamessa parla di un Regno dei cieli che deve ancora venire, realizzarsi e annunciarsi, e ciò significa "che occorrono persone che si dedicano interamente alla sua venuta, libere da ogni legame e compromesso terreno che ostacolerebbe un tale annuncio (…) e questo ci dice che vi sono due livelli diversi, o due forme di povertà, nella predicazione di Cristo: una richiesta a tutti per entrare nel Regno, e una richiesta ad alcuni in particolare per annunziare il Regno. Questa seconda e più radicale esigenza è quella che Gesù pone a coloro che chiama a essere suoi collaboratori nell'annuncio e a condividere con lui la dedizione totale alla causa del Regno: gli apostoli, il gruppo ristretto di discepoli che lo seguivano a tempo pieno. In questa linea va certamente interpretata la richiesta radicale rivolta al giovane ricco" (R. Cantalamessa, 1997:62-63).
    Tuttavia, la richiesta di povertà fatta Gesù non si rivolge solo a un gruppo ristretto di seguaci. Nell'evangelo di Luca Gesù rifiuta la richiesta fatta da uno della folla di essere mediatore in una disputa con suo fratello intorno alla loro eredità. In questa occasione, Gesù loda la povertà rivolgendosi alla folla, quindi proprio a tutti, e racconta la parabola dell'uomo che dopo aver accumulato tante ricchezze muore all'improvviso. Il suo lavoro è stato vano perché "chi accumula tesori per sé non si arricchisce davanti a Dio" (Luca 12,21). Gesù tiene quindi assolutamente in sottordine, anzi disprezza, ricchezze ed eredità, beni materiali effimeri. In alcuni passi biblici Gesù arriva a redarguire i ricchi: "Guai a voi, che siete ricchi, perché avete già il vostro conforto” (Luca 6,24). Nella parabola dell'uomo ricco che è vissuto accanto ad un povero mendicante di nome Lazzaro, Gesù pone Lazzaro in paradiso e il ricco all'inferno tra i tormenti. Qui il ricco chiede ristoro ad Abramo ma Abramo gli risponde: "Figlio, ricordati che, nella vita, tu hai ricevuto i tuoi beni, e Lazzaro i suoi mali; ora, mentre lui è così consolato, tu invece sei in mezzo ai tormenti" (Luca 16,25).
    D’altra parte, Gesù non esclude a priori i ricchi dal suo regno, anzi dice che a Dio è possibile ciò che in realtà è difficile, cioè che un ricco si salvi, tuttavia il suo insegnamento a proposito della povertà e della ricchezza è chiaro e ripetuto in tutti e quattro gli evangeli canonici ed anche in quelli gnostici: "Se avete del denaro non imprestatelo ad interesse, ma datelo a uno dal quale non lo riavrete" (Vangelo di Tommaso, 95).
    L'importanza della povertà nella predicazione di Gesù è evidenziata anche nella pratica convivenza delle prime comunità cristiane ove non v'erano ricchi, dato che tutti i beni venivano condivisi: "Tutti i credenti stavano insieme e avevano ogni cosa in comune; vendevano le loro proprietà e sostanze e li dividevano con tutti, secondo il bisogno di ciascuno" (Atti degli apostoli 2, 44-45). Qui non si trattava di comunità monastiche formate da un gruppo ristretto di discepoli ma di comunità composte da numerosi membri: "La moltitudine di coloro che erano diventati credenti aveva un cuore solo e un'anima sola e nessuno considerava sua proprietà quello che gli apparteneva, ma fra loro tutto era in comune (Atti degli apostoli 4,32).
    Non è qui il luogo adatto per dare un breve resoconto dello "sviluppo" che nelle chiese storiche ha avuto il ferreo concetto di povertà realizzato e predicato da Gesù. Negli ultimi secoli la chiesa cattolica, pur non rinunciando alle sue ricchezze, si è molto prodigata per i poveri. D'altra parte, però, i cristiani che sono molto ricchi, soprattutto quelli protestanti degli Usa, non riconoscono nessuna contraddizione tra il loro stile di vita e la predicazione di Gesù. Alcuni di essi sono fondamentalisti, vale a dire credono nel valore letterale delle parole bibliche; ciò che scritto vale per come è scritto. Quindi, per esempio, il serpente che tenta Eva non simboleggia nulla ma è un vero serpente che parla, e così via per altri innumerevoli passaggi biblici. Ma il loro fondamentalismo si ferma, strano caso, alle "letterali" e chiare parole di Gesù: "Guai a voi ricchi".  
    Prima dell’esistenza di questi nuovi ricchi americani fondamentalisti, vivevano nella nostra vecchia Europa ricchi cristiani che non davano grande importanza alle parole di Gesù sulla povertà, anzi perseguitavano chi tentava di metterle in pratica. Si pensi, per esempio alle persecuzioni contro i Poveri di Lione, contro i Catari, eccetera. I vangeli sono relativizzati secondo la nostra convenienza; si dice che adesso è anacronistico se non impossibile vivere in concreta povertà; si afferma che ciò che era forse fattibile e valido ai tempi di Gesù e di San Francesco, non è più praticabile adesso. Ma le stesse cose dicevano i contemporanei di questi uomini esemplari e considerati pazzi perché predicavano la povertà. Pazzo, il "pazzo di Dio" venne considerato anche il poverello di Assisi, quel San Francesco il cui esempio non può forse essere seguito oggi, ma rivela, tuttavia, per contrasto, il senso della nostra vita e una sua possibile direzione.  

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Il libro in forma cartacea si trova in questo sito:







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Eliseo Laganà, notizie biografiche

    Nato a Messina, dopo il compimento degli studi universitari Eliseo si trasferisce in Gran Bretagna ove compie ricerche ed esperienze in vari luoghi e ambiti. Per diversi anni lavora come Lettore di Italiano nelle università di Bangor, di Cardiff, e al Birkbeck College di Londra, e come borsista di sociologia presso l’Università di Reading. A Londra si unisce al gruppo di dialogo fondato da David Bohm, professore di Fisica al Birckbeck College, e sulla base di questa esperienza nasce il saggio: Dialogare, tra utopia e realtà visionabile nel sito ilmiolibro.it ove ha pubblicato altri saggi e romanzi tra cui: Christine Rom, La Venere Rubata.




Il libro in forma cartacea si trova in:





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