POVERO
MA NON TROPPO
verso una ricca essenzialità
*
Saggio
di
Eliseo Lagana
Copyright by Eliseo Laganà
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*
I
ricchi hanno sempre governato il mondo. Oggi più che mai i sistemi
democratici si confondono con il governo dei ricchi. E il governo dei ricchi ha
adottato uno strumento di pericoloso sovvertimento dei valori delle democrazie:
il denaro.
G. Rossi
INDICE
Introduzione
CAPITOLO
PRIMO: RICCHEZZA
E POVERTÀ
Oltre la comune visione della felicità -
La povertà del ricco - La scenografia della ricchezza - Denaro e narcisismo –
Ricerca della ricchezza come idiosincrasia caratteriale - I ricchi e
l’approccio neoliberista - Perché i ricchi non si curano dei poveri
CAPITOLO
SECONDO:POVERTÀ E RICCHEZZA
L'uva è acerba - Felicità e acquisizione
del superfluo - La vita semplice - La povertà positiva - Diverse relazioni tra
ricchezza, povertà e felicità - Povertà relativa o posizionale - L’evoluzione
degli approcci economici correnti.
CAPITOLO
TERZO: LA
FELICITÀ NELLA SOCIETÀ DEI CONSUMI
- La ricerca della felicità - Una
società non felice – La felicità e gli uomini politici - La felicità tecnologica
- La perduta felicità dei "selvaggi" - La felicità di noi “americani”
- La felicità di chi paga le tasse - La felicità nel lavoro
CAPITOLO QUARTO: LA FELICITÀ TRA DESIDERIO
E BISOGNI
- La felicità come
ripetizione del piacere - La quiete dopo la soddisfazione di un bisogno - Il desiderio
di dopamina - I bisogni naturali e/o fondamentali - I bisogni infantili - Identità e progettualità - Il “fondo” di noi stessi - Bisogno di ricchezza e
di immagine come rimedio dell'inadeguato sentimento di sé - Bisogno del riconoscimento
reale, oltre il successo e la ricchezza
CAPITOLO QUINTO: FELICITÀ RELAZIONALE ED
ESISTENZIALE
Felicità come fecondità e relazione - La felicità relazionale dei ricchi -
Felicità come armonia relazionale - La felicità degli uomini intelligenti - La
felicità nella ricerca di senso - La felicità dell’esistere - La felicità come
serenità - La felicità secondo Epicuro – Riesame delle nostre finalità
CAPITOLO
SESTO:ALLA
RICERCA DI NUOVI PARADIGMI
Così come siamo - Le avanguardie di
nuovi paradigmi - Il ridimensionamento della ricchezza: una proposta per una
avanguardia di ricchi - Il percorso verso la conoscenza di sé: saggezza e
semplicità - Semplicità e bellezza - L’approccio
politico-sociale e la necessaria correlazione umana e ambientale – L’aumento del Pil non apporta più benessere -
Il mito della crescita - La ricchezza reale - Rischiare, via dalla logica di
mercato – Bisogno e desiderio - L’ozio
creativo - Senza automobile - Gli acquisti inutili e velleitari di abbigliamento
- Gli oggetti non necessari e il conformismo - Senza televisore - Le foreste e
il consumo di carne - Il nuovo non è sempre un valore - Viaggiare in treno -
Ospitalità e vacanze-lavoro - Semplicità nel matrimonio - La casa in campagna -
Vita in comunità - Produzione e consumo nello stesso territorio - Ricchezza
sociale e individuale - La solidarietà
tra i poveri -Diventare esseri umani - La ricerca continua
COROLLARIO:La povertà “estrema”: Gesù e San
Francesco
Introduzione
Possiamo
trovare delle alternative alla crescita della produzione e dei consumi per
trovare soddisfazione, in definitiva per essere felici? Ci sono enormi risorse
di felicità umana che non vengono sfruttate.
Zygmunt
Bauman
Le persone, in generale, ricercano
sicurezza, benessere, successo, status, e attribuiscono un valore positivo e
primario ai beni materiali. Per molti la felicità si realizza attraverso tutto
ciò che si può acquistare con un ottimo stipendio, o con i soldi in vario modo
ottenuti. Nello stesso tempo i mass media continuamente presentano come valido
e prioritario il valore della crescita, della produzione e dei consumi. Oggi
sembra quindi essersi formato ed essere preminente in tutto il mondo una sorta
di profondo accordo intorno all’ordinamento sociale basato su certi valori
“fondamentali” che sono in fin dei conti quelli dell’avere. Molti sembrano aderire,
quindi, al culto del denaro, a esso sacrificando la qualità dei rapporti e il
vero benessere sociale e ambientale.
Il potere dei ricchi è basato, allora, non
solo sulla loro intelligenza finanziaria e speculativa, ma anche sulla
condivisa e diffusa importanza data ai soldi che da pratico e necessario mezzo
di scambio di beni e servizi sono diventati uno strumento pericoloso di
sovvertimento dei valori, di manipolazione delle coscienze; sono diventati un
bene in sé.
La situazione è, comunque, variegata.
Studiosi indipendenti propongono politiche economiche e modelli di vita
alternativi, e sempre più persone sembrano accorgersi che i mass media plasmano
gli atteggiamenti e il pensiero dei popoli a favore del potere. Notiamo, infatti,
e la storia ci insegna, che i valori preminenti in una data società sono sempre
stati i valori sostenuti e presentati come verità evidenti e sacrosante dalle
classi dominanti. Dalle quali ci si affranca, per quanto è possibile, non solo attraverso
congrue azioni politiche e sociali ma anche e forse primariamente inventando e
realizzando approcci esistenziali e di convivenza nuovi, fondamentalmente umani
e apportatori di felicità, adottando nuovi valori verso la realtà sociale, il lavoro,
il tempo libero, la ricchezza e la povertà.
Soprattutto il concetto di povertà può
essere riconsiderato, tenendo anche conto che nelle società occidentali la
povertà è spesso non sostanziale ma posizionale o relativa mentre, invece, nei
paesi sottosviluppati essa diviene miseria.
In
quanto alla ricchezza, possiamo riflettere soprattutto su ciò che veramente la
costituisce. In realtà, insieme alle grandi ricchezze naturali, i campi, gli
orti, gli alberi, i mari pescosi, eccetera, la vera ricchezza è creata da tutti
coloro che producono e incrementano beni, servizi utili, idee positive, ricerca,
collaborazione. I veri produttori di ricchezza sono, quindi, non coloro che
stampano soldi e li amministrano, ma gli artigiani, i contadini, gli operai,
gli educatori, gli scienziati, gli scrittori, gli artisti, i ricercatori, i
custodi delle risorse naturali e umane, eccetera. Costoro hanno, però, poco o
nessun potere rispetto a chi non crea e non produce ma sa ben gestire il danaro
e compie grandi operazioni finanziarie e speculative.
Occorre, quindi, che i veri produttori di
ricchezza diventino profondamente consapevoli del loro valore, abbandonando, nello
stesso tempo, la visione dell’uomo come fattore prevalentemente economico, per considerarlo
un essere umano, umanamente e felicemente relazionale.
Occorre anche valutare con grande passione
e serietà quale sia il nostro vero benessere, o felicità che dir si voglia. Ed
è proprio la felicità, in fin dei conti, ciò che gli uomini in generale desiderano
e perseguono.
D’altra parte, se ci osserviamo, qui e
adesso, ci rendiamo conto se siamo felici. La salute, la serenità, il lavoro
vocazionale e non alienante, la soddisfazione dei bisogni naturali e necessari,
e diversi altri fattori, come la solidarietà, l’amicizia, la convivialità,
eccetera, sono importanti per la nostra felicità; e tali fattori possono essere
ricercati anche all’interno di una vita semplice; che può rivelarsi nuova,
libera, realizzatrice dell’essere e delle sue potenzialità.
E se viviamo
una vita propriamente umana e quindi non regolata dal denaro, se scopriamo il valore
della nostra vera ricchezza, spirituale e materiale, possiamo fare a meno dal
superfluo, e vivere una vita di ricca essenzialità.
CAPITOLO
PRIMO
RICCHEZZA E POVERTÀ
*
V’è
tra gli uomini la diffusa tendenza a stabilire rapporti di diseguaglianza
politica, economica e sociale, e in ogni società gruppi minoritari si differenziano
dalle masse in base al possesso esclusivo di privilegi. Si tratta molto spesso
di ricchezze prodotte dal lavoro di molti o dal loro sfruttamento. Si possono
quindi considerare certe ingenti fortune materiali come un'accumulazione di
ricchezza all'interno di un rapporto impari a favore di una parte sociale e a
discapito dell'altra. Ciò può avvenire a causa del potere o della furbizia,
dell'intelligenza e dell'organizzazione di alcuni, che hanno buon gioco,
quindi, sulla semplicità e sulla disorganizzazione di molti altri. Nel caso di
rapporti tra individui all’interno del medesimo sistema sociale,
l’accumulazione della ricchezza può attuarsi anche in modo legale, cioè nel
rispetto di quelle leggi che sono espressione della volontà dei potenti, mentre
nel rapporto tra i popoli ancor più prevale la forza finanziaria, economica e/o
militare.
Siamo di fronte, quindi, allo scenario
mondiale, attuale e ben visibile, ove uomini sono strumento di altri uomini,
ove la forza del potere, come anche quella intellettuale e tecnologica, e
soprattutto quella finanziaria ed economica, avvantaggia taluni a scapito di
altri. È senza dubbio vero, infatti, che la "storia è stata dominata in
maniera di gran lunga prevalente, oltre che dai conflitti culminati nelle grandi
guerre sterminatrici, dalla scarsa considerazione o all'estremo dalla più
totale indifferenza dei ricchi verso i poveri, dei più forti verso i più
deboli, dei potenti verso gli inermi" (Salvadori, 2003:127).
E, tuttavia, pur vivendo in un mondo caratterizzato
da enormi differenze di reddito, ci chiediamo quale possa essere la nostra più
congrua azione, se e come sia possibile, cioè, operare per una società più
giusta e più umana, forse cominciando a considerare i soldi e la ricchezza
materiale secondo una prospettiva diversa da quella corrente.
Ma ciò facendo, e magari cercando di vivere
in modo semplice, non dovremmo sminuire, credo, il ruolo ed il valore delle
persone benestanti che con il proprio onesto lavoro creano per sé, per le loro
famiglie e per il prossimo, una condizione di giusto e condiviso benessere
materiale. La ricchezza materiale in sé non è da disprezzare, quindi, se non è
guadagnata attraverso lo sfruttamento del prossimo e se è usata umanamente e
saggiamente per il bene comune e non per creare terribili diseguaglianze e
sfruttamento.
D’altra parte, coloro che con ogni mezzo accumulano
ingenti fortune e non si curano della sofferenza degli umili, le persone che
sono straricche, mentre più di un miliardo di esseri umani sono miseri e
denutriti, coloro che amano il profitto a discapito di tutto e di tutti, non
vanno demonizzati. Mi sembra più opportuno, invece, considerarli in generale e
per certi versi come uomini che errano nella loro visione di ciò che li rende
felici. In pratica vogliono e fanno di tutto per aggiungere sempre qualcosa a tutto
ciò che già hanno e che in se stesso, pure se centuplicato, non è fonte di
felicità, invece di cercarla dove realmente possono trovarla.
Non sembra esserci, d’altra parte, la
diffusa consapevolezza o ricerca di ciò che può costituire il reale bene
individuale e comune. Manca, quindi, e non solo tra i ricchi, una visione della
correlazione delle parti all’interno di un tutto-uno che le contiene o le
genera o semplicemente le caratterizza. In altre parole, i membri dei diversi
gruppi sociali, soprattutto nei paesi industrializzati, sono accomunati da
un’erronea visione della felicità, che intendono avulsa dal benessere del
prossimo e della natura. E tuttavia i ricchi meritano una certa disistima, soprattutto
se si fa riferimento a un fondato senso di giustizia, che va ricercata e
realizzata, però, in modi più congrui che nel passato e non certo attraverso
improbabili rivoluzioni.
La migliore rivoluzione, invece, seppur la
più difficile, è quella delle coscienze: è auspicabile che avvenga un profondo tentativo
di comprensione del nostro mondo, di noi stessi, di ciò che costituisce il
nostro vero benessere. Tale possibile rivoluzione può ben essere trasversale
rispetto alle condizioni economiche e, in fin dei conti, anche i ricchi potrebbero
trarne grande “profitto”.
La povertà del
ricco
Ma chi sono queste persone straricche, come
pensano, pensano molto diversamente da noi, le conosciamo? Mentre cerchiamo di
comprendere la nostra forma mentis e quella dei ricchi, potremmo considerare
che chi pone grande valore nella ricchezza materiale è orientato, come scrive
Schopenhauer, verso cose poste all’esterno, ha il baricentro fuori di sé. “Appunto per questo, egli
ha voglie e caprici sempre mutevoli; (…) darà feste o farà viaggi, comunque
sfoggerà un gran lusso; appunto perché cerca soddisfazione in cose di ogni
genere dal di fuori; così come l’uomo
indebolito spera di ottenere da consommées e da farmaci quella salute e quel
vigore la cui vera fonte è la propria energia vitale” (Schopenhauer, 1994:57). In altre parole, “l’uomo che ha fatto
propria la modalità dell’avere suole servirsi di una stampella anziché usare i
piedi. Si serve di un oggetto situato all’esterno di sé per essere, per essere
se stesso e qualcosa. È se stesso nella misura in cui ha questo qualcosa. Trae
il proprio essere-soggetto dall’avere un oggetto. È posseduto dall’oggetto,
dall’oggetto dell’avere” (E. Fromm, 2005:173). Secondo questa prospettiva, chi
possiede molte e troppe cose è, dopo tutto, un povero essere. Si potrebbe anche
dire che è povero chi desidera o possiede tante cose di cui non ha effettivo
bisogno, ed è già ricco chi riconosce e valorizza l’essenzialità.
La scenografia
della ricchezza
In generale si crede che le persone ricche
vivano più a lungo, siano più libere, si curino meglio in caso di malattia,
abbiano migliore accesso ai beni e ai servizi, più tempo per istruirsi, per la
musica, le arti e la cultura. Ma non è sempre così, e se facciamo attenzione,
questi benefici, o taluni di essi, non derivano tanto dalla ricchezza in sé
quanto da una situazione di ingiustizia sociale. Sono benefici che devono
essere goduti da tutti, e che invece esistono per pochi in una società ove
tutto è mercificato, ove la dignità umana non viene riconosciuta in sé ma si fa
dipendere dai soldi. Piuttosto che valorizzare la ricchezza materiale occorre,
quindi, riconoscere la dignità di ogni uomo, rendere accessibili a tutti
un’adeguata e pronta assistenza sanitaria, la cultura, l’educazione, come anche
riconoscere e dare priorità a ciò che è veramente necessario ed essenziale per
una buona vita, e che non riguarda solo il campo materiale. E più si riconoscono
e si realizzano i beni spirituali, più decade l’immaturo e socialmente dannoso
desiderio di ricchezza materiale.
Taluni ricchi, d’altra parte, possono essere essi stessi inconsapevoli
della sofferenza causata da un sistema di rapporti caratterizzati dai soldi
piuttosto che dalla solidarietà; un sistema entro il quale anch'essi sono
infelicemente inseriti. Non sono rari, infatti, nel mondo dei ricchi, i casi di
frustrazione, di mancanza di significato, di estrema solitudine e di anomia. E
occorre anche considerare la situazione dei ricchi auto imprigionati in un ritmo
di lavoro intenso e stressante. In altre parole, i valori creduti e propagati
dai ricchi, oltre che causare sofferenza nei subordinati poveri, potrebbero non
apportare felicità neanche a loro stessi.
Un religioso, padre Pronzato, sottolinea un
aspetto della pretesa felicità dei ricchi o di taluni di essi. Egli scrive:
"Nella mentalità di parecchia gente, l'immagine del ricco è associata
istintivamente a quella della gioia. Palazzi favolosi, macchine e barde
strepitose, crociere, alberghi di gran lusso, i piaceri più vari e raffinati. E
a tutto questo si dà il nome di felicità. Invece, sovente, non è che la maschera
della felicità. Non è che la parodia della felicità. Sotto c'è un vuoto
abissale, c'è la noia, c'è la tristezza più sconfinata. Sotto c'è un'anima
avvilita, costretta a subire l'oltraggio di trovarsi soffocata dall'ingombro
dell'avere, umiliata di vedere la crescita dell'essere impedita dalla
preponderanza schiacciante dell'avere (A: Pronzato, 2003:110).
Ci sarebbe quindi un elemento di finzione,
di mera parvenza di felicità nell’ostentazione della ricchezza. Ma padre
Pronzato non è l’unico a pensare in questo modo. In verità ogni persona che ha
buon senso, esperienza della vita, e un briciolo di saggezza, sa bene cosa c’è
o può realmente trovarsi dietro la facciata luccicante dell’apparenza. Anche il
nostro già citato Schopenhauer, che è certamente un fine conoscitore degli
uomini, scrive: “La maggior parte delle meraviglie del mondo sono mera
apparenza, come delle scenografie teatrali cui non corrisponde alcuna realtà.
Ad esempio, navi pavesate e inghirlandate, colpi di cannone, luminarie, rulli
di tamburo e trombe, evviva e grida di giubilo; tutto questo è l’insegna, il
preannuncio, il geroglifico della gioia; ma per lo più la gioia è assente; è la
sola a non essere intervenuta alla festa. Quando vi si trova davvero, di norma
è intervenuta senza invito e senza essersi fatta annunciare, di propria iniziativa
(…), e invece, lo scopo di tutte quelle belle cose sopra elencate è di far credere
che la gioia è presente: l’intenzione è di creare quell’apparenza nelle menti
degli altri” (Schopenhauer, 1994:143).
Denaro e narcisismo
Il narcisismo è una sindrome molto diffusa
che sembra manifestarsi maggiormente e più visibilmente negli uomini ricchi e
famosi a causa della loro condizione e della loro accresciuta visibilità.
Fortemente radicato nella società, il narcisismo si presenta, quindi, come una
forma di inquinamento della psiche collettiva, nutrita continuamente, anche
attraverso i mass media, da valori e da esempi deleteri.
L’individuo narcisista ha un grande bisogno
di sentirsi vivo, e anche di distinguersi, attraverso l’immediata apparenza e
spesso quindi attraverso i segni esteriori della ricchezza materiale, sia essa
reale o ostentata. Si tratta, com’è evidente, di un bisogno lontano o contrario
alla possibilità di un’evoluzione della coscienza, la quale può attuarsi solo
attraverso forme di vita creativa e consapevole. Ecco di fronte a noi, quindi,
il tipico uomo narcisista, bisognoso di ben apparire per compensare una
profonda insicurezza di sé, e per questo sempre alla ricerca di conferma,
vulnerabile alle critiche, e nello stesso tempo spesso arrogante e presuntuoso,
fondamentalmente e interiormente non libero perché dipendente dall’altrui
approvazione e ammirazione. Il narcisismo estremo ha poi come corollario il
cinismo, la manipolazione delle situazioni e delle cose e, fondamentalmente,
l’incapacità di amare il prossimo.
Erich Fromm scrive che "nello sviluppo
umano il narcisismo è il problema cruciale, e tutte le dottrine dell'umanità,
come il buddismo, quella dei profeti ebrei, dei cristiani e degli umanisti
concordano sul fatto che superare il narcisismo è fondamentale, è l'inizio di
ogni forma di amore e di fratellanza. Finché sono narcisisti, gli individui
restano estranei e nemici, incapaci di comprendere gli altri" (1996: 178).
Secondo Erich Fromm è narcisista, appunto, colui che non riesce a veder la
realtà oltre i suoi stessi pensieri, le sue verità, le sue impressioni, le sue
reazioni ed il suo potere. Le cose e i fatti sono importanti perché e in quanto
si riferiscono a lui stesso, e ciò che dice è importante perché è lui a dirlo.
Non occorre essere ricchi per essere
narcisisti. D’altra parte, però, è forse vero che il danaro dà agli uomini una
maggiore opportunità di essere incentrati su se stessi, di sentirsi forti per
mezzo del controllo del prossimo e delle situazioni secondo il proprio interesse
e le proprie idee.
La ricchezza perderebbe per taluni parte
del suo fascino, infatti, se fosse del tutto libera da un sentimento
narcisistico forte, gratificato e "felice". L’uomo ricco si mostra
come immagine forte riconosciuta e riconfermata dagli altri. Ma al di fuori di
quest'immagine potrebbe anche non ritrovarsi e riconoscersi. In fin dei conti potrebbe
trattarsi di un uomo umanamente debole che non ha avuto il tempo o la capacità
di realizzare il suo più profondo ubi consistam e ha bisogno di
conferma, e allora lotta per la ricchezza e il potere, si rivolge fuori, al mondo
esterno da controllare e dirigere. Ma si tratta di una lotta del tutto
incongrua e inutile rispetto a un reale benessere che può essere raggiunto con
altri mezzi sani e meno dispendiosi di energia, liberi da conflitto e da
stress.
Si consideri, per esempio, che a
parte la gratificazione dell’io, molti dei benefici che si traggono dai soldi
sono inutili, non aggiungono nulla all’umanità e alla evoluzione di un uomo, e
certamente non giustificano le lotte che per essi vengono combattute. Si
confronti a tal proposito la vita di un riccone intento, anche con duro lavoro,
a mantenere e consolidare la propria ricchezza, con la vita di un individuo che
ha il tempo e la possibilità di dedicarsi ai suoi interessi e alle sue
passioni. La qualità della vita di un
benestante uomo comune occidentale, non è da meno e può superare quella di un
grande e indaffarato ricco capitalista. Anzi, spesso l'ago della bilancia della
qualità della vita si sposta a favore di chi ha più tempo libero ed è anche
libero dalla stressante necessità di affermare la propria identità narcisista
attraverso la ricchezza.
Esiste inoltre chi è in grado di realizzare
uno stato di pienezza di vita che ha poco rapporto anche con l'agiatezza economica.
Infatti, un uomo di condizione modesta ma colto, intelligente e sensibile, che
vive in un ambiente sano e ricco di rapporti gratificanti, può apprezzare
profondamente la vita e goderne. I poeti, i santi, i filosofi, gli artigiani
creativi, gli artisti, i musicisti, coloro che si dedicano a un lavoro e agli
altri con amore e passione, possono trarre gratificazione più dalla loro
attività che dal narcisismo o dal possesso di grandi beni. Anche coloro che in
qualsiasi condizione di vita semplice sono intimamente soddisfatti e sereni
possono permettersi di non dipendere troppo dall’approvazione o ammirazione
altrui. Certo, queste persone sono rare ma esistono e costituiscono l'eccezione
che potrebbe far riflettere sulla validità degli atteggiamenti comuni verso la
ricchezza. Si tratta di conformazioni psicologiche diverse; l'una è quella che
si appaga nel rapporto ove controlla, ove viene riconosciuta come potente e
ricca; l'altra è quella che si appaga nell'interiorità, con la creazione, il lavoro vocazionale e i
rapporti armoniosi.
Ricerca della
ricchezza come idiosincrasia caratteriale
Proprio
la ricerca di sicurezza del domani mi rende oggi così insicuro.
D. Bonhoeffer
D’altra parte, se è pur necessario e teoricamente
facile considerare il valore dell’interiorità, la vita quotidiana con le sue
esigenze e preoccupazioni, potrebbe distrarre e indirizzare la nostra
attenzione sulla materialità, soprattutto se nello stesso tempo realizziamo,
praticamente, di avere bisogno di soldi. E questo bisogno causa, molto spesso, un
vero disagio psicologico. Una causa molto diffusa di preoccupazione è, infatti,
il timore per la nostra sicurezza materiale.
Potremmo essere poveri e vivere
dignitosamente e nello stesso tempo potremmo aver paura di diventare miseri.
Oppure, se siamo benestanti, potremmo temere di diventare poveri, e arriviamo a
immaginare lo stato di povertà come una catastrofe. Talvolta, anche le persone
più ricche hanno forti preoccupazioni economiche; il loro grande legame emotivo
con i soldi può generare, infatti, la paura di perderli, il pensiero della
possibilità di un disastro finanziario, di una rivoluzione o altro.
La sicurezza del ricco o, sarebbe forse
meglio dire, la sua soggettiva percezione di sicurezza, dipende dalle cose
possedute. Si tratta, quindi, più che altro, di un particolare approccio esistenziale
che può essere vagliato e riconsiderato alla luce di altre prospettive.
Potrebbe, per esempio, essere giusto e opportuno affermare, parafrasando
Dietrich Bonhoeffer, che i beni danno solo il miraggio della sicurezza, la
quale, invece, si trova altrove; nella conformazione psichica di un uomo, nella
sua capacità di amicizia, nella solidarietà, nel suo rapporto sereno armonioso
e intelligente con il prossimo e con il mondo. Soffermiamoci brevemente sulle parole
del suddetto pensatore: “Non affannatevi! I beni danno al cuore umano il
miraggio della sicurezza e dell’assenza di affanni. Il cuore che si attacca ai
beni riceve insieme con essi il peso soffocante dell’affanno. L’affanno procura
tesori, e a loro volta i tesori procurano l’affanno. Vogliamo garantire la
nostra vita per mezzo dei beni, vogliamo liberarci dall’affanno per mezzo
dell’affanno, ma in realtà ne risulta il contrario. Le catene, che ci vincolano
ai beni, sono per se stesse un affanno” (Bonhoeffer, 2004:165).
Il ricco potrebbe riflettere, quindi, se
fosse possibile, sulla natura e sulla validità del legame che esiste in lui tra
sicurezza psicologica e ricchezza materiale: si dà il caso, infatti, che uno
crede di poter essere sicuro e sereno attraverso il possesso della ricchezza
ma, in realtà, se fosse libero da certe sue basilari insicurezze e paure
profonde non impiegherebbe tempo ed energia a costituirsi tesori. Potrebbe
vivere bene e serenamente con un reddito medio o modesto. Invece,
l’insicurezza, o l’affanno, come direbbe Bonhoeffer, lo costringe a ricercare
la ricchezza. E il ricco potrebbe anche riflettere intorno a ciò che è
veramente importante per lui. In altre parole, se alcuni fatti fuori dal suo
personale controllo, come guerre, rivoluzioni, fallimenti, terremoti, furti,
eccetera, lo privassero della sua ricchezza materiale, rimarrebbe egli
necessariamente anche privo delle cose fondamentali? E quali dei suoi bisogni e
dei suoi desideri veramente importanti e irrinunciabili rimarrebbero
insoddisfatti qualora divenisse improvvisamente povero? Il ricco crede, ed è
anche diffusa opinione, anzi fede, che la ricchezza materiale apra le porte
alla soddisfazione di tutti o gran parte dei bisogni e dei desideri umani. Ma
di quali bisogni e desideri si tratta? Molto spesso di bisogni artificiali e indotti.
Secondo una diversa prospettiva, invece, il diffuso legame tra sicurezza e ricchezza
materiale diventa più debole o scompare del tutto. L’insicurezza può avere la
sua origine ed esistenza indipendentemente dal possesso di grandi ricchezze; è
uno stato d’animo causato da fattori psicologici cui si lega un’erronea
concezione di ciò che costituisce il nostro vero benessere. Individuati i
nostri veri bisogni, ci rendiamo conto, quindi, che possono ben essere
soddisfatti con mezzi anche modesti e alcuni di essi, anche molto importanti,
pur fuori da un territorio economico e materiale.
Le paure e le preoccupazioni dell’uomo
ricco potrebbero semplicemente essere superate, quindi, oltre che attraverso la
riconsiderazione e la valorizzazione dei suoi veri bisogni, anche dalla conoscenza
e dalla realizzazione del senso più profondo e importante della sua vita. E se
fa ciò, egli si rasserena; il suo cuore trova luogo ameno in se stesso si
libera dal suo legame con le cose esterne.
I ricchi e
l’approccio neoliberista
Resta pur vero che senza l’apporto di una
dose massiccia di stupidità da parte dei governanti, dei politici, e di una
porzione non piccola di tutti noi, le teorie economiche neoliberali non
avrebbero mai potuto affermarsi nella misura sconsiderata che abbiamo
sott’occhio.
Luciano Gallino
Leggiamo nell’edizione online de Il Fatto del 21 giugno 2012 che “Un
gruppo di gaudenti russi, categoria della peggiore specie di nouveaux riches,
seduti al ristorante del Nikki Beach
a St Tropez, paga un conto dell’esorbitante cifra di 107.524 euro. Sono in
sedici e consumano, tra l’altro, una bottiglia Mathusalem di Dom Perignon
Rosé da nove litri, prezzo di listino 50mila euro, e due bottiglie Jeroboam sempre di bollicine Dom Perignon,
da 6 litri per 40mila euro. Siamo ritornati ai tempi del basso impero, i servi
della gleba da un lato e dall’altro la casta degli ‘intoccabili’, nel senso di non
toccategli le loro ricchezze”.
Mentre questo e simili episodi hanno luogo,
aumenta il numero dei nuovi poveri; molti perdono il lavoro e si attua nello
stesso tempo una progressiva erosione dei diritti dei lavoratori, aumenta il
precariato, diminuisce il loro potere d’acquisto degli stipendi e delle
pensioni. Nel frattempo si prevede l’aumento delle privatizzazioni, che sono,
in effetti, la cessione a buon prezzo di beni e servizi pubblici a ricchi investitori
internazionali. Il potere finanziario concentrato in pochi individui regola la
destinazione e l’uso della vera ricchezza. Questo nuovo potere della finanza e
degli speculatori regna adesso sovrano e anche gli stati finiscono per dipendere
in toto da esso. Sembra, anzi, che gli uomini politici debbano sempre più
rispondere a super-lobby di speculatori coadiuvati da tecnocrati, che insieme
ridisegnano le leggi a proprio favore e contro lo stato sociale. Succede, cioè,
come afferma Luciano Gallino, che “il pensiero neoliberale ha scatenato
un’offensiva che ha messo sotto attacco le idee e le politiche di uguaglianza.
Un apparato di super ricchi e potenti ha imposto il proprio dominio su finanza,
società e media” (Gallino, 2012:121). Esiste, quindi, una categoria di capaci
finanzieri, speculatori e rentier che godono di immense fortune parassitarie
senza produrre nulla.
Mi rendo conto che questa sopraesposta
visione potrebbe apparire congrua ai lettori nuovi poveri e parziale
all’eventuale lettore che accetta o promuove politiche neoliberiste. Tuttavia,
diversi ed eminenti autori ed economisti hanno una visione più variegata o
contraria rispetto a quella neoliberista favorita e promossa dai mass media.
L’approccio neoliberista, che ha avuto un grande impulso negli anni settanta
attraverso l’azione politica di Margaret
Thatcher e Ronald Reagan, propugna la liberalizzazione dell’economia da ogni
ingerenza dello stato e, quindi, la privatizzazione dei servizi pubblici,
l’eliminazione delle barriere doganali, la libera circolazione dei capitali.
Secondo i sostenitori del neoliberalismo la libertà del mercato e dei finanzieri
stimolerebbe la crescita economica e il benessere generale. Succede, invece,
che senza il controllo operato da uno stato democratico eletto e sorretto anche
dai poveri, il potere del mercato e dei ricchi è privo di qualsiasi argine.
D’altra parte, il pensiero economico alternativo
al neoliberismo, sostenuto da diverse avanguardie, non può da solo presentare
la soluzione delle nostre questioni di convivenza. Occorre anche, e soprattutto,
una profonda riflessione morale. Mi rendo conto, d’altra parte, che è tanto
facile predicare quanto è facile rimanere inascoltati: le prediche morali non
hanno mai cambiato, sembra, il corso della storia. E tuttavia possiamo porci la
semplice domanda: perché esiste ed è normalmente accettata la povertà di miliardi
di esseri umani e la concomitante sterminata ricchezza di pochi?
Indipendentemente dalla nostra visione del mondo e dei rapporti, la visione
della povertà si presenta dinanzi ai nostri occhi.
E allora, la nostra comune riflessione sui
di noi e sui fatti sociali non può prescindere dalla questione morale.
Perché i ricchi non
si curano dei poveri
790 milioni di persone vivono nel mondo al
limite della sussistenza; un miliardo e trecento milioni vivono con meno di un
dollaro al giorno. Ogni anno 36 milioni di persone, la maggioranza bambini,
muoiono di fame. Secondo le stime delle Nazioni Unite, il soddisfacimento
universale dei bisogni sanitari e nutrizionali dei poveri costerebbe 13 miliardi
di dollari, all’incirca quanto gli abitanti degli Stati Uniti e dell’Unione
Europea spendono ogni anno in profumi. Le tre persone più ricche del mondo
hanno un reddito superiore al prodotto interno lordo dei 48 paesi più poveri.
Il reddito complessivo dei 25 milioni di americani più ricchi è pari al reddito
dei due miliardi di persone più povere del mondo. Ma anche nei paesi
occidentali i ricchi diventano sempre più ricchi e aumenta la povertà e la
disoccupazione. Per esempio, solo in Italia si costata che il governo ha
attuato (2012) misure a svantaggio dei pensionati e dei poveri, salvaguardando
i grandi patrimoni, le pensioni d’oro e gli stipendi dei politici. E nello
stesso tempo le esorbitanti disparità di reddito non sono oggetto di profondo
dibattito pubblico; i giornali e le televisioni non ne parlano e gli uomini
politici in generale se ne disinteressano.
Perché, quindi, i ricchi non si curano dei
poveri? Se donassero anche una parte della loro ricchezza, pur restando ricchi,
risolverebbero il problema della povertà nel mondo. Scrive a proposito Luciano
Gallino: “In effetti, impiegando capitali nell’insieme modesti rispetto a
quelli utilizzati per altri scopi, dalla produzione delle armi alla
speculazione finanziaria, in pochi anni si potrebbero sconfiggere - lo dice
l’Onu, lo dice perfino la Banca mondiale - sia la povertà estrema sia la fame
nel mondo” (Gallino, 2012:187).
Piuttosto che realizzare il potenziale
della loro umanità nella fratellanza umana, i ricchi sono posseduti dal patrimonio.
All’interno di contesti entro i quali si rifugiano, negli ambienti chiusi entro
le mura di grandi ville protette da guardie e sistemi antifurto, essi ignorano
la situazione di povertà esistente oltre i loro recinti, o non riescono neanche
a immaginare la sofferenza del misero.
La
mancata considerazione dei poveri da parte dei ricchi avviene anche perché, in
realtà, il ricco rimuove da sé una condizione umana antica e paventata ma che permane
in gran misura nel mondo. Fuori dalle strade del potere e dei soldi, l’uomo incontra
la propria insicurezza, o la sua originaria nudità esistenziale. Il povero vive,
incarna e manifesta, quindi, l’insicurezza esistenziale da cui il ricco fugge
via ignorandola. E
per taluni una certa intima insicurezza permane anche nel benessere, talvolta mascherata
da finzione, da superficialità, da varie corazzature dell’io. Il desiderio di
accumulare beni ha senza dubbio la sua radice anche in paure primordiali e forse
ancora radicate nell’animo umano, come l’antica paura di carestie e di fame. Soprattutto
il culto dei soldi è motivato, quindi, da insicurezza, da una fondamentale
mancanza di fiducia nel prossimo e nella vita. Se non v'è solidarietà, se gli
uomini non realizzano di essere componenti di una grande famiglia umana, allora
nascono negli individui insicurezza e paura; paura di esser succubi degli altri
e degli eventi, paura di diventare poveri e, di conseguenza, più deboli nei
rapporti. In un ambiente in cui non si può fare affidamento sulla qualità dei
rapporti umani e sulla condivisione, chi è ricco si difende meglio
dall'insicurezza interiore e relazionale, e ha meno bisogno degli altri, della
loro solidarietà, costruisce difese, mondi chiusi e protetti. In realtà, quindi,
se ben consideriamo, lo stesso "paradiso" della ricchezza, protetto
da guardie del corpo e da porte blindate, può rivelarsi non altro che un
rivestimento della nudità, non altro che la decorazione costosa di un essere
umano pauroso, infelice, insicuro e conflittuale.
Il ricco allontana da sé, quindi, questa
reale e in altri manifesta condizione di nudità attraverso le cose possedute e
consumate: “L’uomo consuma perché vuole rimuovere la povertà che è nel suo
essere-reale; ignora l’indigenza nel mondo perché nega e si distanzia da una
parte oscena di sé che non vuole vedere e ammettere” (E. Bazzanella in
Galbraith, 2011:30). La visione del misero è ignorata, le risorse non vengono
condivise, anzi il povero viene sfruttato e consumato, insieme alla terra di
cui fa parte, e di cui fanno parte anche i ricchi.
Molto probabilmente l‘eventuale lettore
ricco non si riconoscerà in queste mie idee e descrizioni e le reputerà
parziali e ingiuste. V’è, senza dubbio, una determinazione sociale della
conoscenza che avviene, quindi, dal punto di vista della situazione materiale
in cui si trova un osservatore. E tuttavia, la mia visione della ricchezza
potrebbe essere confermata dai saggi di tutti i tempi. Invece, le idee portate
avanti dal ricco per giustificare il suo stato e per non occuparsi del povero,
sono prive di fondamento, di compassione e di saggezza. Perché tu che hai tanti
soldi e potere non ti prendi cura del tuo prossimo che soffre? Non esiste una
risposta umana, logica e giusta, che tu uomo ricco possa dare.
Una delle risposte più comuni data dal
ricco per giustificare il suo stato è che la miseria dei poveri è colpa dei
poveri, che sarebbero pigri, corrotti, privi di iniziativa economica e si
riproducono troppo velocemente. E questo ultimo punto è vero, se si considera
l’età media degli africani e degli indiani poveri e la si confronta con quella
di un’Europa invecchiata. Già nel lontano 1830 David Ricardo, un agente di
borsa, e Thomas Herbert Malthus, un pastore protestante, affermavano che “la
miseria dei poveri è colpa dei poveri, e lo è perché è prodotta dalla loro
eccessiva fecondità (…) al limite massimo della sussistenza disponibile” (J. K.
Galbraith, 2011:34).
Un’altra comune e altrettanto cinica
giustificazione data alla mancanza di aiuto ai poveri è quella che ricalca una
dottrina già diffusa negli Stati Uniti a metà del XIX secolo. “La nuova
dottrina, associata al nome di Herbert Spencer, era il Darwinismo Sociale.
Nella vita economica, come nello sviluppo biologico, la regola predominante è
la sopravvivenza del più adatto. Questa frase – sopravvivenza del più adatto –
deriva nei fatti non da Charles Darwin ma da Spencer, ed esprimeva la sua
visione della vita economica; e secondo lui, l’eliminazione dei poveri è il
modo della natura di migliorare la razza. Una volta che i deboli e i
disgraziati siano stati estromessi, la qualità della famiglia umana ne esce
rafforzata. Uno dei più illustri portavoce del darwinismo sociale fu John D.
Rockefeller che disse in un famoso discorso: la rosa American Beauty può essere
prodotta nel suo splendore e con la fragranza che allieta chi la osserva solo
sacrificando i germogli precoci che le crescono attorno. E così è anche nella
vita economica: si tratta semplicemente del compimento di una legge di natura e
di una legge di Dio” (J. K Galbraith, 2011:35).
D’altra parte, e secondo alcune persone ricche
con cui ho avuto modo di scambiare alcune idee sull’argomento, ogni forma di
concreta e prolungata assistenza sociale sarebbe dannosa per la società e per
gli stessi poveri. E, quindi, “non è opportuno che persone ricche, perché
attive e produttive, mantengano persone pigre e dipendenti”. L’aiuto ai poveri
non favorirebbe in loro, inoltre, una scelta di vita responsabile e
indipendente. Ma contro questo approccio si potrebbe obiettare che i poveri non
hanno precipuamente bisogno di beneficenza ma di vivere in un mondo giusto, ove
sia garantita a tutti la possibilità di sostenersi e lavorare senza essere
sfruttati e asserviti. La beneficenza commiserevole dei ricchi verso i poveri
è, infatti, spesso solo il corollario di un sistema di rapporti sociali
ingiusti: si sfrutta un popolo, un territorio attraverso predatori interventi
imprenditoriali e finanziari e poi si fanno feste, concerti, eccetera, raccogliendo
fondi per gli impoveriti.
Un altro motivo dato dai ricchi per non prendersi
cura dei poveri, sempre in sintonia con un cinico darwinismo sociale, è quello
di una malintesa idea di libertà. In un regime “democratico” e quindi di libero
mercato, le cose e le prestazioni sono valutate secondo la legge della domanda e
dell’offerta, e perciò va bene ed è normale che un professionista molto bravo
riceva una somma favolosa da un poveretto che ha bisogno dei suoi servizi; va bene
ed è normale se un consulente, un uomo politico, eccetera, riesca a vendere le
sue prestazioni per una grossa cifra finché c’è qualcuno che la esborsa.
Va quindi vista secondo una prospettiva più
ampia l’originaria domanda: perché i ricchi non si prendono cura dei poveri?
Non se ne prendono cura perché li hanno rimossi e li hanno rimossi perché la
loro condizione di ricchezza è già in origine basata sull’ingiustizia, sullo
sfruttamento del prossimo e del pianeta. È ingiusto, per fare un esempio che
riguarda l’Italia, che un ex direttore esecutivo riceva una pensione di 90 mila
euro al mese, e altri ne riceva una di 500-1000. Il motivo per cui tale pensionato
d’oro non si cura del povero è lo stesso motivo che lo ha spinto a lottare,
fare carriera pensando prevalentemente a se stesso e non al bene e all’equità
della società per cui avrebbe dovuto lavorare. Se i ricchi, invece, fossero ben
tassati, e se i politici e i direttori esecutivi delle grandi società
ricevessero uno stipendio o una pensione equa e non esorbitante, rimarrebbe
sempre per loro una gran misura di libertà personale. Come giustamente afferma
J.K. Galbraith, “Per quanto si senta molto parlare della limitazione della
libertà dei ricchi quando le loro entrate vengono ridotte dalle tasse, nessuno
parla dello straordinario accrescimento della libertà dei poveri che
deriverebbe dall’avere del proprio danaro da spendere. Quindi la perdita di
libertà dei ricchi con le tasse è poca cosa se comparata alla libertà
guadagnata provvedendo a qualche tipo di entrata agli indigenti. Noi
giustamente amiamo e proteggiamo la libertà, e dunque non dovremmo usarla come
copertura per negare libertà ai bisognosi” (J.K. Gabraith, 2011:39).
Ma insieme a una malintesa idea di libertà,
il più grande motivo per cui alcuni uomini non esitano ad arricchirsi con ogni
mezzo, non curandosi dei poveri, è la mancanza di compassione umana, mancanza
che non tiene conto della reale e profonda interdipendenza degli uomini e degli
eventi. Ed è proprio la compassione, il rendersi partecipi della sofferenza e
dei sentimenti degli altri, ciò che rende un uomo veramente umano e parte di
un’umanità indivisa. Come afferma il famoso studioso: “La compassione, con
associato pubblico sforzo, è il comportamento meno conveniente di questi tempi.
Ma rimane l’unico compatibile con una vita completamente civilizzata” (Galbraith,
2011:41).
CAPITOLO
SECONDO
POVERTÀ E RICCHEZZA
*
L'uva è acerba
Il mio atteggiamento verso la ricchezza materiale
potrebbe essere considerato partigiano, cioè quello di un povero.
Da questa mia posizione le mie parole
perdono forse gran parte dell'incisività che avrebbero se fossero pronunciate
da un ricco che si è convertito ai sani valori di una vita semplice. Esse
potrebbero sembrar formare argomentazioni per certi versi simili a quella che
fa la volpe di fronte all'uva che non riesce a raggiungere, e dice che è
acerba. Ma qui occorre fare una precisazione: il lettore della famosa favola di
Esopo è tentato di credere che l'affermazione della volpe sia una mera
giustificazione, ma potrebbe anche considerare il caso in cui l'uva possa
essere veramente acerba e indigeribile.
In questo libro tento di argomentare che la
volpe vede chiaro, che l'uva è effettivamente acerba e che, quindi, fuori
metafora, l’attuale sistema di rapporti economici basati sul mero profitto non
determina la nostra felicità, l'armonia della nostra convivenza, una vita
buona, il benessere del nostro ambiente fisico e psicologico, la realizzazione
delle nostre potenzialità umane. Anzi, mi spingo oltre e affermo che la
ricchezza è piuttosto un peso inutile, e che una vita semplice può non solo ben
bastare, ma anche renderci più sereni e felici.
È per certi versi evidente, inoltre, che la
ricerca costante di denaro è una fonte di grande stress. “Come hanno scoperto
gli psicologi sociali Richard Ryan, Tim Kasser, Peter Schmuck - in sondaggi organizzati in grande stile
negli Stati Uniti, in Germania, Russia e India – gli uomini che considerano
particolarmente importante il denaro sono meno soddisfatti della loro esistenza
di quelli che si sforzano piuttosto di aver rapporti migliori con i loro simili
e che vogliono sviluppare i loro talenti o impegnarsi a favore della società”
(S. Klein, 2002:225). Vivere con la continua valorizzazione e visione dei soldi
sarebbe, insomma, come rapportarsi con un frutto che una volta colto e ingerito
risulta infine acerbo e indigesto. Non riuscire a coglierlo non costituisce,
quindi, una perdita.
Felicità e
acquisizione del superfluo
Il binomio ricchezza/felicità é certamente
un inganno. D’altra parte, v'è la generale e salda convinzione che sia
difficile se non impossibile essere felici o vivere in modo soddisfacente
quando si è poveri. E gli stessi poveri dimostrano di essere più contenti quando
acquistano un certo benessere. Soprattutto in una situazione di indigenza, un
sopravvenuto aumento di reddito rende migliore l'esistenza. Il benessere
materiale generalmente rende la vita per certi aspetti più agevole e comoda e,
tuttavia, se ben consideriamo, una volta ottenuti i beni essenzialmente
necessari o ragionevolmente utili per una vita serena, l'acquisizione di tutto
il superfluo soddisfa solo bisogni indotti e può causare competizione, stress,
lavoro alienato, mancanza di tempo libero, dislocazione all’esterno, e quindi disequilibrio
del sé.
Alcuni sociologi sono concordi nell'affermare
che "almeno per quello che riguarda le persone che vivono nei paesi ricchi
del mondo, nessuna finalità pratica è resa più agevole dall'accumulazione ulteriore
di ricchezza" (R. Frank 2004:117). L'incremento addizionale di un reddito
già alto non produce una soddisfazione reale che sia duratura e che non si
limiti in un campo meramente psicologico. In casi estremi si può essere tanto
ricchi da non avere neanche la reale possibilità di un rapporto diretto con
tutti i beni posseduti. E v'è poi da considerare il fattore adattamento. Ecco
quindi che "gli individui si adattano velocemente non solo alle perdite,
ma anche ai guadagni. Le campagne pubblicitarie della lotteria dello Stato di
New York mostrano ai loro potenziali partecipanti come la loro esistenza
potrebbe cambiare nel caso di una vincita. Coloro che effettivamente vincono la
lotteria solitamente manifestano l'impeto di euforia (…) nelle settimane
immediatamente successive la loro vincita. Le indagini condotte a distanza di
diversi anni rivelano, al contrario, che queste persone spesso non sono più felici, e in realtà risultano
addirittura meno felici, di prima" (R. Frank 2004: 119). V’è da notare,
inoltre, che lo stesso il carattere di un uomo si può rivelare grande fattore
di benessere o infelicità, e una data conformazione psichica non migliora
necessariamente con il miglioramento della condizione economica. Potrebbe
essere più importante, quindi, avere una buona disposizione d'animo unita al
necessario per vivere piuttosto che un pessimo carattere unito ad un grande
conto in banca. La ricchezza, infatti, non fa una grande differenza nello stato
interiore di chi ha un carattere incline all'insoddisfazione ed è naturalmente
infelice o addirittura meschino. Alcuni dei fattori che determinano la felicità
possono essere anche ereditari, e se i nostri genitori non erano nevrotici e
ansiosi, abbiamo noi stessi maggior possibilità di essere sereni. Considerando
anche questa componente ereditaria o biologica potremmo dire che le condizioni
esterne, quando non sono estreme, incidono in misura relativa sul nostro star
bene. Al loro variare, il nostro stato mentale abituale varia temporaneamente
per ritornare prima o poi alla sua più costante valenza.
È vero, dunque, che all'aumento del reddito
oltre una certa soglia non corrisponde necessariamente un aumento
dell’effettivo benessere: chi possiede cento camere da letto non dorme meglio
di chi ne possiede una; chi possiede cento ville non è più felice di chi vive
bene in una casa amata e arredata con gusto; chi paga un prezzo esorbitante per
un pasto in un ristorante di lusso non mangia meglio di chi si ferma in
un’ottima trattoria; e il vino contenuto in una bottiglia di mille euro non è
sicuramente migliore di un vino genuino e non costoso, e via di seguito. È vero,
quindi, che il "maggior benessere" dato da una maggiore ricchezza è in
gran parte solo immaginato, psicologico, e può consistere anche in una effimera
sensazione di esser più in alto degli altri. E chi ha tale bisogno, o carenza,
non è una persona saggia e interiormente ricca. L'acquisizione della ricchezza
materiale e del superfluo può quindi essere indotta dall'insufficienza morale e
psicologica di un uomo che per sentirsi soddisfatto ha bisogno di essere
superiore al suo vicino. Ma si pensi anche alla situazione di chi lavora tanto,
fino a stressarsi, per mantenere un livello di vita alla pari con quello del
suo gruppo di riferimento, e perciò trascura aspetti importanti per la sua
stessa felicità, come per esempio il tempo del rapporto con la famiglia, o il
tempo dedicato a un hobby e così via.
Piuttosto che stressarci ad acquisire beni
superflui, arriviamo quindi a scoprire e valutare i fattori che ci rendono più
felici: la disposizione positiva verso la vita, le buone capacità, innate e coltivate
e, ancora, l'intelligenza relazionale che ci permette di comprendere noi stessi
e gli altri nel rapporto e superare eventuali difficoltà. L'armonia del
rapporto è essa stessa la condizione preliminare per il godimento dei piaceri
che sono considerati essere parte integrante della condizione di felicità.
La vita semplice
Può esserci chi abita in una modesta casa
con orto e giardino, ha cibo e vestiti adeguati, libertà di movimento, libertà
interiore e relazionale, svolge un'attività soddisfacente, creativa o
vocazionale, vive in armonia con il prossimo e con l'ambiente, ha tempo libero
e non è assillato dal dover acquisire beni sostanzialmente inutili o false
immagini di sé. Eppure, questa persona,
che vive in una situazione di armoniosa e positiva semplicità ove si ritrova umanamente ricca, potrebbe avere un
basso reddito, persino non avere un conto in banca, ed essere quindi
considerata "povera" secondo i criteri del corrente consumismo. Ma il
suo benessere è reale, pur se non quantificabile dalle statistiche economiche.
E non si tratta in questo caso di un esempio astratto. Io stesso ho avuto modo
di osservare diverse situazioni esistenziali e materiali felici, soprattutto in
campagna, ove la ricchezza reale, costituita dalla casa, dalla terra,
dall’acqua, eccetera, si unisce a una certa pace sociale e all’armonia dei
rapporti e anche alla cultura e all’arte. Anni or sono visitai un villaggio in
una bellissima zona rurale della Romania ove i “poveri” abitanti possedevano
tutto e più del necessario per vivere bene. Inoltre, abitavano in belle case di
legno circondate da orti e da boschi, e producevano manufatti artistici e musica.
Purtroppo, in seguito alla sopravvenuta conoscenza del “benessere” della
società industriale occidentale, con le sue innumerevoli offerte di nuovi
oggetti, essi si videro “poveri”, solo perché non avevano il denaro per
acquistare televisori piatti, automobili con l’aria condizionata, e altri oggetti
che prima non conoscevano e di cui non sentivano la mancanza. Non voglio però
elogiare e idealizzare i “beati tempi che furono” ma desidero semplicemente
considerare che la vita moderna piena di oggetti in una grande città, non è sempre
più felice di una vita semplice conviviale e creativa in un ameno ambiente
naturale. Inoltre, nel momento in cui un abitante di un antico villaggio, ricco
di cultura e tradizioni, sia esso in Romania, in Africa o in Asia, desidera i
prodotti del consumo occidentale, vale a dire la “ricchezza” che può acquistare
solo con il denaro, deve scambiare il suo tempo libero per uno stipendio, e
rinuncia quindi alla sua libertà ed è costretto a cederla a chi il denaro sa
meglio di lui amministrare e moltiplicare. E allora diviene veramente povero.
La povertà positiva
D’altra parte, il concetto di povertà si presta
a diverse chiavi di lettura. Occorre quindi, in primis, fare una ben chiara
distinzione tra il concetto generale di povertà e quello particolare di povertà positiva, che potrebbe
caratterizzare una vita semplice.
Il concetto di povertà positiva deve essere ben distinto da tutte le condizioni
di assoggettamento, di sfruttamento e di miseria. Esiste, infatti, una povertà
subita e involontaria che abbassa e rende schiavi, ma v'è anche una povertà
positiva, coincidente con la vita semplice, che libera ed eleva l'uomo; una
condizione che potrebbe essere scelta liberamente in base ad una riflessione
congrua e realistica attorno ai bisogni naturali e necessari e intorno ai fatti
e ai valori sostanziali della vita.
La vita semplice e, quindi, vissuta in positiva povertà, è quella di chi
distingue i desideri causati da bisogni naturali e necessari dai desideri culturalmente
indotti, creati artificialmente, promossi e avvalorati dai mass media e dal
conformismo. Si tratta quindi della condizione esistenziale di uomini saggi che
non si alienano e non dislocano il proprio sé in inutili oggetti esterni, e
quindi di uomini positivi, che non si credono infelici per il fatto di non
possedere cose inutili e superflue. Nulla vieta, inoltre, che la povertà
positiva si leghi all’educazione, alla cultura, all’armonia relazionale. Anzi,
potrebbe rivelarsene un utile presupposto. Tra i tanti esempi di positiva
povertà potremmo considerare quello di Epicuro che, come vedremo nei prossimi
paragrafi, visse una vita filosofica e felice attorniato da sinceri amici in un
giardino, curandosi di soddisfare solo i desideri che riteneva naturali e
necessari.
Diverse relazioni
tra ricchezza, povertà e felicità
Quando si parla di ricchezza e di povertà,
diversi fattori concreti devono essere considerati, come per esempio, tra i più
importanti, la qualità dei rapporti umani e il benessere psicologico. Questi
due fattori possono far parte sia della povertà sia della ricchezza, in modo
tale da aumentarne o sminuirne il valore. Si immaginino, per esempio, due
ipotetiche situazioni limite e contrastanti: un ambiente materialmente povero,
come potrebbe essere, appunto, il giardino di Epicuro, ma al cui interno i
rapporti sono ricchi e armoniosi, e un ambiente materialmente ricco al cui
interno i rapporti sono conflittuali. Oppure si immagini e si confronti la situazione
di una rete di rapporti tra amici poveri ma solidali, che si amano e si
rispettano, con la situazione di un ricco solo, circondato da ipocrisia e privo
del conforto di profondi rapporti affettivi.
Recentemente sono stato colpito dal
racconto dell’esperienza di viaggio in Africa di mio nipote Marco. “Zio,” – mi
disse, – “immagina di andare a bussare senza preavviso alla porta dei tuoi
vicini all’ora di pranzo e proporre di mangiare con loro. Cosa direbbero, cosa
penserebbero? Considererebbero la proposta a dir poco strana, non è vero? Invece,
nei villaggi africani che ho visitato, è cosa normale per gli indigeni dividere
il pranzo con chi capita”.
“Si comportano così perché sono primitivi” ribattei scherzando.
“Primitivi e solidali”, rispose.
Si può altresì immaginare la situazione di
un ambiente ricco e solidale e di un ambiente povero e conflittuale, e un
qualsiasi altro ambiente in cui felicità povertà e ricchezza si combinino in
vari rapporti. Tuttavia, potremmo ragionevolmente ipotizzare che il benessere
psicologico non è direttamente dipendente da quello materiale. L'associazione
tra benessere materiale e benessere psicologico è piuttosto un semplice e
diffuso atteggiamento che non risponde necessariamente alla realtà. Occorre invece
essere più realisti, osservare i fatti e le situazioni concrete, ma anche
immaginare nuove e possibili situazioni, e cominciare a legare il concetto di
povertà, o di vita semplice, con quello di felicità e di serenità. E se l'idea
di legame tra ricchezza e felicità è tanto comune quanto indimostrabile, l'idea
dell’unione della povertà positiva con la felicità e la serenità può, messi da
parte i comuni pregiudizi, risultare plausibile e concreta.
Povertà relativa o
posizionale
La condizione generale di povertà va
considerata anche e soprattutto nel suo aspetto interattivo.
Ciò che spesso fa sentire povero un uomo
non è tanto il suo livello concreto di benessere quanto il confronto, il suo
paragonarsi con le persone che sono i suoi modelli o con cui si rapporta.
Appare giusta, quindi, l’affermazione di John K. Galbraith secondo cui "si
cade nella povertà ogniqualvolta il nostro reddito, seppur adeguato ai fini
della sopravvivenza, sia considerevolmente inferiore a quello della
comunità". Succede quindi che un "povero" europeo dei tempi
moderni, che pure si trova in condizioni materiali anche migliori rispetto a
quella di un benestante di cento anni fa, soffre o è insoddisfatto quando
osserva l'opulenza che lo circonda, o quando semplicemente ammira alla
televisione la "felicità" dei ricchi. Il benessere, quindi, spesso
non è valutato di per sé, ma è inteso come benessere posizionale, dipendente
dalla collocazione dei membri in una società.
Per esempio, un individuo che guadagna mille euro al mese potrebbe
sentirsi povero accanto a chi ne guadagna quattro mila, e se poi guadagnasse
quattro mila euro potrebbe continuare a sentirsi povero di fronte a chi ne guadagna
sedicimila.
Diversi studiosi sociali hanno tentato di
misurare e quantificare lo stato di felicità o benessere personale rapportato
alla crescita del PIL e della ricchezza materiale. Essi hanno raccolto dati
soggettivi, cioè dipendenti dal grado di felicità direttamente percepita dagli
individui, e dati considerati oggettivi, come per esempio la diffusione di
certe malattie, dell'obesità, dei suicidi, la diffusione dell'ansia,
dell'insicurezza, l'aumentata vendita di psicofarmaci, l'uso di droghe, eccetera.
Ebbene, sulla base delle misurazioni di questi studiosi, quando il reddito
aumenta in modo uniforme o proporzionale per tutti i membri di una società, non
varia in modo corrispondente la percezione individuale e soggettiva di aumentata
ricchezza.
Una società su cui sono state fatte
ricerche in tal senso, e quindi un esempio tipico, è quella giapponese. Il
Giappone, infatti, "nel 1960 era un paese molto povero. Da allora il
reddito pro capite è aumentato in modo considerevole, risultando anche oggi tra
i più elevati del mondo industrializzato. Nonostante ciò, il livello medio di
felicità percepito e dichiarato dai giapponesi oggi non è superiore a quello
del 1960. Essi possiedono molte più lavatrici, automobili, macchine
fotografiche e altri oggetti, rispetto a quanto ne avessero allora, tuttavia
non hanno registrato progressi significativi sulla scala della felicità"
(R. Frank, 2004:116). Inoltre, anche che il benessere economico distribuito a
tutti in eguale misura non dà modo alla componente abbastanza diffusa del
confronto antagonistico di manifestasi. Se tutti hanno lo stesso reddito, viene
frustrato il particolare bisogno di posizionarsi economicamente più in alto
rispetto ai propri simili.
Sottolinea questo bisogno il sociologo
Thorstein Veblen che già nel lontano 1934 anticipa, attraverso un metodo
intuitivo, i dati delle ricerche empiriche dei sociologi moderni. Egli scrive,
infatti, che "per quanto largamente o ugualmente o discretamente possa
essa venir distribuita, nessun aumento generale della ricchezza può anche
lontanamente saziare questo bisogno, il cui fondamento è il desiderio di
ciascuno di eccellere sopra ogni altro nell'accumulare ricchezze. Se, come
talvolta si pensa, lo stimolo ad accumulare fosse il bisogno della sussistenza
oppure del benessere fisico, allora il complesso delle necessità economiche di
una comunità potrebbe presumibilmente venir soddisfatto in certa misura col
progredire dell'efficienza industriale; ma poiché la lotta è sostanzialmente
una corsa all’onorabilità basata su di un confronto antagonistico, non è possibile
nessun avvicinamento ad una meta definitiva" (T. Veblen, 1949:41).
Continuerà quindi la corsa alla ricchezza e ai consumi finché permane negli
uomini il desiderio di eccellere l'uno sull'altro, o di conformarsi ai modelli
di consumo vigente.
L’evoluzione degli
approcci economici correnti
Ma le risorse naturali sono limitate e il
sistema terra non può sopportare una crescita continua e universale del reddito
e dei consumi. Gli Africani, gli Indiani, i Cinesi, non possono arrivare ad
avere un tenore di vita simile a quello degli abitanti degli Usa, che gettano
nella spazzatura mediamente il trenta per cento del cibo acquistato. Ma la
crescita economica e dei consumi non può continuare infinitamente neanche in
Occidente. E questo per molti motivi tra i quali tre mi sembrano i più importanti.
Uno è che, come dicevo, le risorse naturali sono limitate; l'altro è che il
presente modello di sviluppo promuove l'inquinamento delle terre e delle acque;
e il terzo motivo è che il consumismo sfrenato si basa necessariamente sullo
sfruttamento degli uomini e sull’ineguaglianza; e ciò significa che alla
crescita del Pil di una nazione e all’incremento della ricchezza di un gruppo
limitato di persone corrisponde la povertà o la miseria di altri gruppi e popoli.
Dopo la caduta del muro di Berlino, è successo, infatti, che i ricchi sono
diventati sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri, con un impoverimento
delle classi medie. E finché gli stati assecondano e promuovono poteri neoliberisti,
questa tendenza sembra dover permanere fino a una probabile futura situzione di
forte crisi.
Intanto i poveri desiderano adottare
modelli di sviluppo insostenibili, e i ricchi vivono nel loro mondo ovattato e chiuso
e non hanno coscienza della sofferenza degli altri uomini e della terra. Non è
forse difficile prevedere gli sviluppi futuri di questa nostra attuale
situazione. La grande famiglia umana vive in una casa dal tetto pericolante, e
se alcuni membri soffrono, pochi si accorgono del pericolo, e pochi altri,
consapevoli o meno, stanno bene in stanze apparentemente sicure da ogni minaccia.
Le questioni irrisolte che minacciano la solidità della nostra casa sono le
stesse di cui i governi generalmente non si occupano o se ne occupano in modo
superficiale e non risolutivo: i cambiamenti climatici, l’inquinamento, l’impoverimento
dei terreni coltivabili, l’effetto serra, le guerre spesso patrocinate dalle
grandi industrie di armi, la miseria di popoli costretti a emigrare, la
corruzione e le ingiustizie, la deforestazione, e poi, soprattutto, l’ignoranza
e i pregiudizi ancor più promossi e sostenuti dai mass media, e altro ancora.
Il
mondo occidentale potrebbe già essere in declino, o è destinato a trasformarsi,
più o meno pacificamente, forse a disfarsi, come altre fiorenti civiltà del
passato. D’altra parte non può sussistere a lungo una società basata
sull’adorazione di banconote e titoli. Non è possibile, nel lungo termine, che
il profitto sia prioritario rispetto ai valori reali dell’esistenza. Inoltre, la
distribuzione della vera ricchezza e delle vere risorse non può essere sempre
regolata dal movimento computerizzato di titoli e capitali. Già adesso, nel
momento in cui scrivo, il sistema economico e finanziario mondiale mostra segni
di profonde incongruenze e ha ripercussioni deleterie nell’ambiente umano e
naturale. Come gli antichi Romani, durante il tempo di splendore della loro
civiltà, non ne potevano forse immaginarne la caduta, anche noi occidentali,
mentre perseguiamo il mito di una vita sempre più comoda e tecnologica, mentre
le folle guardano programmi televisivi di evasione, mentre lavoriamo per la
ricchezza e la crescita e la nostra attenzione si rivolge ai nostri interessi
immediati e particolari, sottovalutiamo o non abbiamo consapevolezza dei problemi
reali e dei mutamenti che si compiono in intervalli relativamente più lunghi. Il
nostro profondo sentimento, e quello dei nostri governanti, non viene generalmente
scosso, e neanche toccato dalle questioni fondamentali cui facevo cenno sopra.
Potremmo dire che la responsabilità maggiore cade sugli uomini politici e sui
potenti della terra, che non sembrano interessarsi alla soluzione dei nostri
problemi, presi come sono dalla mera gratificazione psicologica del potere e
della ricchezza materiale.
Gli approcci e gli interessi economici oggi
prevalenti, che determinano l'esistenza del mondo così com'è e dei suoi
sviluppi, potrebbero mutare forse solo di fronte a delle ulteriori evidenti,
ineluttabili e probabilmente tragiche necessità, di cui tutti gli uomini, siano
essi poveri o ricchi e potenti, farebbero esperienza. Possibili svolgimenti
positivi potrebbero aver luogo, invece, qualora sorgesse un diffuso e serio
dibattito sulle conseguenze del nostro modo di vivere e di concepire la vita, qualora
sopravvenisse un salto nella consapevolezza e nella maturità delle persone, e
nei rapporti. Dovremmo quindi chiederci se l’eccessiva valutazione
dell’economia, del profitto, della
crescita e dei soldi, ci porta reale benessere o felicità. E allora, in questa
nostra difficile situazione umana e ambientale possiamo cominciare a
considerare ciò che effettivamente costituisce la nostra felicità, possiamo ricercare e stabilire le condizioni reali per
una vita felice.
CAPITOLO
TERZO
LA FELICITÀ NELLA SOCIETÀ DEI
CONSUMI
*
La
ricerca della felicità
Non camminare
per le vie dove va la gente.
Pitagora
Proponevo già, nella prefazione di questo
libro, che l’affrancamento dai valori materialistici generalmente legati al
culto del denaro si ottiene attraverso l’adozione di nuovi approcci
esistenziali che siano fondamentalmente umani e apportatori di felicità. E tali
approcci sono semplici, condivisibili dai nuovi poveri e praticamente
attuabili. La ricerca della felicità, in altre parole, non coincide con la
ricerca del benessere economico o seguendo i suggerimenti o i diktat dei grandi
poteri finanziari. Continuiamo insieme, quindi, il nostro dialogo su questo
tema.
Chi intende seguire con impegno la ricerca
della felicità troverà facilmente e ovunque una grande abbondanza di
informazioni e suggerimenti. L'argomento è così diffusamente trattato, e
talvolta anche con saggezza e competenza, che ogni ulteriore ricerca può
apparire ridondante: tutto sembra essere stato detto. Ma pur se completo, il
discorso si rinnova, o si ripete in forme nuove, in rapporto con i tempi e con
le situazioni.
Esistono cause della felicità che
trascendono il tempo e i luoghi, vale a dire cause endogene come una buona
costituzione fisica, la salute, la saggezza, il carattere e la predisposizione
personale alla serenità e al buon umore con l’assenza o la diminuzione dei
turbamenti dell’animo, eccetera. In ogni luogo e tempo, alcuni uomini sono
riusciti e riescono a condurre una vita che, entro i limiti della condizione
umana, può definirsi felice.
Ma occorre anche tener presente le grandi
differenze psicologiche tra gli uomini. Infatti, oggi come nel passato, la
felicità di un determinato tipo d'uomo diventa tristezza o limitazione per un
tipo diverso. Per esempio, alcuni credono, come vedremo crede Epicuro, che la
serenità di una vita tranquilla e semplice, preferibilmente trascorsa in
compagnia di buoni amici, debba essere la più grande aspirazione di chi
persegue la felicità, mentre altri, che per temperamento sono più inclini
all'azione e al movimento, giudicano questa prospettiva noiosa se non
impraticabile. E poi esistono diversi percorsi personali: alcuni potrebbero
avere bisogno di una vita tumultuosa prima di realizzare il sommo bene epicureo di una vita piacevole dentro un
giardino, mentre altri potrebbero già da giovani ottenere la serenità senza un
grande preliminare dispiego di energie.
Oltre alle cause endogene, alcune
importanti cause di una vita felice, o infelice, si trovano fuori di noi
nell’ambiente in cui viviamo, e possiamo chiederci se sia veramente possibile
essere felice oggi in un luogo affollato, inquinato e generalmente stressato
seppur altamente tecnologico.
Le qualità fondamentali dell’animo umano si
ritrovano in ogni luogo e tempo, e allora, pur nel presente periodo storico, in
una società che professa una grande fede nelle verità scientifiche e che diventa
sempre più tecnologica e tecno-dipendente, la ricerca della felicità non deve
ignorare i consigli offerti dalla saggezza antica. E nello stesso tempo, la
conoscenza e la considerazione dell’ambiente moderno in cui viviamo, non
significa, come vedremo in seguito, che le sue condizioni debbano essere
accettate e credute immutabili.
D’altra parte, prima di ulteriormente
procedere nella nostra ricerca, occorre porsi una domanda forse molto
importante: la felicità è un'illusione? Se esistono innumerevoli ottimisti
divulgatori di formule della felicità, v'è anche chi la nega e afferma, invece,
che sia un'impresa inutile perseguirla. La ricerca della felicità, in qualsiasi
tempo e luogo potrebbe quindi risultare vana, o essere comunque oggetto di un
realistico dubbio. Oppure, la felicità sfuggirebbe proprio chi la cerca, mentre
si donerebbe, forse come effetto collaterale, a chi persegue fini diversi.
Quest'atteggiamento negativo verso la
felicità e il suo possibile raggiungimento appare fondato soprattutto per chi
conduce una vita triste, è malato, indigente, sfruttato e abusato. Per questa
persona la felicità non esiste, e quindi non esiste per miliardi di esseri
umani che vivono insieme a noi su questo pianeta. Secondo i pessimisti più
accaniti, comunque, la ricerca della felicità è un'impresa del tutto inutile
anche se svolta dagli uomini sani colti e benestanti che vivono in paesi ricchi
come l'America e l'Europa. Schopenhauer, per esempio scrive che "vivere
felici può significare solo vivere il meno infelici possibile"(1997:63).
Infatti, egli afferma: "l'esperienza ci insegna che la felicità e i
piaceri sono soltanto chimere che l'illusione ci mostra in lontananza, mentre
la sofferenza e il dolore sono reali e si annunciano direttamente da sé, senza
bisogno dell'illusione e dell'attesa. Se il suo insegnamento viene messo a
frutto, smettiamo di cercare la felicità e i piaceri e ci preoccupiamo solo di
sfuggire per quanto possibile alla sofferenza e al dolore" (1997:29). E quindi,
secondo Schopenhauer, chi spera di essere felice, chi non ha ancora
l'esperienza del dolore o chi se ne dimentica, si comporta come un giovane che
"crede che il mondo sia fatto per essere goduto e sia un domicilio della
felicità, la quale sfugge solo a coloro che non hanno l'abilità di cercarla"
(1997:63). Poi, crescendo, il giovane si accorge di aver sbagliato.
Si potrebbe forse dare ragione a
Schopenhauer, soprattutto quando si
leggono i molti libri scritti da autori americani che presentano una
prospettiva materialista e quindi ingenua e incompleta sulla felicità. Ma il
grande filosofo è forse veramente troppo pessimista e il suo pessimismo non gli
permetterebbe di considerare e credere, come fa Epicuro, per esempio, che la
fuga dalla sofferenza e dal dolore, qualora riuscita, vale a dire l’assenza del
dolore fisico e dei turbamenti dell’anima, potrebbe farci riscoprire il nostro
stato naturalmente felice. Se, quindi, il pessimista Schopenhauer non crede
nella felicità perché le attribuisce un contenuto positivo di gioie e piaceri
concreti, secondo lui rari o inottenibili, l’ottimista Epicuro, invece, come vedremo
in seguito, ne ha una concezione “negativa”: per ottenere la felicità non occorre
aggiungere cose e piaceri alla vita quanto, invece, occorre togliere ciò che è
superfluo e doloroso. E allora l’esistenza si rivelerebbe nella sua felice
naturale serenità. E questo approccio che potrebbe apparire utopico, è invece
realistico e perseguibile, soprattutto dai nuovi poveri, come spero potremo
vedere tra poco.
Una società non
felice
Gli individui che sono alla ricerca della
felicità spesso la identificano con il piacere o con qualche effimera
gratificazione dell’io. Vivono sperando di essere felici e non hanno un'idea
originale e realistica delle condizioni reali in cui potrebbero vivere bene.
Trascorrono il tempo in un modo o nell'altro, vale a dire in modo talvolta o
spesso insensato, guardando la televisione, chiacchierando, camminando pieni di
desiderio nei centri commerciali. Nella loro ricerca di felicità, si affidano a
mezzi rozzi e inadeguati, ma che sono riconosciuti validi dalla maggioranza,
mezzi che non richiedono impegno e riflessione.
Gli uomini che sono costretti a fare un
lavoro noioso o privo di significato, cercano una facile evasione e uno svago
appena possono. Altri, pur se sono coscienti che gli ambienti in cui vivono e lavorano
sono territori ove non può attecchire l'albero del ben vivere, pur se hanno
profondamente bisogno di creare, di trovarsi in un ambiente diverso e più
salubre, non hanno o credono di non avere alcuna possibilità di mutare la
propria condizione. Reputano normale la loro vita, che tutti gli altri vivono
allo stesso modo, accettando la routine, la mancanza di significato. Viviamo in
una società priva di armonia, che non è sana né felice, e se alcuni sono
consolati dalla gioia dell’amicizia e degli affetti, se individui disturbati ma
solventi ricorrono alle prestazioni di un terapeuta, molti altri soffrono in
solitudine. Erich Fromm formula l'ipotesi di una patologia della normalità: la
società soffre perché i singoli individui che ne fanno parte sono insoddisfatti
e infelici, vivono nell'ansia e nel conflitto, pur credendosi sani e normali.
Possono essere ben adattati nel mondo ma non conoscono o non prestano attenzione
alla propria realtà interiore. Hanno perduto la capacità di vivere una vita
serena e felice, ma si reputano sani e normali solo perché continuano a
funzionare bene in una società complessivamente insana. "Il concetto di
malattia ha innanzitutto una connotazione sociale. Per la società è malato chi
non funziona più. Sul piano sentimentale o artistico uno può essere il più
grande idiota, non capire nulla ed essere incapace di intendere la realtà sotto
un aspetto diverso dal guadagnare denaro, ma passa sempre per una persona molto
in gamba" (Fromm, 1996:69).
Dopo tante scoperte scientifiche, possiamo
condurre una vita più comoda, ma non necessariamente più felice. Dopo tanti
libri di psicologia, possiamo essere più informati, ma non necessariamente meno
nevrotici. Dopo tanti manuali sulla felicità non siamo riusciti a eliminare le
cause più semplici e più evidenti della nostra sofferenza. I popoli che vivono
nei paesi "in via di sviluppo" ricercano la felicità
nell'acquisizione dei beni già diffusi nelle società a "sviluppo avanzato".
Ma noi occidentali soffriamo di malattie prima sconosciute, siamo sedentari, ci
snerviamo nel traffico, siamo spesso grassi, nevrotici, insoddisfatti,
dipendenti da una pillola per dormire e funzionare. E allora, la felicità è
assente, tanto più se è confusa con il benessere economico e con le proposte
della pubblicità e dei mass media.
Intanto, all’interno di questo scenario,
alcune persone "ingenue" affermano che potremmo vivere insieme in
pace, collaborando, che potrebbe esistere una ricerca condivisa del bene
comune, e un rapporto armonioso con la natura. Invece, i "realisti"
credono che la felicità e l'armonia sono un'utopia, un sogno, e che in realtà
ci sono le lotte, le prevaricazioni, le guerre; dicono che la natura umana è
negativa e che bisogna difendersi; e dicono anche che spesso la miglior difesa
è l'attacco, è l'essere più potenti, arrivare primi ove c'è da guadagnare.
Allora, se condividiamo questo secondo approccio, cerchiamo di sentirci sicuri,
star bene, essere felici e realizzarci in modo autonomo e con ogni mezzo
competitivo che riteniamo opportuno, e nel far ciò ci troviamo in conflitto con
tutti gli altri che fanno lo stesso. Infatti, il nostro desiderio di essere
felici a modo nostro e per conto nostro incontra e deve fare i conti con la
realtà esterna, con le difficoltà e le resistenze che affiorano nell’ambiente
ove agiamo. I nostri desideri incontrano degli ostacoli all'esterno e la loro
realizzazione diventa problematica o conflittuale. Vogliamo essere felici, ma
partendo proprio dal desiderio di felicità, arriviamo a essere
competitivi, stressati, nevrotici,
sfruttatori e sfruttati, vanesi e applaudenti della vanità, amanti dei soldi,
pazzi e criminali, incarcerati e carcerieri, giustiziati e giustizieri.
Perseguendo in modo erroneo la nostra felicità, ci troviamo a vivere in un
ambiente disumano, reso brutto e ostile dalle nostre stesse azioni.
Riflettendo su questo stato di cose
cominciamo a comprendere il grande paradosso dell'esistenza umana: siamo noi
stessi, in quanto agenti umani immersi in una ricerca istintiva e cieca della
felicità, gli autori del nostro malessere.
La felicità e gli
uomini politici
Ci sono enormi risorse di felicità umana che non vengono sfruttate. La
maggior parte delle politiche realizzate nel mondo dai governi va esattamente
nella direzione opposta. Queste politiche raramente vanno al di là della prossima
scadenza elettorale, raramente guardano a ciò che succederà fra 20 o 30 anni.
Zygmunt Bauman
La felicità del popolo non è l’interesse
primo degli uomini politici. Sembra che molti politici perseguano prima di
tutto i loro interessi e il potere, anche se si dichiarano democratici e dicono
di promuovere il bene comune. Scrive per esempio il sociologo Sabino Acquaviva:
"sappiamo che, per ragioni oggettive, di organizzazione, e soggettive, di
interesse degli uomini che governano, questa 'democrazia' non risponde ai
bisogni psicologici di felicità dell'uomo, ma è espressione, potenziale o reale,
anzitutto degli interessi delle èlite dominanti, ma anche dei singoli ceti o
classi. La felicità dei cittadini non è fra i fini della politica"
(Acquaviva, 1994:96). D'altra parte, se un nuovo partito politico ponesse nel
suo programma l'obiettivo della felicità, sarebbe forse considerato utopico. Si
occuperebbe di una tematica importante che di solito viene relegata nel campo
della psicologia, della filosofia o della religione. Invece, una nuova classe
dirigente formata da persone intelligenti, sensibili e colte, dovrebbe porre
come obiettivo dei suoi programmi politici il conseguimento della felicità
piuttosto che dello sviluppo del prodotto interno lordo e del profitto delle
grandi banche. Gli uomini politici che credono nella priorità della finanza, della
produzione e del consumo hanno certamente una visione molto limitata del
benessere sociale e della felicità.
La felicità tecnologica
Il desiderio di ricchezza causa un complesso
di azioni che possono anche essere altamente tecnologiche., Le varie imprese
economiche e industriali, per esempio, e i poteri finanziari, sono oggi essenzialmente
legati alla tecnologia.
D’altra parte, la tecnologia è di per sé
stessa intimamente unita alla sopravvivenza dell'uomo. L'uomo è stato
"tecnologico" sin dagli albori delle civiltà. Negli ultimi due
secoli, e soprattutto negli ultimi decenni, la tecnologia ha compiuto uno sviluppo
enorme, ma spesso va avanti in modo non più intimamente legato a effettive
necessità.
Denaro e potere tecnologico, hanno assunto
recentemente un'importanza eccessiva, e talvolta, o spesso, il legame tra
profitto e sviluppo avanzato della tecnologia può risultare deleterio. È vero
che la storia umana è sempre stata caratterizzata da guerre, saccheggi, sfruttamento,
e da lotte per il potere e per la ricchezza, ma adesso, anche grazie al grande
potere dell'intelligenza tecno-scientifica, v’è un ulteriore più profondo e
sottile sfruttamento che gli uomini perpetrano su altri uomini. In altre parole,
possediamo la tecnologia ma siamo rimasti gli stessi uomini aggressivi, avidi,
emotivamente primitivi, quali eravamo nei secoli scorsi; e il potere
tecnologico aumenta il potere distruttivo umano. Se nel secolo scorso una foresta
era tagliata nel giro di decenni, a colpi di ascia, adesso è distrutta in pochi
giorni.
Secondo Martin Rees, astrofisico di
Cambridge, "le possibilità che la nostra attuale civiltà terreste
sopravviva fino alla fine del presente secolo non superano il cinquanta per
cento" (2004:11). Una grande catastrofe ambientale e umana è in atto adesso
in tutto il mondo e noi non ne siamo consapevoli, o volgiamo altrove la nostra
attenzione. Ma la tecnologia non è in sé stessa la causa del nostro malessere,
ovviamente, perché in fin dei conti siamo noi che scegliamo di usarla secondo i
nostri fini, spesso creando nuove condizioni di alienazione e di violenza.
Eppure, se ci pensiamo bene, l'uomo ha
inventato la tecnica con l'intento di essere più felice, di vivere meglio, con
meno fatica e pericolo. E in verità, molte scoperte scientifiche e applicazioni
tecnologiche hanno migliorato la nostra vita.
Umberto Galimberti afferma che la tecnica è
l'essenza dell'uomo ed è “nata non come espressione dello 'spirito' umano ma
come 'rimedio' alla sua insufficienza biologica" (2002:34). Per Galimberti
noi viviamo in un mondo tecnico "irrimediabilmente e senza scelta"
anzi, "questo è il nostro destino di occidentali avanzati, e coloro che,
pur abitandolo pensano ancora di rintracciare un'essenza dell'uomo al di là del
condizionamento tecnico, come capita di sentire, sono semplicemente degli
inconsapevoli che vivono la mitologia dell'uomo libero per tutte le scelte, che
non esiste se non nei deliri di onnipotenza di quanti continuano a vedere
l'uomo al di là delle condizioni reali e concrete della sua esistenza" (Galimberti,
2002:34).
E la nostra esistenza è oggi quella di
uomini "irrimediabilmente" immersi in un mondo tecnico, tra
televisioni, computer, telefonini, lavastoviglie, aerodinamiche protesi
locomotorie, treni ad alta velocità, aerei supersonici, macchinette per
misurare la pressione, frullatori telecomandati, coltelli elettrici, e
innumerevoli altri oggetti che pochi decenni fa non conoscevamo ma che sono
divenuti la nostra “essenza”.
Se la tecnica, quindi, come afferma
Galimberti, è nata effettivamente come rimedio all'insufficienza biologica
umana, possiamo tuttavia chiederci se il rimedio non sia eccessivo.
Pur consapevoli della difficoltà, ma non
della impossibilità, di una scelta di vita semplice, provvista di una tecnica
dolce che serva all'uomo più di quanto possa controllarlo e condizionarlo,
possiamo fermarci a osservare se la nostra realtà tecnica ci abbia reso più
felici, se dobbiamo lavorare tanto e faticosamente per essere e sentirci integrati
in un mondo che non può che essere altamente e “irrimediabilmente” tecnologico.
Succede, d’altra parte, che l’uomo comune è
indotto dalla pubblicità e dal conformismo a “godere” delle sempre continue
innovazioni tecnologiche e quindi in pratica le subisce pur credendo di sceglierle
liberamente.
Negli ultimi decenni sono intervenuti nella
nostra esistenza fenomeni legati alla tecnologia non solo nuovi ma anche del
tutto imprevisti e indesiderabili. Questi fenomeni riguardano, oltre
l’industria bellica, anche i grandi mutamenti e deterioramenti che l'intervento
umano ha apportato e continua ad apportare nell’ambiente naturale. Il livello
dell'anidrite carbonica, causa dell'effetto serra, per esempio, è aumentato del
50% dalla rivoluzione industriale inglese ad oggi. Gli scienziati hanno diversi
modelli e ipotesi che riguardano l'effetto serra e i futuri mutamenti di clima.
Essi non sanno ancora se e quando i meccanismi che equilibrano e rendono più o
meno costante la temperatura della terra salteranno del tutto. Una possibilità
è che nei prossimi anni la temperatura atmosferica aumenti solo di pochi gradi. Ciò causerebbe un incremento delle alluvioni,
delle tempeste, della siccità e dei fenomeni atmosferici estremi che sono già
in atto nel mondo. Aumenti ancora maggiori della temperatura media
dell'atmosfera terreste causerebbero il completo scioglimento dei ghiacciai
polari già in corso e il conseguente innalzamento del livello dei mari. Molte
città e territori costieri verrebbero sommersi. I costi economici, ambientali e
umani sarebbero ingenti. I mutamenti climatici potrebbero essere troppo
drastici e rapidi, e le persone, gli animali e le piante potrebbero non
facilmente adattarsi, e l'intero ecosistema, nella peggiore delle ipotesi,
potrebbe collassare.
Ma se ciò resta ancora oggetto di indagine,
gli effetti deleteri dell'inquinamento delle terre, delle acque, e dell'aria
sono evidenti. Anche gli effetti delle radiazioni causate dalle centrali
atomiche e dai loro guasti sono un fatto evidente. Anche la grande deforestazione
planetaria e l'estinzione di moltissime specie animali e vegetali sono un fatto
nuovo e innegabile.
Tanto più l'umanità si espande attraverso
il lavoro e la tecnica, tanto meno posto rimane per le piante, i boschi e gli
animali.
E
nello stesso tempo, gli uomini perdono contatto con la natura che li sostiene.
L'esodo dalle campagne alle città, fenomeno già avvenuto in Europa, è adesso in
corso soprattutto in Oriente. Gli uomini vivono assiepati nelle grandi città, e
le campagne abbandonate sono sfruttate dalle aziende agricole multinazionali
con grande uso di fertilizzanti e di veleni chimici.
È probabile che la lotta chimica contro i
parassiti delle piante diminuirà solo per cedere il posto all'ingegneria
genetica, anch'essa controllata dalle multinazionali della chimica. Alcune
piante transgeniche non possono subire l'attacco di determinati parassiti, e
quindi non richiedono l'uso dei pesticidi, ma ancora non si sa se questo
rimedio non sia peggiore del male che elimina.
Se da una parte la tecnologia rende la
nostra vita più comoda, d'altra parte il suo uso errato crea problemi maggiori
di quelli che intenderebbe risolvere.
La perduta felicità
dei "selvaggi"
Lo sviluppo estremo e
"irrimediabile" della tecnica, insieme al condizionamento cui essa ci
sottomette, nasce in Occidente e da qui si estende al resto del mondo. Ma non è
vero che le società occidentali siano per questo più felici di antiche e
"arretrate" società orientali e africane. Rispetto a esse l'Occidente
possiede la superiorità nel campo dell'organizzazione industriale e
dell'efficienza organizzativa, nella capacità di articolazione logica del
discorso scientifico e quindi nel campo della tecnica. Ma si tratta nel
complesso di una superiorità priva di saggezza, priva quindi della conoscenza
di sé e dell'armonia dei rapporti. In altri termini, un ingegnere occidentale
che ha sbarrato con una diga un fiume africano, è efficiente, razionale,
articolato, potente, ma non è intimamente più sereno, equilibrato, o più felice
di come era felice la popolazione indigena la cui vita è stata sconvolta dalla
necessità di lasciare le proprie case e le secolari tradizioni dei propri
villaggi adesso sommersi dall’acqua. Un industriale straniero che nello stesso
luogo impianta una fabbrica di artificiali bevande gasate e zuccherate, non ha
una personalità più integrata ed equilibrata dei suoi nuovi clienti indigeni.
Non voglio promuovere il mito del buon
selvaggio che vive bene e felicemente prima dell'incontro con l'uomo
occidentale. Ma senza dubbio, e l'evidenza storica lo dimostra, popolazioni
antiche, integrate e stabili, hanno molto sofferto e continuano a soffrire a
causa del loro incontro con la rapacità prima coloniale e adesso finanziaria ed
economica dell'Occidente. È quindi vero che l'Occidente conquista e impone
fratture all'interno di antiche tradizioni.
L'opera occidentale di colonizzazione e di
conquista del terzo mondo ha remote radici storiche. Scrive a proposito Sabino
Acquaviva: "abbiamo cominciato con le piccole esplorazioni e l'idea della
colonia già con i Greci in Sicilia, nella Magna Grecia e altrove. Gli ideali
greci di trasmissione culturale, creatività, colonizzazione, sono stati ripresi
dai Romani e, in seguito, dai popoli europei con le grandi conquiste coloniali.
A un certo punto la cultura, la scienza, la tecnica di questo continente si
sono talmente sviluppate che l'Europa ha conquistato quasi tutto il pianeta e
non soltanto dal punto di vista militare, ma anche culturale e scientifico"
(Acquaviva, 1994:41).
Al suo inizio quest'atteggiamento di
conquista militare e tecnica della natura e degli uomini di terre lontane da
parte dell'Europa si è manifestato in parallelo con la propaganda religiosa
cristiana fondamentalista che mentre mirava a convertire i pagani, nello stesso
tempo mostrava loro il
"giusto" modo di vivere, cioè i modelli e i valori occidentali. Le
chiese cristiane istituzionali hanno oggi perso la loro forza e parte delle
loro antiche connessioni con il potere statale, ma allo stesso modo in cui un
certo Cristianesimo veniva vissuto un tempo come l'unica religione ad
esclusione delle altre, oggi il vivere tecnologico e la corrispettiva visione
del mondo vengono sentiti e considerati come l'unica realtà possibile. La
capacità imprenditoriale e di conquista economica dell'Occidente, e delle
multinazionali, non conosce ostacoli, né materiali, né umani; li distrugge man
mano che inesorabilmente procede con la sua logica e col suo sistema di profitto.
E tale opera di conquista economica si avvale di una convalidata e diffusa
forma mentis predatoria e consumistica priva di pensiero autocritico, e si
avvale, anche, di concezioni e termini che sono divenuti meramente ideologici,
come crescita, sviluppo, progresso, che poco e nulla hanno a che
fare con il reale benessere degli uomini e dei territori conquistati.
Prima di venire a contatto con l'uomo
occidentale, la vita di un popolo “sottosviluppato” è armoniosamente
organizzata, ogni cosa ha il suo posto e tutto funziona all'interno di una
cosmologia antica e ricca di rituali, di tradizioni che permettono l'integrazione
degli elementi i più disparati. Non voglio dire che nelle antiche società
africane, asiatiche, sudamericane, non esisteva la sofferenza, lo sfruttamento
di una classe da parte di un'altra, ma erano certamente società ricche di
senso, di significato, e spesso anche di solidarietà e di armonia.
Le civiltà del sud America prima della
conquista spagnola erano certamente culturalmente ricche e stabili, anche se divise
in caste. Ma tale divisione non era diffusa in tutte le civiltà antiche. Presso
alcuni popoli che vivevano a stretto contatto con la natura, per esempio tra
gli indiani d'America prima della conquista inglese, non esisteva una grande
divisione in classi sociali né alcuna differenziazione sociale dovuta al
possesso dei beni. Se poi ci riferiamo all'esistenza delle antichissime tribù primitive dell’Africa, notiamo che il
loro schema di vita era generalmente caratterizzato dalla mancanza di una classe
agiata. Secondo il sociologo T. Veblen, "l'istituzione di una classe
agiata è emersa gradualmente durante il trapasso dal primitivo stato selvaggio
alla barbarie; o più precisamente, durante il trapasso da un'abitudine di vita
pacifica a un'altra costantemente bellicosa" (1949:23). Se comunque queste
sono tesi che solo uno studio storico antropologico approfondito può dimostrare
o invalidare, tuttavia è chiaro che l'influenza dell'uomo occidentale, con le
sue idee ed i suoi atteggiamenti, è stata ed è negativa nei confronti dei
popoli conquistati. Basta che nel loro territorio arrivi un tecnico, un
missionario, un turista senza alcuna sensibilità (come spesso sono coloro che
credono di appartenere ad una civiltà superiore)
e manifesti il suo stile di vita, ed ecco che la vita sociale, fisica e
spirituale di un sano ambiente antico incomincia a sgretolarsi. E allora, a
contatto con gli occidentali gli indigeni diventano anch'essi avidi, motivati
dall'interesse, dal guadagno, dalla corsa al possesso di beni che non
conoscevano e di cui prima facevano bene a meno. Oppure, se non diventano come
i conquistatori, restano semplici e indifese vittime.
Una grande vulnerabilità culturale appare
essere la caratteristica comune di tutti i popoli conquistati dall'economia
occidentale. Ha ben notato questo già nello scorso secolo Gustav Jung
viaggiando sia in Africa sia tra gli indiani d'America. Egli riferisce che
"se una tribù viene scompaginata, i suoi membri perdono le loro idee
religiose, il tesoro della loro antica tradizione, e si sentono totalmente abbattuti.
Perdono la loro ragion d'essere, si
disperano. Come quello stregone che, con le lacrime agli occhi, disse: 'Non
facciamo più sogni'. 'Da quando?'. 'Da quando sono arrivati gli Inglesi'. Sono
completamente dépossedés, la loro
vita si svuota di senso; e non ha più un senso perché noi li contagiamo con la
nostra follia. Perché è una follia: abbiamo perduto l'ordine religioso della
vita" (Jung, 1995:160).
Noi occidentali non crediamo di essere
folli; non ci rendiamo conto che vivere per il profitto e il consumo è una
pazzia, contro l'uomo, contro l'ambiente, contro la stessa vita. Ma chi
appartiene a una cultura sana ci giudica con distacco e realismo. Lo stesso
Jung riporta il giusto giudizio sui bianchi espresso da un indiano pueblo da
lui intervistato: "Guarda la faccia dell'uomo bianco: tratti taglienti, un
naso insoddisfatto; gli americani sono costantemente alla ricerca di qualcosa.
Noi non sappiamo che cosa; pensiamo che sono tutti pazzi". Jung commenta
questa valutazione dicendo: "quella fu la prima volta che sentii dare un
giudizio realmente oggettivo sull'uomo bianco e improvvisamente lo vidi anch'io
con i loro occhi" (Jung 1995;160). L'indiano pueblo non sapeva cosa gli americani
cercassero, non poteva immaginarlo perché era ancora tanto lontano dalla loro
mentalità: gli americani cercavano il profitto, cercavano la ricchezza materiale,
e non si curavano d'altro. E adesso, l'osservazione dell'indiano riguarda tutto
l'Occidente americanizzato.
L'approccio di Jung è condivisibile, io
credo, ma oggi la situazione si presenta in termini ancora più drammatici. Ciò
che nel secolo scorso era feroce e predatoria conquista coloniale da parte
delle nazioni europee, oggi si è trasformato nell'immenso potere dei grandi
centri mondiali della finanza e dell'industria. Dinanzi a questi poteri e alla
globalizzazione che essi promuovono, i piccoli stati sono del tutto impotenti.
Quanto poi riguarda gli stati egemoni, come gli Usa, è chiaro che essi fanno
"valere le loro risorse politiche al fine non già di controllare l'enorme
potenza dei centri finanziari e industriali che dominano il mercato
globalizzato, bensì di realizzare una forza che non ha precedenti, la compenetrazione
tra governo, interessi affaristici, complesso militare-industriale; così che la
politica estera e militare dell'America appare chiaramente orientata a mettere
le risorse dello Stato a disposizione della propria plutocrazia nazionale, che
costituisce al tempo stesso il maggior nucleo propulsore della globalizzazione,
la quale si configura come un'americanizzazione che permea l'Occidente e il
mondo intero" (M Salvadori, 2003:69).
Questo processo di occidentalizzazione o
americanizzazione del mondo intero distrugge inesorabilmente la cultura, i
valori, le tradizioni, le istituzioni e le credenze dei popoli orientali e
africani e li rende uniformi. E questo accade proprio per la legge ferrea del
profitto economico: "La produzione sempre più allargata delle merci ha
bisogno di consumatori che abbiano gusti uniformi in ogni parte della terra
dove la globalizzazione si estende" (M. Salvadori"2003: 71).
Un processo di impoverimento e di omologazione
avviene sia negli ambienti fisici naturali sia in quelli e creati dall'uomo. Le
città del mondo tendono tutte a rassomigliarsi, le specie animali scompaiono,
le foreste e gli habitat naturali sono distrutti, la natura è abusata. Ma nello
stesso Occidente la situazione non è più felice: i ricchi diventano sempre più
ricchi, gli speculatori finanziari prosperano, e aumentano i poveri, i disoccupati
e i lavoratori precari e sfruttati.
La felicità di noi
“americani”
I popoli ricchi non sono felici. Si prenda come
esempio il popolo americano. Gli americani sono, o sono stati finora, alla
guida del “progresso” e di tutte le nuove tendenze che riscuotono successo nel
mondo. Hanno realizzato grandi opere, e i più benestanti tra di loro hanno uno
stile di vita grandioso, hanno quasi la necessità interiore di vivere una vita
alla grande. Devono vivere in case grandi, guidare automobili smisurate,
costruire autostrade a dodici corsie, edifici che sfidano le nuvole, grandi
portaerei, e così via.
Non si può fare di tutta l’erba un fascio,
perché, come si sa, esistono anche negli Stati Uniti diverse realtà e tendenze
alternative. Ma parlando in generale, potremmo ben dire che gli americani
vivono alla grande e mangiano anche alla grande, continuamente, e sono nella
maggioranza grandi, cioè obesi. Ma molte delle realizzazioni degli americani
sono esterne, riguardano le cose e il corpo. Gli americani pensano in termini
di vendite, di soldi, di profitto, ma non sono soddisfatti in rapporto a diverse
cose, per esempio, come dicevo, in rapporto al cibo. Mangiano in continuazione,
forse ossessivamente. Inoltre, all’enorme quantità di cibo che ingeriscono, si
aggiunge l'altrettanto enorme quantità di cibo che gettano. Nella stragrande
maggioranza delle case, come raccontano molti testimoni veritieri, il cibo non
consumato e gettato via è un terzo, se non più, di quello acquistato. Qui
ovviamente c'è qualche problema, che non è solo una mancanza di buon senso e di
risparmio, ma è anche di natura affettiva e psicologica; un uomo felice, cosciente,
e che ha una buona consapevolezza del proprio corpo, non mangia in continuazione
e, salvo casi di disfunzione ormonale, non è obeso. Invece, l'obesità in
America è un problema nazionale. L'americano che desidera essere felice deve
quindi cominciare a essere consapevole di quello che mangia e di quanto mangia.
Nel lontano 1912 Carl Gustav Jung si recò
negli Usa su invito della Fordham University di New York. Credo sia molto
interessante l'impressione che egli ha ricevuto dal contatto con gli americani,
e, anche se molto tempo è passato, le sue osservazioni restano attuali e spesso
confermate dagli eventi successivi. Jung crede che la mente degli americani sia
molto immediata, molto logica; si occupa "per tanta parte del tempo di
quello che chiamiamo realtà, cioè del materiale grezzo della vita" utile
per produrre grandi imprese, per costruire grattacieli. Il loro scopo è
l'efficienza, e in tal modo hanno costruito un sistema grandioso” (1995:47). Ma
allo stesso tempo la mente degli americani è molto semplice, non nel senso di
essere illogica o disarticolata intellettualmente o tecnicamente, ma nel senso
di essere unilaterale, di non tener conto dei risvolti importanti delle
situazioni e dei rapporti. Ecco quindi che agli americani piace "chi ha
solo un'idea per volta" e "se un uomo ha due idee contemporaneamente
loro diffidano di lui. Se invece ne ha una sola gli danno ogni possibilità di
realizzare la sua iniziativa"(1995:51). Ma allo stesso tempo gli americani
non s’interessano di cose profonde, si distraggono facilmente, e seppelliscono
nell'inconscio tutto ciò che riesce loro sgradevole.
Jung ripete diverse volte il suo commento
sull'infelicità degli americani. "L'America è il paese delle malattie
nervose, e ogni malattia nervosa contiene un elemento psichico. La malattia è
la dolorosa testimonianza di qualche conflitto nel corpo e nell'anima"
(1995:49). L'americano è in generale competitivo, conformista, non si ferma a
riflettere sulla validità delle sue fondamentali verità che egli acriticamente
ritiene vere e ingenuamente quanto efficacemente esporta in tutto il mondo.
Secondo Jung, quello di cui l'America ha
bisogno, ed io direi, quello di cui adesso tutto il mondo americanizzato ha
bisogno, "a fronte della potentissima spinta verso il conformismo, verso
il desiderio di beni materiali, di cose che complicano la vita, verso il
desiderio di essere uguali al proprio vicino di casa, di superare tutti i primati,
e cosi via, è la capacità, grandiosa nella sua semplicità e salutare, di dire
No. La capacità di fermarsi un attimo e di capire che molte delle cose desiderate
sono superflue per vivere felici, e che sforzarsi di vivere esattamente come il
nostro vicino 'arrivato' significa andare contro i dettami sostanzialmente
diversi della nostra intima personalità. Giacché siamo verosimilmente molto
diversi nell'intimo dal nostro vicino, e se decidiamo di uniformarci, di
cambiarci, creiamo in noi un conflitto che sfocerà sempre, presto o tardi, in
qualche forma di nevrosi, di malattia, di follia. Tutti noi incominciamo ad
avvertire che qualcosa non funziona nel mondo (…) tutti abbiamo voglia di
semplicità. Tutti soffriamo, nelle nostre città, per la mancanza di
semplicità" (Jung, 1995:83).
La felicità di chi
paga le tasse
A parte quanto detto, un serio motivo per
cui gli americani e gli occidentali in generale non possono essere felici è che
pagano troppe tasse. Questo non sarebbe un male se i governi spendessero bene i
loro introiti. Invece, gran parte delle tasse vanno a finanziare la costruzione
di armi. Nel giornale "La Repubblica" dell'undici dicembre 2003,
James Wolfensohn, presidente di un istituto bancario internazionale dichiara:
"basta con le spese militari. Bisogna dare più risorse allo
sviluppo". Egli dice, inoltre, che si utilizzano nel mondo per le spese militari
"ben 800 miliardi di dollari l'anno contro i 56 per lo sviluppo. Bisogna
fare il contrario e bisogna spiegarlo alla gente". Bisogna spiegare agli americani
e a tutti i popoli "civili" distratti che la maggior parte delle loro
tasse viene impiegata per la costruzione di armi micidiali, di mine che ammazzano
o feriscono bambini innocenti. Bisogna dire ai popoli ricchi che nel mondo due
miliardi di persone vivono con meno di due dollari al giorno.
"Un'enormità" prosegue Wolfensohn, e "invece le risorse vanno
alle armi, alle guerre. Per lo sviluppo restano solo le briciole". (La
somma che si spende negli Usa per armi è enorme, 400 miliardi di dollari nel
2004, cioè la metà della spesa complessiva mondiale, senza contare le spese
supplementari ispirate dalla guerra in Irak e in Afghanistan, (Terra Nuova,
dic. 2003).
La felicità nel
lavoro
Il territorio del lavoro è anche lo spazio
attraverso cui si manifesta la necessità di socializzare, anche per una ricerca
o una conferma dell'identità. Inoltre, il lavoro può diventare un mezzo
attraverso cui raggiungere il benessere oltre il livello della sopravvivenza.
Gli operai, i salariati, gli impiegati, stimolati da un generale atteggiamento
rivolto all’acquisto e al consumo, sognano il maggior benessere economico
attraverso cui credono si possano schiudere innumerevoli nuove possibilità e nuove
scelte. Sia nelle società occidentali sia in quelle in via di sviluppo, il
benessere economico viene percepito come un passo verso l’autonomia, verso una
libertà ben oltre l'affrancamento dal bisogno. Ma viste da una prospettiva più
ampia e più profonda, le cosiddette libere scelte di vita all'interno di una
società ricca sono, di fatto, delle scelte scontate e prevedibili; finiscono
spesso col riferirsi di più alla marca particolare o alla forma di un bene di consumo
e meno alla questione se tale bene sia utile o inutile, necessario o meno. I
beni prodotti sono innumerevoli e appaiono indispensabili all'interno di un
contesto in cui i comportamenti sono uniformi. Le offerte di beni sono
innumerevoli e se i soldi cominciano a non bastare occorre guadagnare di più
per soddisfare nuovi bisogni, che però, una volta soddisfatti, sono sostituiti
da bisogni nuovissimi e prima insospettati. Il lavoro diventa quindi il territorio
di questa corsa strana, che però è percepita come necessaria e inevitabile. Il
lavoro che dovrebbe essere un mezzo per nutrirsi e per vestirsi, per vivere,
per collaborare, per ricercare e per riconoscere e sviluppare le proprie potenzialità,
diventa quindi, se svolto principalmente per il guadagno, una corsa stressante,
un circolo vizioso di insoddisfazione e frustrazione.
Ma gli effetti collaterali di un lavoro
svolto solo per i soldi, e quindi anche di un lavoro ripetitivo, noioso, non
vocazionale, sono la perdita dell'autostima, la depressione, l’evasione, la
teledipendenza, la continua ricerca di visibilità e di ammirazione, l’ansietà,
lo stress, l’energia bloccata.
Quando ero studente, passai alcune settimane
lavorando nella catena di produzione di una fabbrica di birra della Svizzera.
Il mio lavoro consisteva nel deporre delle casse di bottiglie su di un rullo
trasportatore. Quando le casse si dislocavano o erano messe di sbieco, il rullo
si inceppava, e si fermava anche tutta la catena. Arrivava quindi il caposala
per ispezionare e mettere le cose a posto. Il lavoro divenne subito
terribilmente noioso e, per renderlo più stimolante, ogni tanto mettevo di sbieco
le casse sui rulli, che si fermavano, e me ne stavo quindi a guardare la faccia
perplessa del caposala. Ma presto egli comprese la causa del problema, ed io
fui messo a pulire il deposito dei cassoni di birra. Qui feci amicizia con un
giovane assistente universitario polacco, anche lui condannato a spazzare il
pavimento. Mi disse che la retribuzione mensile nella fabbrica svizzera ammontava
a quello che guadagnava in sei mesi nella sua Polonia. All'università il lavoro
gli piaceva, mentre qui il lavoro era noioso ma "ben pagato" e,
dovendo sposarsi, gli occorrevano i soldi.
Tra gli operai c’era un signore calmo e
rassegnato che da dodici anni controllava che le etichette delle bottiglie di
birra fossero incollate per il verso giusto e che ci fosse sempre colla
sufficiente nell’apposito contenitore. Mi disse che la notte, prima di
addormentarsi, continuava a vedere le colorate etichette passargli davanti agli
occhi; una specie di mantra visivo che lo aiutava a prendere sonno. Aveva una
famiglia da mantenere. Lavorava per guadagnare soldi. C'era quindi un “accordo”
tra gli obiettivi principali della fabbrica e gli obiettivi dei lavoratori: la
necessità del profitto.
La modalità di produzione, la forma dei
rapporti tra i lavoratori e i dirigenti, tra le macchine e gli uomini, diventano
elementi secondari, considerati principalmente attraverso la necessità del
profitto economico, che viene quindi distribuito in modo diseguale tra operai,
dirigenti e direttori esecutivi. E, tuttavia, può essere vivo in molti il
desiderio che il lavoro offra un senso oltre che un reddito, che sia un valore
intrinseco e non puramente strumentale, e che l’ambiente di lavoro sia anche
ricco di rapporti significativi.
Nella fabbrica suddetta gli esperti birrai
che determinavano il sapore e la qualità della birra sembravano soddisfatti.
Uno di loro mi mostrò con orgoglio come avveniva la fermentazione, gli ingredienti
usati, e mi fece gustare le diverse birre. Era soddisfatto perché poteva
creare, organizzare il proprio lavoro, prendere iniziative, comunicare con i
dirigenti e gli operai. Ma in un ambiente di lavoro più umano, anche gli
operai, e non solo i tecnici, dovrebbero avere la consapevolezza di svolgere un
lavoro necessario che può essere anche piacevole. Anche gli operai che eseguono
lavori umili potrebbero sentirsi soddisfatti nel non essere considerati solo
come un elemento produttivo, alla stessa stregua di una macchina. La soddisfazione
nel lavoro si attua quando le aziende operano non prevalentemente come
creatrici di profitto, ma come produttrici di servizi e di beni realmente
necessari, o almeno effettivamente utili, quando diventano luoghi sociali di
ricerca, di comunicazione, di partecipazione nelle scelte, di sviluppo delle
risorse interiori di tutti i lavoratori. Ma così non è adesso in molti ambienti
produttivi, e allora la situazione di disoccupazione può essere un guadagno
rispetto ad un lavoro alienante e stressante, sempre che permangano, però,
mezzi minimi di sussistenza o che esista una realtà sociale di solidarietà e di
mutuo soccorso.
CAPITOLO QUARTO
LA FELICITÀ TRA
DESIDERIO E BISOGNI
*
La
felicità come ripetizione del piacere
La continua successione di piaceri
costituisce, secondo alcuni, la felicità. Per il biologo H. Laborit v'è un
legame essenziale tra desiderio e felicità, e questa non sarebbe altro che la
ripetuta esperienza della situazione gratificante. Ciò vale a dire che la
felicità "abbraccia la successione ripetuta di desiderio, piacere e
benessere"(1990:96). Si desidera qualcosa, si prova piacere
nell’ottenerla, si riprende a desiderare e si riprova piacere nella
soddisfazione del desiderio. E si rimane felici nella continua ripetizione di
tale processo. Ma tale concezione della felicità tende a ridurre l'uomo a un
meccanismo biologico di desiderio e di appagamento, e allora l’esistenza umana
sarebbe costretta dalla necessità di soddisfare i desideri, veri o indotti, che
si manifestano continuamente.
Laborit afferma, inoltre, erroneamente, che
non si può essere felici se non si desidera niente. Credo, invece, che sia data
sempre all’uomo la possibilità di comprendere e superare il meccanismo del desiderio.
Occorre cioè comprendere il legame esistente tra i vari desideri e i bisogni
corrispondenti, e ulteriormente discernere i bisogni naturali, o reali, e da
quelli indotti. È vero, quindi, che i desideri che derivano da bisogni reali
devono essere soddisfatti, mentre i desideri legati a bisogni indotti possono
ben restare insoddisfatti o superati senza gran sofferenza. Inoltre, se uno
stato di autentica soddisfazione e di quiete segue l’appagamento di un bisogno
reale, è anche vero che i bisogni meramente mentali, o indotti, non possono
essere mai realmente e profondamente soddisfatti, e questo per il semplice
fatto che non sono reali. Per esempio, il bisogno avere un indumento che ci
protegga dal freddo è reale e può essere semplicemente soddisfatto, ma il
bisogno di possedere un abito firmato e molto costoso non deriva da una
necessità concreta, ma è un bisogno psicologico indotto, idiosincratico o culturale,
che può apparire essenziale ma non può avere una soddisfazione reale a
duratura. Anche se temporaneamente appagato, si riproduce continuamente,
soprattutto se nato in una mente che non sa riconoscere un limite alla vanità e
al lusso. Il meccanismo del desiderio causato da bisogni indotti o mentali è
senza dubbio perverso. E inoltre, l’individuo che si volge alle cose esterne
desiderate non per reale necessità, può nello stesso tempo essere ignorante dei
bisogni interiori; e proprio perché questi non sono riconosciuti e soddisfatti,
allora i piaceri derivanti da cose esterne assumono maggior importanza. Molto
semplicemente ma saggiamente riferisce B. Rajneesh che "anche se vi
venisse dato tutto ciò che chiedete, - ricchezze, potere, prestigio, qualunque
cosa - avrete la costante impressione che manchi qualcosa dentro di voi, perché
questo qualcosa che manca non ha alcun rapporto con ciò che vi è esterno. Si
riferisce alla vostra crescita interiore" (1998:192). Secondo
quest’autore, quindi, la felicità non è causata direttamente da cose esterne ma
è, potremmo dire, un effetto collaterale della crescita interiore; è una
fioritura dell'anima.
E tuttavia possiamo considerare che i desideri
fanno parte della nostra costituzione umana e nello stesso tempo sono
influenzati o indotti dal contesto culturale e si legano, inoltre, al valore e
al significato che noi diamo al nostro essere nel mondo. Siamo inseriti in un
contesto ove agiamo, pensiamo, lavoriamo, lottiamo per appagare i nostri
desideri. Inseriti in questo flusso, non sospettiamo che tale situazione può
talvolta essere perversa.
Occorre quindi comprendere come funziona il “meccanismo” del desiderio, come viene
stimolato, come sorge, e occorre quindi vagliarlo, essere guidati da
desideri alti e non da quelli insulsi e bassi; occorre quindi anche
considerare, seguendo un approccio epicureo, quali desideri nascono da bisogni
veri, essenziali, e quali sono invece indotti.
La quiete dopo la soddisfazione di un bisogno
Per ogni
desiderio bisogna porsi la seguente domanda: cosa mi accadrà se si compirà ciò
che ho desiderato? Che cosa se non si compirà?
Epicuro
Gli uomini hanno bisogni che richiedono di essere appagati e che si
manifestano alla coscienza come desiderio. Possiamo
definire il desiderio, quindi, come la manifestazione di un bisogno che può essere
reale o creduto tale. Il desiderio, inoltre, si lega a uno stato di
eccitazione, che può quindi estinguersi. Occorre cioè considerare che al desiderio
appagato segue una forma di quiete, che può essere momentanea o durare fino
all’insorgere di un nuovo agitato stato desiderante.
Diversi uomini di valore, saggi e mistici,
valorizzano soprattutto la situazione in cui l'anima è quieta, situazione
simile allo stadio finale del desiderio, cioè al suo soddisfacimento. Ma per
essi la quiete rappresenta un valore che può perdurare e non essere più,
quindi, solo un momento nel meccanismo dell'alternanza tra desiderio e
soddisfazione. La quiete, pertanto, si dovrebbe realizzare non temporaneamente
e saltuariamente, ogni volta che un desiderio è soddisfatto, ma in modo più
duraturo attraverso la drastica riduzione dell’eccitazione causata dai desideri
superflui. Vediamo insieme, quindi, se è possibile percorrere questa via,
cercando di chiarire a noi stessi il meccanismo del desiderio.
Il desiderio di
dopamina
Alla soddisfazione di un desiderio può
seguire uno stato di quiete, che dura finché il desiderio non si ripresenta. Il
desiderio insoddisfatto, invece, si lega a una certa tensione o irrequietezza,
che si può manifestare anche in un’alterazione dell’equilibrio mentale. La soddisfazione
del desiderio elimina la tensione. È importante notare, comunque, che a livello
meramente organico tale soddisfazione è associata alla dopamina, un neuro
trasmettitore che, insieme a ossitocina e beta-endorfina, svolge un ruolo
importante nella costituzione del piacere. La produzione di dopamina si lega
alla soddisfazione di uno stimolo fisiologico naturale quale quello del sesso o
del nutrimento, ma anche all’ascolto della musica e presumibilmente alla
contemplazione del bello.
L’ossitocina, d’altra parte, è una molecola
che facilita le contrazioni del parto e rafforza il legame tra mamma e neonato;
prodotta pure dai maschi, ma in minor quantità, è definita “l’ormone dell’innamoramento”,
e aumenta durante lo scambio di effusioni amorose. Questo mediatore chimico
avrebbe la virtù di renderci di buon umore e più empatici. Le endorfine,
inoltre, anch’esse sostanze chimiche prodotte dal cervello, hanno un’azione
simile alla morfina e ad altre sostanze oppiacee. È comunque molto plausibile
che dopamina, endorfine, ossitocina e altri ormoni, come anche la serotonina,
volgarmente denominati “ormoni della felicità”, possano prodursi senza grande dispendio
di mezzi materiali. Le endorfine, per esempio, si producono durante l’attività
sportiva e fisica, e andare in bicicletta attraverso meravigliose piste ciclabili
non ne causa minor produzione di quella presumibilmente causata dalla guida di
un costosissimo suv; e non occorre, inoltre, possedere un conto in banca smisurato
per amare ed essere piacevolmente inondati di piacere dopaminico. L’ottimismo,
un’attività vocazionale, una positiva visione dell’esistenza, l’amore, si
legano agli ormoni del piacere. Anche una corretta e ricca alimentazione ha un
effetto positivo sul benessere fisico del cervello. È noto, intatti che alimenti
come il grano, le patate, il formaggio, il pesce, le noci, i fichi, l’ananas,
le banane, come anche la cioccolata, aumentano la produzione di serotonina.
Certo, non possiamo ridurre il piacere a
fattori esclusivamente chimico-neurologici, e tuttavia gran parte del nostro
senso di benessere ha una causa interna, anche se trova al suo esterno una
motivazione che lo potenzia e che spesso ha un valore preminentemente culturale
o personale, ed è quindi relativo. La situazione chimica del cervello di un
“primitivo” soddisfatto per avere acquisito una collana di conchiglie, è
identica a quella di un adolescente che ha acquistato un giocattolo
tecnologico, o di un adulto che ha acquistato una fuoriserie; queste persone
sono “felici” il breve tempo in cui agisce il neuro trasmettitore. Dopo pochi
minuti, ore o giorni, il loro sistema nervoso si abitua al nuovo stato di
soddisfazione, che perde di intensità insieme al valore dell'oggetto acquisito.
Si ripresenta, a questo punto, lo stato di tensione che porta a una nuova
azione di acquisizione. Partono altri stimoli, culturali e/o personali; si
desidera una nuova collana, un nuovo giocattolo, una nuova automobile, o un
nuovo rapporto sessuale. Si ripercorre, quindi, l’itinerario attraverso i vari
stadi di: desiderio, appagamento, piacere, quiete; e poi subentrano nuovi
stimoli, nuovi desideri e una nuova azione di acquisizione, eccetera. Il
sistema odierno di mercato, di lavoro e di produzione, si basa su questo
semplice meccanismo di stimolo e di
soddisfazione temporanea del desiderio; solo che tale soddisfazione è nella maggioranza
illusoria poiché riguarda piaceri indotti e quindi non propriamente reali, cioè
piaceri che non sono espressione di bisogni naturali e necessari. E solo i desideri
necessari e naturali possono essere pienamente e realmente soddisfatti. Il desiderio
che esprime un bisogno naturalmente inesistente, invece, non è realmente
appagabile. E per questo motivo, quindi, la corsa alla soddisfazione di
desideri indotti è senza fine. La società economica e dei consumi odierna è caduta
in questa trappola.
Potremmo quindi affermare che il nostro
atteggiamento verso il desiderio può cambiare se e quando ne comprendiamo la
genesi e le motivazioni. E tale comprensione va unita alla conoscenza di noi
stessi come individui inseriti in un sistema culturale sociale dai cui valori
siamo più o meno condizionati.
I
bisogni naturali e/o fondamentali
Partendo dalla constatazione del legame
importante che esiste tra bisogno e desiderio, possiamo valutare un determinato
desiderio soprattutto se comprendiamo il valore del bisogno che lo genera.
Per i sociologo Sabino Acquaviva i bisogni
fondamentali si dividono in cinque classi: la prima classe è formata dai
bisogni fisiologici, come quello di bere, di mangiare, di abitazione, di sesso.
Alla seconda classe appartengono i bisogni legati alla sicurezza, alla mancanza
di paura, alla prevedibilità, a un certo ordine nelle situazioni umane. Alla
terza classe apparterrebbe il bisogno di intimità e di rapporti affettivi,
d'amore. Alla quarta classe appartiene il bisogno di stima o di rispetto di sé
stessi, e di riconoscimento da parte degli altri. E infine, alla quinta classe
appartiene il bisogno di autorealizzazione, di utilizzare e di esprimere al
meglio le proprie capacità e potenzialità (1994:77).
Questa casistica non esaurisce, tuttavia,
il numero dei bisogni che possono essere ritenuti fondamentali. Per esempio,
alcuni sentono profondamente il bisogno di esplorare, di viaggiare, di sentirsi
liberi, indipendenti e di non ricevere ordini. E di converso, è osservabile in
altri il bisogno di essere stanziali e di controllare il proprio territorio.
Altri hanno il bisogno di essere guidati e di ubbidire, e altri ancora di
comandare e dominare.
Ma un’attenta riflessione, unita forse allo
studio dell’opinione dei saggi, potrebbe offrire, comunque, la possibilità di
discernere un desiderio che nasce da un bisogno reale e profondamente sentito
da quello che nasce da altra fonte, come per esempio dal conformismo, dalla
vanità, o da un problema caratteriale. Importanti sono, a questo proposito, le
indicazioni di Epicuro, secondo il quale si deve cercare di comprendere se il
desiderio nasce da un bisogno naturale e necessario, oppure da un bisogno
naturale ma non necessario, o addirittura da un bisogno né naturale né
necessario. Non dovrebbe essere difficile, quindi, individuare e soddisfare i
bisogni naturali e necessari ed evitare di perdere tempo soldi ed energia
cercando di appagare tutti gli altri.
I bisogni infantili
Quando riflettiamo sui bisogni fondamentali
possiamo notare che essi danno adito a diverse possibili "complicazioni"
dovute molto probabilmente a sintomatologie personali. Per esempio, il fondamentale
bisogno di essere riconosciuto come essere esistente con le sue inerenti
qualità, può trasformarsi nel bisogno di essere al centro di una data situazione
o di essere ammirato; subentra la vanità di chi si sente vivo solo se può
essere oggetto di attenzione. Oppure, il semplice bisogno di mobilità degenera
e si manifesta nel desiderio di acquistare con duro lavoro, o con altri mezzi,
un mastodontico fuoristrada. O ancora, il semplice bisogno di avere un luogo
dove abitare, si complica nell’acquisto di diverse grandi e lussuose ville, e
così via.
L’atteggiamento
di grande valutazione degli oggetti in generale, è “normale”, nel senso
che è diffuso, e il possesso di innumerevoli beni e prodotti è quindi un valore
che viene inteso in modo conformista: ciò che è mostrato nella pubblicità, ciò
che i vicini, i conoscenti e gli amici già possiedono, viene desiderato e
considerato come qualcosa di cui si ha bisogno e che è indispensabile, e
nessuno mette in dubbio la necessità di possedere tanti oggetti senza i quali i
nostri genitori ben vivevano. È vero che in alcune situazioni, soprattutto di
lavoro, un’automobile è indispensabile, per fare un esempio, e tuttavia, in un
mondo tecnologico e complesso come il nostro, attorniati da tante cose, non riusciamo
più a distinguere i bisogni veri da quelli indotti, creduti veri solo per il
fatto di essere generati e generalmente esistenti all'interno di una determinata
cultura.
Vi sono, quindi, innumerevoli bisogni del
tutto innaturali e non necessari, che potremmo definire infantili, ai quali
corrispondono pseudo desideri e pseudo piaceri che, secondo S. Fanti, motivano
e determinano "la folle agitazione dell'individuo". Taluni bisogni
sarebbero quindi la manifestazione di compulsive pulsioni inconsce che a loro
volta generano un obbligatorio attivismo collettivo. E tanto assente sarà la
consapevolezza della morbosità di tale obbligatorio attivismo quanto difficile
sarà la ricerca di un vero benessere psicologico. Si ha bisogno di possedere molte cose e oggetti non essenzialmente
necessari che una volta acquistati devono essere riacquistati in più grande
quantità e in modelli più nuovi e mai infine completamente appaganti.
Di fronte alla
visione di tanti oggetti presenti nel mercato si tende a credere che se
avessimo una gran quantità di soldi potremmo acquistarli ed essere soddisfatti.
È vero, invece, che
"l'incapacità a realizzare i molteplici desideri a base infantile non è la
vera causa dell'insoddisfazione" (S. Fanti: 1992: 135). Infatti, anche
quando i bisogni infantili sono stati appagati, l'insoddisfazione di base resta
sempre in agguato, dato che la sua causa è più profonda, di natura più
specificamente psicologica.
Identità
e progettualità
Per ben distinguere la
qualità dei desideri, occorre considerarli e valutarli anche dalla prospettiva
che tiene conto della formazione dell'identità. In questo senso i desideri sono
da considerarsi non solo come espressione di bisogni fondamentali o indotti, ma
anche come fattori che insieme ad attitudini e modi di vita formano e confermano
una data identità. Anche l'oggetto del desiderio, una volta ottenuto, può
divenire parte dell’io, individuandolo o, in alcuni casi di grande
identificazione, come costituendolo.
Inoltre, il desiderio si
lega all'identità anche perché la rende operativa, progettuale e dinamica. Il
desiderio di successo, per esempio, può spingere un giovane all’azione, e
attraverso l’azione egli cambia, matura e conosce il mondo e se stesso. E può
anche rendersi conto, quindi, se il desiderio di successo si lega armoniosamente
alla sua vocazione più autentica oppure alla vanità. Una cosa è, infatti, per
fare un esempio, se un giovane dotato di talento musicale lotta per il suo
riconoscimento, nello stesso tempo rimanendo fedele alla sua vocazione; e altra
cosa è se vi rinuncia optando verso la cieca ricerca del successo in sé e per
sé. In entrambi i casi il desiderio è un movente, ma chi segue la propria intima
vocazione rimane se stesso anche se non ha successo, mentre chi rinuncia alla
propria vocazione per una qualsivoglia carriera di successo, rimarrà
essenzialmente e intimamente insoddisfatto.
E tuttavia, talune
fortuite e incontrollabili circostanze delle vita potrebbero rendere difficile
la conoscenza e la coltivazione dei propri doni e delle proprie inclinazioni e,
d’altra parte, succede, forse molto spesso, purtroppo, che un dato desiderio
sia culturalmente indotto e renda progettuale e dinamica delle identità uniformate,
che finiscono col darsi molto da fare, anche stressandosi, per essere al passo
con i tempi, per non essere diversi, condividendo, con piccole personali
variazioni, i valori correnti. Ed è vero, quindi, che gli uomini della nostra
società dovrebbero faticare molto qualora intendessero realizzare la loro più
profonda e autentica identità e progettualità. E solo in seguito al compimento
di tale fatica, una volta divenuti consapevoli della determinazione sociale dei
loro approcci esistenziali, e persino dei loro desideri, e quindi liberati dal
conformismo, dalle distrazioni mediatiche e dalle mode, essi potrebbero essere
in grado di ritrovare se stessi.
Il
“fondo” di noi stessi
Chi cerca se stesso e la
sua interiore consistenza potrebbe ritrovarsi in un rapporto alto, essenziale,
quale può essere quello con la propria anima o con l'infinito, ma forse, prima
ancora di questo, egli rischia di trovare e realizzare un vuoto o il senso
della sua "nullità". È interessante notare l’opinione di Heidegger a
proposito. Di fronte a sé stesso ed alla sua stessa esistenza, fuori dalla protezione
del conformismo, l'uomo proverebbe angoscia: l'angoscia causata essenzialmente
dalla certezza della morte e quindi dalla possibilità del suo
"nulla". L'uomo diventa "qualcosa" nella realizzazione dei
suoi desideri, nel fare, nelle cose e nelle immagini in cui s’identifica, nelle
sue azioni e nei suoi traguardi, pur se talvolta sono passeggeri o inconsistenti.
Fuori da tutto ciò che è effimero e mutevole, egli si ritrova in un non luogo,
un "nulla" dell'esistenza in sé. E la consapevolezza di questo nulla
procura angoscia a Heidegger, come forse molti di noi. E se questo è vero,
allora è anche vero che lo stare nell'esistenza con la progettualità del sempre
fare qualcosa e con la fretta è una fuga da noi stessi, dalla situazione in cui
ci troveremmo soli con la nostra più profonda "identità", vale a dire
con il fondo di noi stessi, che si presume esista oltre ogni attivismo fine a
se stesso, oltre ogni immagine e identificazione, oltre il possesso e
l’incessante desiderio delle cose. Questo non voler o non poter stare di fronte
a sé stessi forse ben spiega, l’indaffarato andirivieni degli uomini, la diffusa
ricerca di cose, come anche l'inseguimento della visibilità. Se non riesco a
esistere per me e in me stesso, cerco di esistere nello sguardo dell’altro,
desidero, cioè, divenire una buona immagine per gli altri.
Bisogno di
ricchezza e di immagine come rimedio dell'inadeguato sentimento di sé
Il
non poter o il non saper consistere di fronte a sé stessi richiede che il senso
interiore mancante all'esistenza si ricerchi all’esterno, nei beni posseduti,
nello status, nella visibilità e nell’ottima immagine. E l’altro diventa
importante se conferma il valore della nostra esistenza. Si ha quindi bisogno
di essere visti, di essere notati, guardati, ammirati. E siccome gli altri
molto più facilmente riescono a notare solo ciò che appare e nel modo come possono,
allora occorre apparire in un certo modo, spesso a prescindere dalla propria
intima consistenza. Si esiste nell’apparire, talvolta anche nella esibizione.
Si pensi ai poveri ricchi che hanno la necessità di esibire le loro care cose,
le quali acquistano maggior valore ai loro occhi proprio perché sono viste
dagli altri. "L'esibizionismo (…) indica in senso esteso una condotta difensiva
la cui finalità è quella di attirare lo sguardo ossia la considerazione altrui,
per cui alle fragilità e insicurezze personali si risponde mostrando di
possedere qualcosa, cercando di esistere attraverso lo sguardo dell'altro"
(R. Venturini, 1995:194).
Il
desiderio di esibirsi o di essere visto, è senza dubbio espressione di
immaturità. Una conformazione psichica insicura, carente e dipendente, tenderebbe
quindi ad usare e concepire il mondo esterno, i rapporti, le situazioni e le cose, come mezzo della propria convalida.
In questo caso il potere, il benessere materiale, il successo, la visibilità,
non sono più un effetto collaterale dell’attività dell'uomo che realizza una
sua sana progettualità, ma diventano una necessità, un fattore di dipendenza,
una realtà senza la quale l'identità si sente sminuita, o ritrova un suo
proprio inadeguato sentimento. Il sentimento di sé vuoto, incompleto o
angosciante, probabilmente già formatosi in alcuni rapporti frustranti
dell'infanzia, permane nell'età adulta, e l'individuo continua a custodire al
suo interno un bambino con cui intrattiene un rapporto infelice. Da qui nasce
l’estrema fuga degli uomini nel mondo del fare, delle cose e dei
riconoscimenti, il continuo essere indaffarati in mille distrazioni o nella
ricerca del profitto, in speculazioni finanziarie, attraverso cui cercano di
trarre con forza e astuzia il sentimento buono di sé che non hanno o non riescono
ad ottenere in altro modo.
Bisogno del
riconoscimento reale, oltre il successo e la ricchezza
Anche in una società ingiusta come la
nostra attuale, l'uomo di valore può essere riconosciuto, amato e apprezzato
per ciò che è. D’altra parte, l'uomo di successo non sempre viene amato in sé
ed esclusivamente per le sue qualità, se ne possiede. Egli viene "guardato"
anche o solo come immagine valida che è valida proprio perché è universalmente
"guardata". Si pensi, inoltre, a certi banali personaggi televisivi
che sono famosi solo perché sono sempre alla ribalta. Lo sguardo degli altri
ottenuto attraverso il successo esprime talvolta, quindi, una mancanza di
rapporto diretto e vero più che un valore. In questi casi il successo sta alla
mancanza di un profondo rapporto umano così come l'idolo sta alla mancanza del
vero sentimento del sacro.
Il bisogno di essere guardato, quando
esiste, può essere appagato in modo veramente gratificante solo quando lo
sguardo è d'amore e di vero contatto, quando esprime una comunicazione
pregnante.
Alcuni autori affermano che il buon
sentimento di sé è una costante emotiva che nasce nell’infanzia e cresce nello
sguardo materno. Infatti, "un sentimento di sé buono, positivo e stabile,
è frutto soprattutto della fedeltà dello sguardo materno, vale a dire che la
madre deve guardare sempre lo stesso bambino e sempre allo stesso modo"
(Quaglia,1995:180). Anche poi, nel corso della vita, un essere umano può essere
riconfermato nel suo positivo sentimento di sé dallo sguardo di chi lo ama. Il
sentimento di sé costituisce, comunque, la base della propria identità e
immagine, e si rivela e si riafferma come centro emotivo "stabile"
prevalentemente all'interno di rapporti percepiti come stabili e quindi sicuri.
L'essere si riconosce come identità valida nel sentimento di sé che nasce e
cresce nel rapporto valido, profondo, quale può essere quello d'amore e di
dialogo. Invece, il rapporto in cui una delle parti si pone e viene recepita
come essere solamente o prevalentemente perché ha soldi e successo, è un
rapporto che taglia corto attraverso la possibilità di un reale riconoscimento
e di un'autenticità relazionale. In questo caso "rispetto" e "amore"
potrebbero cessare se i soldi e il successo vengono a mancare.
La realizzazione di rapporti autentici
d'affetto, di simpatia e di amore, mi rendo conto, può sembrare ideale, e
tuttavia non è rara. Succede, infatti, che delle persone si intendano a fondo e
si rispettino reciprocamente per le loro qualità interiori, innate o coltivate;
si dilettino insieme nell'apprezzamento della bellezza del paesaggio, della
musica e dell'arte, si scambino idee personali e sentimenti autentici
attraverso un buon carattere relazionale, ricercando e attuando una vita
buona.
CAPITOLO QUINTO
FELICITÀ RELAZIONALE
ED ESISTENZIALE
*
Felicità come
fecondità e relazione
Se cerchiamo in un dizionario etimologico
troviamo che il termine “felice” ci riporta al verbo FEO, produco, che ha il senso proprio di fecondo. E, infatti, i termini fecondità
e felicità, derivano dalla stessa
radice sanscrita. Dallo stesso verbo deriva il termine “femmina”, che riporta,
appunto, alla fecondità. Secondo questa originaria accezione del termine,
felice sarebbe quindi chi produce e genera vita e opere. Ma la fecondità, la
produzione, la creazione, implicano sempre la presenza della relazione;
relazione con un altro essere umano oppure con un oggetto, che pur sempre al
rapporto umano ci riconduce. Componente essenziale della felicità sarebbe
quindi la presenza e l’ottima qualità della relazione, cioè creativa e
produttiva di risultati e di significati.
L’uomo è un essere sociale che nasce nella
società e cresce emotivamente e mentalmente nel rapporto con i propri simili e,
d’altra parte, le relazioni umane felici, feconde, armoniose, significative, lo
gratificano profondamente. Se tali relazioni mancano, allora i soldi diventano
più importanti: sono come le stampelle usate da persone che non si reggono bene
in piedi, soprattutto in un ambiente privo di solidarietà umana e tra uomini
che pensano prevalentemente o solo a se stessi. In mancanza di relazioni
armoniose, in mezzo a lotte, incomprensioni, egoismi, i più capaci e furbi
riescono ad affermare se stessi le proprie idee ed i propri programmi per mezzo
del potere e dei soldi. E la ricchezza materiale sembra costituire, per certi
versi, una via d'uscita dalle dispute. Chi è ricco paga l'attuazione della sua
volontà e potrebbe apparire, quindi, più realizzato e soddisfatto. Si
stabilisce un'equazione tra danaro e soddisfazione, ma questa è un'equazione
che nasce da una difficoltà relazionale non risolta e rivela l'incapacità di trovare
una soluzione di reale armonia.
Il fattore della relazionalità, con sé
stessi, con gli altri, con l’esistenza, assume quindi una grande importanza.
Anche per C. G. Jung, le relazioni personali soddisfacenti sono una delle più
importanti cause della felicità. In un'intervista pubblicata sul Sunday Times
il 17 luglio 1960 Jung sintetizza i fattori fondamentali per la felicità
dell'uomo: "Primo: una buona salute fisica e mentale. Secondo: relazioni
personali e intime soddisfacenti nel matrimonio, nella famiglia, nelle
amicizie. Terzo: la capacità di percepire la bellezza nell'arte e nella natura.
Quarto: un livello di vita sufficiente e un lavoro soddisfacente"
(1995:552).
È interessante notare che Jung non
considera la ricchezza materiale come una preminente fonte di felicità.
Occorre, invece, che il livello economico sia sufficiente. Ma "livello di
vita e lavoro soddisfacenti dipendono naturalmente in gran parte dalla
ragionevolezza delle nostre aspettative e dal nostro senso di
responsabilità" (1995:552).
La felicità
relazionale dei ricchi
Si può essere felici nel rapporto con altre
persone, con un ambiente, un oggetto, o qualsiasi altro contenuto che ha
qualità relazionale. Anche i casi di felicità provata in solitudine, come per
esempio nella contemplazione del bello, possono implicare un rapporto
particolare, vale a dire una compenetrazione con una certa realtà che è
estetica, spirituale, e nello stesso tempo relazionale. Ma può altresì esistere
una felicità senza oggetto, cioè senza un’apparente relazione con il mondo
esterno, come per esempio nello stato mistico in cui l’essere è raccolto in se
stesso come “fuori dal mondo”.
Se però consideriamo il valore della
relazione, notiamo che il più delle volte essa implica l'affermazione
dell'identità, o dell’immagine. Si potrebbe dire, quindi, che ognuno ha bisogno
di manifestare il valore, vero o presunto, che associa alla sua identità e, di
conseguenza, gli appaiono felici le condizioni e le situazioni ove ciò avviene.
E, di converso, la felicità relazionale viene a cessare o non si costituisce
quando l’identità non è accettata e riconosciuta. V'è, quindi, un generale e
legittimo bisogno psicologico di riconoscimento, che è soddisfatto nelle
situazioni in cui la nostra identità, le nostre idee e le nostre azioni hanno
un certo valore per gli altri e sono, appunto, riconosciute, o almeno considerate.
Tale bisogno presuppone necessariamente la correlazione e denota una certa
dipendenza dagli altri nella costituzione della propria identità e
dell’autostima. Ciò spiega anche il motivo per cui taluni legano la propria
identità alla ricchezza materiale che è, quindi, un mezzo tristemente e generalmente
efficace per essere considerati riconosciuti
e per influire sugli altri.
La ricchezza materiale implica
per taluni, quindi, l’esistenza o la creazione di rapporti umani più o meno
soddisfacenti e può essere ambita non tanto e solo in sé stessa quanto ed anche come mezzo di
rapporti gratificanti. Il ricco potrà permettersi un certo numero di servitori
dai quali con soddisfazione ottiene prestazioni e riguardo in cambio di soldi.
Un rapporto più o meno soddisfacente, anche se non necessariamente sincero e profondo,
egli può stabilire con la maggioranza delle persone con cui si rapporta; gli
basta entrare in un negozio di lusso e mostrare le sue carte di credito per
essere benevolmente accolto e riverito. Anche in mancanza di amicizie e di
rapporti sinceri, il ricco si muove nella vita con la soddisfazione di ricevere
il rispetto, generalmente dovuto ai soldi, che lui potrà credere autentico e
personale. Il ricco, quindi, non potrebbe piacevolmente spendere i suoi soldi
in una situazione ostile, non potrebbe godersi le sue ricchezze in una situazione
ove è in pericolo, ove è costretto a lottare strenuamente, a organizzare
strategie di attacco, di offesa o di difesa. E allora, una situazione di vita
semplice, ma ricca di rapporti umani piacevoli, profondi e sinceri, potrebbe
essere preferibile a una situazione di ricchezza materiale usufruita in un
ambiente asservito oppure ostile o conflittuale. Il rapporto armonioso tra gli
uomini rivela quindi la sua grande importanza per chi ricerca la felicità, e
ogni bene materiale o spirituale presuppone sempre qualche tipo di rapporto positivo.
Anche chi pone il danaro come il bene tra i più grandi, alla fin fine
attraverso di esso desidera stabilire con gli altri un rapporto per lui
soddisfacente. Chi acquista un'automobile costosissima o qualsiasi altro
oggetto di lusso, non lo fa solo per "necessità" ma anche e spesso
soprattutto per un motivo relazionale, per essere ammirato e per dimostrare il
suo status, il suo valore, che fa erroneamente coincidere con i suoi beni e con
la sua capacità di far soldi. Attraverso l'oggetto materiale egli ricerca un
tipo di rapporto favorevole e quindi per lui armonioso, anche se, purtroppo,
egli intende l'armonia in modo unilaterale, cioè sotto l'aspetto della
centralità e dell'importanza del proprio io che deve essere ammirato nella sua
compenetrazione con gli oggetti posseduti. Il ricco, in altre parole, potrebbe
essere considerato come un ingenuo o maldestro ricercatore dell’ottima
relazione, che tenta di perseguire attraverso il potere dell’avere più che
attraverso la qualità del suo essere; accumula ricchezza materiale invece di
attuare il valore delle relazioni umane libere, sincere e disinteressate.
Felicità come
armonia relazionale
Tra le cause più importanti della felicità
potremmo quindi senza dubbio annoverare l’armonia e la buona qualità dei
rapporti; e chi si relaziona in modo sereno, fiducioso, costruttivo, ricco e
piacevole con il prossimo, ha un grosso vantaggio nella sua ricerca di una vita
felice rispetto a chi stabilisce o soffre rapporti negativi.
E se, d’altra parte, l’armonia relazionale
si basa prevalentemente sulla comprensione di se stessi, degli altri e della
realtà dei rapporti, ogni comprensione, occorre dire, deriva dall’attenzione, e
anche dalla riflessione e dalla ricerca: e si può forse imparare a rapportarsi
bene con il prossimo e trarre soddisfazione o felicità dal rapporto allo stesso
modo come si apprende a fare musica insieme, o come s’impara a eseguire bene un
pezzo musicale al pianoforte? Il piacere che deriva dall'esecuzione musicale
del solista o dell'orchestra si fonda sullo studio. La felicità può anche
arrivare come un dono del cielo, e potrebbe nascondere in sé, in fin dei conti,
elementi imponderabili che non è sempre possibile rivelare e riconoscere, ma
svanisce allo stesso modo com'è venuta se non impariamo a riconoscerne le cause
e a coltivarla; e l’attenzione, la riflessione e anche forse una certa disciplina
possono creare le condizioni adatte per il suo fiorire. Potremmo quindi
paragonare la felicità a una musica sublime: l'armonia musicale nasce nel cuore
dell'uomo ma ha bisogno di applicazione e di tecnica musicale per esprimersi.
L'armonia
non implica l'omogeneità assoluta di valori, sentimenti, atteggiamenti e idee,
ma è piuttosto la profonda corrispondenza e l'equilibrio di vari elementi e di
varie parti, sia all'interno del corpo e dell'essere individuale, sia nei
rapporti tra le persone e con le cose. Prendendo a prestito una definizione,
quindi, della teoria musicale, potremmo dire che l'armonia è un accordo dolce
di più voci e strumenti seppur differenti. È anche una coesistenza
soddisfacente e un rapporto congruo e dialogico tra le idee.
La felicità degli
uomini intelligenti
Credo sia stato Epicuro ad affermare che
occorre intelligenza per riuscire a essere felici. Ma questa verità sembra
essere contraddetta dall’esempio di molte persone senza dubbio intelligenti e
tuttavia poco felici. Si può essere un grande accademico, un grande chirurgo,
un tecnico o uno scienziato, una persona di indubitabile sagacia mentale, e tuttavia
avere nel cuore una tristezza, un dolore talvolta causato da una relazione
difficile con il partner o da un rapporto non armonioso con i figli o con i
colleghi, che potrebbero essere altrettanto intelligenti. E ad ogni modo,
esistono diversi tipi di intelligenza, e chi sa far carriera, soldi e avere
successo non ha necessariamente anche l'intelligenza delle emozioni, e può
addirittura non avere alcuna consapevolezza e sensibilità dei propri ed altrui
sentimenti. Anche alcuni intelligentissimi finanzieri, direttori esecutivi,
uomini politici, strateghi, generali e condottieri, potrebbero mancare di
sensibilità verso il mondo dei sentimenti propri e altrui. D’altra parte, gli
uomini molto intelligenti e nello stesso tempo umanamente rozzi hanno successo
e sono ammirati. Gli stessi libri di storia esaltano proprio tali uomini. E
così, per esempio, s’insegna a scuola che Napoleone era un grand’uomo, un
grande stratega, e si sorvola sul fatto che era anche un distruttore, che il
suo successo seguiva i morti e i feriti in battaglia. La storia è piena di geni
militari emotivamente rozzi, eppur intelligenti e lodati. L’intelligente condottiero
spartano, Pausania, per esempio, capo della prima coalizione greca contro i Persiani,
e vincitore della battaglia di Platea, è anche noto per la sua grande rozzezza
emotiva. E infatti, “gli uomini al suo comando si irritarono ben presto per il
suo comportamento arrogante e violento sia nei confronti degli alleati che dei
cittadini greci dell’Anatolia, in particolar modo contro le donne. Questo tipo
di condotta si sarebbe in futuro rivelato comune per gli Spartani in posizione
di potere e lontani dalla loro patria. Il loro addestramento irreggimentato li
lasciava evidentemente poco preparati ad agire in modo umano quando erano
liberi dai limiti imposti dal loro stile di vita in patria, dove si trovavano
sempre sotto il controllo di qualcun altro” (T. Martin, 2006:122).
L’intelligenza, quindi, non apporta
felicità se è disgiunta da altre importanti qualità umane. Potremmo anche dire
che l'intelligenza delle persone felici si lega a un loro stato di
consapevolezza umana e umanitaria, alla conoscenza di sé stessi, alla congrua
valutazione delle azioni nella dinamica dei rapporti sociali. Ci riferiamo,
quindi, non più tanto e solo all’intelligenza quanto alla saggezza. Se ricerchiamo
la felicità dobbiamo quindi cominciare a discernere il valore delle cose cui la
nostra coscienza ordinaria fa riferimento e capire se possono procurarci vero
benessere e migliori rapporti.
La felicità nella
ricerca di senso
Possiamo considerare l'intelligenza, dal
latino intus-legere, come la capacità
di vedere o leggere dentro le cose, oppure come la capacità di scegliere e
legare insieme, inter-ligare,
elementi diversi di una cosa, di un problema o di una situazione. Ma
l’intelligenza di per sé non ha un valore morale e può anche essere applicata
per fini distruttivi; non vale molto se non è legata, come già dicevo, alla
saggezza. L'intelligenza priva di saggezza serve, quindi, a escogitare
efficienti strategie di competizione e di conquista, è quella dei grandi
finanzieri e degli speculatori. Inoltre, anche le persone molto intelligenti possono
nello stesso tempo essere infelici se la loro vita non ha un senso.
Nella società tecnologica dei consumi tutto
si può vendere e comprare. È rara la spontaneità del dono, del tempo non pagato
dedicato all'ascolto, all'attenzione, al servizio. Non si ha tempo da “perdere”
per fermarsi, contemplare, dialogare, ma si è disposti a vendere il proprio
tempo, talvolta anche di perdere sé stessi ed il senso della propria vita in
cambio di una ricompensa pecuniaria, e l'uomo che non riesce a darsi o trovare
un significato vero e profondo, deve continuamente distrarsi per non cadere
nella noia o nell’angoscia.
Gli americani continuano a scrivere libri
su come diventare ricchi e famosi, ma accanto al diffuso desiderio di soldi, di
sviluppo economico, di lavoro ben pagato, c'è l’essenziale bisogno di dare un
senso alla propria esistenza, di attuare le proprie potenzialità umane, di
avere rapporti armoniosi che rendano felice il sentimento di sé. E c’è anche, e
forse soprattutto, il bisogno di avere una certa sensazione positiva della
nostra posizione nell'infinito, cioè come uomini ancora capaci di meraviglia di
fronte alla propria vita inserita in una realtà che la trascende.
La felicità dell’esistere
All’interno della nostra vasta realtà individuale
e sociale v’è un valore grande e importante, spesso dimenticato, che sta alla
base di tutto e che deve essere riconsiderato e apprezzato: la consapevolezza
dell’esistere. Carl Jung scrive che in fin dei conti "ciò che conta di più
è esistere, ed è più raro di quello che si creda. Avere un compito quotidiano e
svolgerlo bene; e nello stesso tempo prestare attenzione a ciò che avviene
dentro di noi, oltre che all'esterno, essere coscienti della vita in tutte le
sue forme, in tutte le sue espressioni" (1995:508).
Secondo
Jung la felicità è, quindi, un corollario dell'esistenza. Ma egli si riferiva,
ovviamente, a una modalità d'esistenza particolare; l'esistenza cosciente. Ed è
interessante notare come questa idea sia in fin dei conti “epicurea”. Infatti,
come vedremo tra poco, per Epicuro l’esistenza in sé è piacere, a patto che sia
libera dal dolore e, molto presumibilmente, egli doveva avere in mente
l’esistenza consapevole poi valorizzata
da Jung.
Il senso della frase Junghina: ciò che conta di più è esistere, si
potrebbe rivelare soprattutto in alcuni casi estremi, cioè in quelli in cui
tutto l'oro del mondo non serve a prolungare l'esistenza di un condannato a
morte. Nel romanzo L'idiota, Dostoevskij,
per esempio, racconta i pensieri di un condannato a morte. Sulla via verso il
patibolo questi diventa profondamente consapevole del valore, del senso e dell'intensità
dell'esistenza. In situazioni limite, e forse anche nei momenti di profondi mutamenti
e crisi personali e sociali, può succedere, infatti, che l'uomo si risvegli,
divenendo consapevole del valore dell’esistenza in sé. Il condannato confessa a
se stesso, quindi, che se solo potesse andare indietro nel tempo, vivrebbe ogni
momento con coscienza, consapevole delle sue azioni e del valore della vita.
Succede, quindi, che proprio all'ultimo minuto, in prossimità del patibolo,
egli riceve l’insperata notizia della grazia e ritorna libero. Ma poi,
purtroppo, e nonostante tutti i buoni propositi, ritorna a vivere come prima, immerso
nelle solite azioni e nei soliti pensieri, immemore del valore di ogni momento
della sua vita.
Non è del tutto impossibile incontrare,
soprattutto nei paesi “sottosviluppati” delle persone povere di beni materiali
ma ricche di serenità, spesso di gioia. Si può sentire presso di loro una certa
calma, un dolce silenzio sgombro da pesanti legami con gli oggetti e non
rattristato da pensieri inutili, da preoccupazioni, dal conflitto. Dal punto di
vista comune occidentale tali persone sono ingenue, ed è comunque strano o
sorprendente per una mente razionale che alcuni uomini possano vivere immersi
in un'estasi gioiosa senza una individuabile causa esterna materiale. Ma ciò
non dovrebbe sorprendere se si realizza che la felicità è un fattore endogeno,
è l'esistenza in sé, liberata da superflui fardelli, è la celebrazione della
vita. In determinate condizioni, tolti alcuni ostacoli, la felicità è prodotta
naturalmente dalla psiche serena. L’assenza di stress, il non dover correre
sempre a destra e a manca, l’assenza di invidia, il rifiuto di paragonarsi agli
altri o a un'immagine ideale di sé, l’assenza di recriminazioni, di malattie,
l’assenza di rapporti pesanti o gelatinosi, l’assenza di legame con innumerevoli
oggetti esterni non necessari e spesso del tutto inutili; tutte queste
"assenze" liberano il terreno alla manifestazione del senso del
benessere inerente alla vita, e possono rivelare una ricchezza interiore
spirituale. Chi è dentro la propria esistenza pienamente e consapevolmente è
dentro la principale fonte della sua felicità.
La felicità come
serenità
Se ricerchiamo la felicità nel senso
dell’esistere, possibilmente all’interno di una vita semplice, ci poniamo in
un'ottica che è completamente diversa da chi cerca fama e ricchezza e, tuttavia,
coloro che promuovono e cercano la ricchezza materiale ed il successo cercano e
promuovono la stessa "utopia": la felicità. La differenza tra le due
diverse prospettive sta principalmente nella considerazione dei mezzi più che
nel desiderio del risultato. Da una parte si cerca la felicità fuori, dislocando
il proprio sé più autentico nel possesso delle cose esterne, oppure attraverso
la ricerca dell'identità “chiara” e “forte” che la fama, anch’essa un fattore esterno,
può dare. D’altra parte, invece, si dà più valore all’interiorità, rimanendo
centrati nel sé, perseguendo una felicità che, se raggiunta, è più solida. La
felicità è un fatto interiore, ed è quindi giusto e logico cercarla lì dove si
trova, e non fuori. I grandi filosofi, i saggi, i veri religiosi, credono,
appunto, e affermano che la felicità ha origine in un quid, in un'alchimia
difficile, ma possibile, che si attua nel cuore dell'uomo.
Epicuro identifica la felicità con la
serenità e credono la stessa cosa diversi altri saggi e filosofi. Anche il pessimista
Schopenhauer, per esempio, afferma che tutto ciò che non apporta serenità non è
forse degno di essere desiderato e "se si vuole giudicare la felicità di
un individuo ricco, giovane, bello e onorato, ci si chieda se è anche sereno;
viceversa, se è sereno, risulta indifferente se sia giovane o vecchio, povero o
ricco: è felice". Inoltre, crede il filosofo, "alla serenità nulla
contribuisce meno delle circostanze fortunate esterne" (1997:27).
Torniamo allora al concetto di povertà
positiva, da intendersi anche come serena libertà da pesi inutili e
ingombranti. La ricchezza materiale, infatti, può rivelarsi un peso, un
generatore di stress, un’inutile zavorra, un ostacolo per il libero e sereno godimento
dell’essere nell’esistenza.
La felicità secondo
Epicuro
In realtà, se ben consideriamo, una volta
liberati dai pregiudizi, dalle paure, dalle superstizioni, dai condizionamenti
dei mass media, dal conformismo, e dai rapporti pesanti e infelici, una vita
buona è più facilmente realizzabile. E, infatti, così liberati, e quindi
riconnessi con il nostro naturale stato di serenità, non potremmo essere e
sentirci felici? In questo stato in sé completo non abbiamo bisogno di
superflue protesi esistenziali e soddisfiamo solo i bisogni che Epicuro
definisce naturali e necessari, essendo in più allietati dal piacere
dell’amicizia e dei rapporti veramente umani, sinceri e significativi. E non
sembri questa una riduzione ai minimi termini del concetto di felicità,
soprattutto se consideriamo che all’interno dei rapporti umani veri e armoniosi
può aver luogo il perseguimento della nostra vocazione. E allora, riconoscendo
le condizioni essenziali del nostro benessere psicofisico, o felicità che dir
si voglia, riconosciamo nello stesso tempo l’illusorietà e la futilità delle
cose prima ritenute importanti, e le abbandoniamo come un uomo che mette da
parte i trastulli infantili. Ci liberiamo anche dalla necessità di compiere
lavori strenui e alienanti per comprare oggetti inutili o per acquisire attraverso
lotte e stress posizioni che non ci rendono intimamente felici.
In realtà, ci avvediamo che abbiamo
desiderato certe cose e certe condizioni non in sé stesse ma perché credevamo
fossero portatrici di felicità. La felicità, quindi, in se stessa è ciò che
cerchiamo e ci rendiamo conto che la sua ricetta non deve essere ricca di
ingredienti e per ottenerla non occorre tanto aggiungere cose alla vita quanto,
invece, occorre togliere ciò che è superfluo. Comprendiamo anche che la maggior
parte dei nostri mali è opera nostra, se abbiamo scelto di vivere in modo complicato,
e che possiamo in parte o del tutto evitarli conducendo un’esistenza semplice.
È vero, tuttavia, che taluni sembrano
vivere ricercando e perseguendo tutto ciò che li rende infelici e che porta
sofferenza a se stessi e al loro prossimo. Per esempio, ricercano il potere
come bene in sé, anche se tale ricerca si accompagna alla lotta, allo stress,
alla prevaricazione o alla violenza. Ma generalmente le cose e le condizioni
desiderate dagli uomini sono strumentali rispetto a ciò che è intrinsecamente
voluto: la felicità. Ricerchiamo, quindi, gli oggetti, le condizioni, gli
onori, la ricchezza, le immagini, e spesso anche il potere, non di per se
stessi ma in vista della felicità che potrebbero procurarci mentre, invece,
ricerchiamo la felicità sempre per se stessa e non strumentalmente. E allora,
per esempio, posso desiderare di avere molti soldi in vista del piacere e del
benessere che mi portano, ma non desidero la felicità in vista dei soldi che mi
potrebbe procacciare. La felicità è fine a se stessa e, come afferma Epicuro,
le condizioni per il suo raggiungimento sono semplici.
Ho già brevemente menzionato le condizioni
che secondo lui sono fondamentali per il raggiungimento della felicità. La
teoria epicurea sulla felicità e la sua classificazione dei bisogni merita,
allora, la nostra più profonda attenzione e considerazione. E proprio
nell’attuale situazione storica la nostra attenzione deve essere focalizzata e
profonda. Viviamo, infatti, ora forse più che nel passato, una situazione di
crisi, che segue le ultime grandi innovazioni tecnologiche e le trasformazioni
nei rapporti umani. E tali trasformazioni sono state e sono così radicali che
le mutate condizioni della nostra esistenza non si lasciano più comprendere
attraverso i vecchi schemi di pensiero e neanche alla luce degli atteggiamenti
correnti, che sostanzialmente esprimono la posizione materiale e la volontà del
potere. Tali atteggiamenti sono molto spesso acriticamente e inconsapevolmente
condivisi dalle classi dominate e, con le verità che esprimono e sottendono, hanno
portato e portano il profondo squilibrio che notiamo nel nostro ambiente
naturale e sociale. Ma non è più possibile perseguire il profitto e in nome
dell’economia e della finanza devastare ambienti naturali e antiche tradizioni
umane; non è più possibile che il profitto prenda il posto che spetta
all’umanità e alla felicità. Se questo trend continua, gli squilibri naturali e
sociali risulteranno estremi e forse irreversibili. Ma se la situazione di
crisi attuale non è consapevolmente avvertita dalla maggioranza degli uomini
essi, pur tuttavia, vivono dentro la loro pelle e nelle loro particolari
situazioni esistenziali un malessere crescente. E allora qui ed ora l’antica
concezione epicurea dei rapporti umani amicali e significativi e della felicità
può mostrare il suo valore per l’uomo contemporaneo. Tale concezione offre e
ripresenta, infatti, un sostanziale ribaltamento dei valori correnti perché
pone in primo piano la ricerca della soddisfazione dei bisogni umani profondi e
universalmente validi, e costituisce, inoltre, un approccio fondamentale per il
conseguimento della felicità o di ciò che il filosofo definisce col termine
“piacere” che va inteso, però, come lui stesso, e non i suoi detrattori, lo intende.
Epicuro viveva serenamente in una comunità
di amici in un giardino ai margini di Atene ove nel 306 a.C. aveva fondato la
sua scuola filosofica. Diversamente dai filosofi suoi predecessori e contemporanei
che argomentavano prevalentemente su questioni astratte e metafisiche, Epicuro
si occupava dei problemi reali dell’esistenza del singolo individuo. Il centro
della sua riflessione era quindi “il problema dell’esistenza” su questa terra,
dentro la nostra pelle, dentro la nostra vita qui e adesso. E, se vogliamo,
questo è il “problema”, o la più grande immediata questione, che ogni uomo consapevole,
sensibile sincero e razionale si pone. Tutte le altre questioni, infatti,
assumono un’importanza secondaria o relativa quando e se l’essere in sé consapevolmente
si risolve nella sua essenza, che non è astratta, concettuale, ma reale,
sentita e contingente. E per Epicuro, il
“problema” dell’esistenza è risolto quando essa risulta prima di tutto serena.
E questo non è dir poco perché, infatti, gli uomini sono invasi da turbamenti,
da passioni, dal dolore e, soprattutto, da pulsioni e desideri la cui soddisfazione
spesso implica lotte, conflitto, tensione, infelicità. E tuttavia, secondo
Epicuro la felicità che consiste nell’assenza di turbamenti è una meta raggiungibile
dall’uomo, il cui compito primo e fondamentale è, appunto quello di ricercarla
e realizzarla. Ed alla serenità si aggiunge, afferma Epicuro, il “piacere”. La
vita serena, infatti, è di per sé piacevole o, si potrebbe anche dire, felice.
E nella filosofia epicurea il piacere, insieme alla serenità, costituisce il
sommo bene.
Occorre, quindi, fare attenzione al
significato dato a tale termine. Il piacere infatti non è inteso dal filosofo
come mero appagamento dei sensi e delle voglie umane o come soddisfazione dei
bisogni che non sono naturali e necessari. Scrive egli infatti nella sua
lettera a Meneceo: “Quando dunque diciamo che il piacere è un bene, non
alludiamo ai piaceri dissoluti che consistono in grandi abbuffate come credono
alcuni che ignorano o interpretano male il nostro insegnamento; ma alludiamo
all’assenza di dolore nel corpo e all’assenza di turbamento nell’anima”. Per
Epicuro il piacere coincide, quindi, con la stessa vita serena, e la vita
serena, priva di turbamenti è in se stessa piacere, “ed è per questo motivo –
aggiunge il Nostro – che riteniamo il piacere principio e fine della vita
beata, perché lo consideriamo come il bene principale e innato”.
Rapportando la sua concezione del piacere
ai tempi moderni, potremmo ben dire che il piacere non consiste nella
soddisfazione dei bisogni indotti, suggeriti dai mass media e resi “necessari”
e dal conformismo, dall’imitazione e dalla vanità. E questa concezione epicurea
del piacere ben si accorda, quindi, con la ricerca di una vita semplice e
libera dai falsi bisogni, dalle artificialità, dalle complicazioni e dagli
idoli della società contemporanea: una vita buona, se ben consideriamo, non
richiede grandi investimenti economici ed è quindi alla portata di tutti.
Riesame delle
nostre finalità
Alla luce di una concezione epicurea della
vita, e ancor più se la nostra esistenza è molto complessa, se siamo molto
indaffarati, instancabilmente attivi, potremmo fermarci un attimo per
riflettere sul significato e sul valore delle finalità delle nostre azioni,
cercando di comprendere se, una volta realizzate, saremmo più felici.
Si confronti, per esempio, la qualità di
un’azione che ha senso e significato inerente, con l’azione e lo stato mentale
di chi persegue indaffaratissimo e con accanimento un determinato fine. Ebbene,
nel secondo caso la coscienza si dirige verso quegli elementi e quelle situazioni
utili per il conseguimento di un fine particolare, tralasciando o calpestando
altri elementi. Per esempio, se uno di sera discute di affari con un socio o
cliente ed è fortemente interessato o identificato nel tema, tralascerà probabilmente
di notare il fulgore delle stelle, il chiarore della luna, e forse anche il
fatto che sua moglie se la intende con il suo cameriere, la cui coscienza a sua
volta potrebbe essere diretta verso le donne e poco o quanto basta verso i
soldi. Se un ingegnere di una multinazionale pensa principalmente al profitto
che potrà trarre da suo lavoro, non si interesserà degli abitanti dei villaggi
che sommersi in seguito alla costruzione di una diga, da lui progettata, che
blocca un fiume. Se le conseguenze dannose del suo lavoro vengono portate alla
sua attenzione, ne sarà indifferente o troverà delle ragioni a suo favore, e
non cesserà di progettare grandi opere finché il profitto sarà il suo primo
interesse. La stessa reazione potrà avere un chimico di una multinazionale al
quale si rimprovera che i diserbanti da lui composti inquinano le falde acquifere
e sono dannosi alla salute, oppure un costruttore di armi al quale si ricorda
quale sia l’effetto distruttivo dei suoi prodotti. Ciò che risulta preminente
nel suo lavoro è, appunto, il profitto. Sulla base di determinati fattori,
quindi, la mente sceglie l’oggetto della sua attenzione e direzione. E tali
fattori hanno, ovviamente, un’origine e un riscontro sia nella cultura sia nella
conformazione psichica particolare di un individuo. Ma oltre a cercare di
prendere in considerazione lo stato mentale caratterizzato dal perseguimento di
un dato fine particolare di cui non si è consapevolmente vagliato il senso,
potremmo anche chiederci, cosa succede nello stato della nostra mente quando,
pur essendo vigili e svegli, e pure attivi nel nostro lavoro vocazionale, il
cui senso è inerente, non perseguiamo alcun fine limitato quale può essere il
danaro o il successo e la fama. Si tratta, si può ben supporre di stati contemplativi
fuori dal tempo, cioè fuori dal tempo pensato e programmato che occorre per la
realizzazione di un dato fine. Gli stati contemplativi hanno senza dubbio una
correlazione nel corpo, nella sua postura e nel suo movimento e anche nel
sentire o nel sentimento di sé. Chi ha in mente uno scopo e lo persegue ha il
corpo proteso verso il fuori, in movimento, se non in agitazione. Inoltre, per
realizzare ad ogni costo una data finalità occorre spesso lottare contro coloro
che si oppongono o hanno finalità diverse, con lo stress che ne risulta. L’agitazione
è causata anche dall’eccessiva identificazione nello scopo da raggiungere e dalla
paura di non riuscire a realizzarlo. E la paura si lega spesso a una certa
azione che ha una sua finalità sentita come preminente a scapito di ogni altra.
Chi invece compie un’azione per il suo senso intrinseco e con piacere e partecipazione,
non perseguendo uno scopo futuro ma essendo nello stesso tempo sveglio e vigile
nel momento presente, non avrebbe timore o speranza. Essendo adesso e qui, non
ha la coscienza rivolta verso un fine futuro, e potrebbe non avere paura o
speranza riguardo una finalità che non esiste.
Potremmo dire che ogni finalità di per sé,
a meno che non sia veramente necessaria ed essenziale, crea una certa
perturbazione di un dato equilibrio, personale o sociale.
Un ambiente naturale e ipoteticamente
libero da ogni intervento di finalità umane, tende sempre verso il proprio
equilibrio e le varie sue componenti interagiscono limitandosi o favorendosi
vicendevolmente in modo tale che nessuno di esse possa predominare e diventare
un flagello, con conseguenze generali esiziali. D’altra parte, ogni forte
influenza o intervento umano provoca verosimilmente la rottura dell’equilibrio.
Anche gli ambienti umani possono essere
visti come sistemi naturali che tenderebbero verso un loro equilibrio se non
fossero presenti al loro interno le azioni troppo incisive di uomini che perseguono
forti finalità. Un ambiente umano “naturale” contiene, ovviamente, varie
finalità che però si equilibrano limitandosi o rafforzandosi vicendevolmente.
Queste sono le finalità legate alla sopravvivenza e alla vita comunitaria
pacifica cioè alle necessarie e talvolta e creative attività di scambi economici,
culturali, umani. Se una di tali finalità diviene predominante, se per esempio
un gruppo di persone pensano ed agiscono molto efficacemente per realizzare un
loro obiettivo particolare a scapito di altre necessità ed esigenze, allora la
loro azione crea necessariamente uno squilibrio. E gli squilibri grandi
esistenti nella nostra società traggono origine principalmente, appunto, nel
diffuso desiderio di profitto inteso come finalità importante e preminente.
Tale finalità, perseguita acriticamente, anzi follemente e senza controlli,
crea l’arricchimento di pochi e l’impoverimento di ampie classi sociali, la
sottovalutazione di altri valori umani e, quindi, sofferenze e squilibri
relazionali. Coloro che perseguono date finalità senza consapevolezza e rispetto
del benessere dell’ambiente naturale e umano, non hanno neanche,
presumibilmente, l’idea di essere distruttivi. Anzi, con le migliori intenzioni
coscienti, ma coscienti solo di una finalità parziale, quale è, appunto, il
profitto, distruggono l’ambiente naturale e umano, e di conseguenza, a lungo
andare, anche se stessi. Tale azione distruttiva non si arresta se non
interviene la consapevolezza, cioè la realizzazione della grande pericolosità
di ogni finalità unilaterale ed eccessiva.
D’altra parte, questa consapevolezza
difficilmente può nascere all’interno di grandi agglomerati umani e tantomeno
all’interno di grandi gruppi e organizzazioni multinazionali di potere i cui membri
sono troppo protesi e identificati nella realizzazione delle loro finalità.
Innumerevoli piccoli ambienti di collaborazione e di sopravvivenza, ma collegati
tra di loro, ed esistenti fuori dalle leggi e dall’imperio delle multinazionali
e dei gruppi finanziari, potrebbero invece costituire realtà positivamente equilibratrici.
È importante, pertanto, che i membri di tali comunità non condividano i valori
e le finalità dei gruppi dominanti. All’interno di piccole comunità conviviali,
particolari finalità non dovrebbero diventare preminenti. Coesistono, invece,
diverse finalità effettivamente legate al benessere e, ovviamente, individuate
dalla ricerca comune, dalla collaborazione e dalla saggezza, cioè
dall’effettiva conoscenza di ciò che costituisce il benessere dei gruppi e
degli individui al loro interno.
Tra gli importanti fattori e campi di
azione che possono fungere da correttivi dei disequilibri causati dalle
incisive finalità umane, preminente è l’amore in senso lato, che di per se
stesso non è e non deve essere finalizzato. L’amore certamente crea situazioni
amene e porta dei risultati positivi, ma non segue una finalità o un tornaconto
personale.
L’amore
si manifesta soprattutto all’interno dei rapporti io-tu, cioè non strumentali e
di guadagno. La persona con cui ci rapportiamo è importante e degna di rispetto
in sé e non come strumento di un nostro fine. E dato che la società non può
essere amata che in modo astratto, mentre l’amore si rivolge ad individui reali
e prossimi, allora i rapporti d’amore non strumentali e non finalizzati avvengono
in piccole comunità tra i singoli individui e tra individuo e comunità e tra
individuo e ambiente naturale circostante.
E
l’amore si rivolge anche a ciò che eleva l’uomo verso dimensioni che si
presumono essere prive di finalità consapevolmente definite, come
l’arte, la poesia, la letteratura, la contemplazione. In tali dimensioni la
porzione della mente che di solito persegue fini limitati viene assorbita in
una realtà o stato più vasto, ove operano e si manifestano fattori importanti
di grande integrazione psichica e sociale.
CAPITOLO
SESTO
ALLA RICERCA DI NUOVI PARADIGMI
*
Così come siamo
La realtà degli uomini è caratterizzata da
conflitti, da incomprensioni, da guerre da sconvolgimenti climatici ed
ecologici. Gli uomini politici servono, in generale, gli interessi delle grandi
banche e delle multinazionali, si occupano prevalentemente di conseguire e
consolidare il loro potere e attuano provvedimenti secondo prospettive
limitate, sia umanamente sia temporalmente. Essi possono agire così perché
anche i governati sono apparentemente insensibili o poco reattivi di fronte
alle ingiustizie e allo stato di sofferenza del mondo, o non hanno gli
strumenti culturali per eleggere governanti capaci e onesti. Oggi come nel
passato, io credo, gli individui in generale perseguono edonistiche infantili
distrazioni, e come persone immature e influenzabili sono trattati dai
politici, dai potenti, dai mass media e dalla pubblicità. Le questioni
veramente importanti non sono generalmente trattate dai mass media, e nella
vita privata non si trova il tempo per stare insieme e dialogare. Non molti
sono i genitori che hanno tempo e prestano attenzione intelligente vera e
assidua verso i loro figli. E i ragazzi, lasciati soli tra i loro giochi
tecnologici e di fronte ai mass media che li condizionano all’interno dei
valori consumistici correnti, non hanno la possibilità di crescere emotivamente.
La scuola, d’altra parte, non si occupa dell’educazione emotiva dei ragazzi.
Uno sguardo attento su noi stessi e sui nostri simili ci rivela quindi,
parlando in generale, un uomo infantile, circondato da innumerevoli beni,
superficiale, distratto, spesso stressato e in lotta.
Tuttavia, questa visione pessimistica
seppure congrua, io credo, della nostra realtà, non è completa ed esaustiva.
Infatti, mentre gli uomini in generale subiscono il condizionamento dei mass media
e del conformismo, esistono oasi di consapevolezza che si manifesta nella
ricerca di azioni valide e congruenti e di un’esistenza alternativa rispetto ai
valori e alle politiche correnti. E questa nostra riflessione si inserisce
quindi, pur nei suoi limiti, in un contesto di ricerca più vasto; un contesto
poco visibile, eppure reale, oltre che importante.
Gli uomini che sinceramente riflettono su
questioni vere e importanti, ricercano e lavorano non solo in quanto individui
singoli ma anche come espressione di un'umanità che cerca. I loro pensieri ed
esempi si radicano in una ricerca generale.
L'umanità occidentale da una parte è
apparentemente persa in varie fughe e distrazioni, nel desiderio di consumo e
di benessere materiale, e d'altra parte comincia a essere consapevole che i
vecchi paradigmi del profitto, della separazione tra gli uomini, della furbizia
e dello sfruttamento, non possono e non devono più guidare le azioni. V'è
quindi adesso, anche se i problemi sono molti e forse gravi, un'avanguardia di
uomini consapevoli.
Le avanguardie di
nuovi paradigmi
Supponiamo che gli strumenti del lavoro
fossero caduti dal cielo nelle mani dei selvaggi, e questi uomini avessero
vinto l’odio mortale che tutti hanno per un lavoro continuativo.
Jean-Jacques
Rousseau
La nostra situazione umana sarebbe ricca di meravigliosi
sviluppi collettivi se un profondo mutamento paradigmatico avvenisse almeno in
un piccolo ma influente numero di avanguardie.
E questo è possibile se si considera, infatti,
che i nostri paradigmi, gli approcci esistenziali, le premesse date per
scontate che determinano le nostre scelte oggi sono, in realtà, la conseguenza
delle azioni di gruppi marginali o, diremmo meglio, di piccole avanguardie del
passato. Vorrei fare un semplice esempio. Nella nostra civiltà occidentale il
lavoro è considerato la condizione normale e auspicabile per tutti gli esseri
umani, mentre la disoccupazione è considerata una disgrazia, un male, se non un
peccato. Inoltre, per avere una certa sua dignità, vale a dire per essere riconosciuto,
il lavoro deve essere remunerato con i soldi. Più uno guadagna più il suo
lavoro è generalmente considerato importante, e viceversa. Ma dovremmo forse
riflettere sul fatto che in altre parti del mondo non è così, e non è stato
sempre così neanche in Europa. Potremmo quindi notare e considerare che la
nostra odierna etica del lavoro si è formata o perfezionata durante la
rivoluzione industriale inglese in seguito all'impegno di certe avanguardie.
Queste erano formate da veri e propri pionieri della "modernizzazione",
i quali credevano in una nuova etica del lavoro e cercarono con successo di
diffonderla tra masse di uomini refrattari ai nuovi paradigmi, uomini che
mostravano una forte opposizione contro la necessità di un duro lavoro in fabbrica
e che conducevano una vita semplice e generalmente tendevano ad accontentarsi
del necessario, vale a dire di ciò che ottenevano attraverso il lavoro nei
campi, seguendo il ritmo delle stagioni, o attraverso l'artigianato. Ma grazie
all’opera forte e incisiva di certe avanguardie essi sono diventati gli odierni
uomini inglesi, abitanti di un paese ove l'etica della produzione e del lavoro
è sacra e diffusa.
Secondo Z. Bauman le avanguardie della modernizzazione
dovettero affrontare il problema dato dalla necessità di costringere
all'esecuzione di compiti noiosi e ripetitivi "persone che erano abituate
a dare un significato al proprio lavoro, stabilendone le finalità e
controllandone gli sviluppi." Tali persone tendevano quindi a considerare
prive di senso le nuove costrizioni. Per risolvere questo problema
"bisognava abituare gli operai a una cieca obbedienza, (…) obbligandoli a
svolgere un'attività insignificante ai loro occhi. (...) Il nuovo sistema di
produzione industriale aveva bisogno di creature senz'anima: meri ingranaggi di
un meccanismo complesso". La nuova etica del lavoro predicata dalle nuove
avanguardie della rivoluzione industriale inglese "consisteva, fondamentalmente,
nella rinuncia alla libertà. (…) La crociata condotta all'insegna di questa
etica è stata, a tutti gli effetti, una battaglia volta a imporre il controllo
e la subordinazione. Una lotta di potere, nella sostanza anche se non nella
forma, per costringere gli operai ad accettare, in nome della nobiltà del
lavoro, una vita tutt'altro che nobile o rispondente ai loro principi di
dignità morale" (Z. Bauman, 2004:23).
Importanti nuove avanguardie di
imprenditori, di politici, filosofi e predicatori si servirono quindi dell'idea
di "modernizzazione" come "incitamento o giustificazione dei loro
tentativi di sradicare, con le buone o con le cattive, un'abitudine considerata
come il principale ostacolo all'avvento del mondo nuovo che essi intendevano
costruire: quest'ostacolo era costituito dalla tendenza diffusa a evitare, se
possibile, la presunta benedizione del lavoro in fabbrica e la docile
sottomissione al ritmo di vita stabilito da capireparto, dall'orologio e dalle
macchine” (2004:20).
Il giudizio morale, filosofico e umano,
attorno al valore e alle conseguenze delle idee delle avanguardie della
modernizzazione può variare, ma non credo che il loro ruolo possa essere
negato. Le avanguardie esistono, e se quelle della rivoluzione industriale
inglese, e tante altre, sono state negative e deleterie, tuttavia possono
esistere, e forse esistono, io credo, avanguardie positive, il cui esempio può
essere influente. Viviamo insieme, e i nostri pensieri, i nostri atteggiamenti
e le nostre azioni hanno una grande influenza reciproca.
Roberto Assagioli racconta che un suo amico
"che era appena arrivato a New York e non aveva nulla da fare, uscì
dall'albergo col proposito di girellare tranquillamente per la città. Ma dopo
pochi minuti si accorse che stava andando a passo di carica ed era ansante.
Meravigliato, rallentò l'andatura, ma poco dopo si accorse che di nuovo andava
a passo di carica. Tutti intorno a lui andavano in gran fretta ed egli aveva
subìto in modo irresistibile la tacita ma imperiosa suggestione del loro
esempio" (Assagioli, 1988:202).
È difficile comportarsi in modo
indipendente, sano e consapevole quando tutti gli altri attorno a noi corrono e
perseguono le mete tipiche, e non necessariamente positive, del nostro tempo.
Ma se il comportamento della maggioranza influenza quello dei singoli
individui, è altresì vero che la maggioranza segue le mode, le tendenze e i
valori dei pochi. Gli imprenditori e gli uomini ricchi e potenti, i dirigenti
delle grandi banche e delle multinazionali sono una minoranza ma influenzano e
guidano il gusto, le opinioni e le azioni delle masse. E allora, una nuova
direzione intrapresa da pochi influenti e illuminati individui potrebbe essere
altrettanto determinante. Se, per esempio, alcuni industriali decidessero di
sostituire la produzione di petrolio con quella di pannelli solari, le folle si
adeguerebbero e scoprirebbero all'improvviso, anche grazie a una concomitante
azione pubblicitaria, di aver impellente bisogno di questi nuovi prodotti
ecologi per riscaldare la casa. Da parte loro, gli industriali del petrolio e
del carbone che si convertissero ai valori dell’ecologia, potrebbero pur continuare,
in altro modo, a fare grandi affari. E, certamente, l‘unico modo per
arricchirsi non è quello di estrarre e vender petrolio, impiantare nuove
industrie automobilistiche, costruire autostrade, babelici grattacieli,
gallerie, dighe che deviano fiumi e distruggono antiche comunità. Invece, la
bonifica e l’irrigazione di terreni desertici, la costruzione di case
coibentate circondate da orti e giardini, l’abbattimento di orribili palazzi
frutto della speculazione edilizia, la riforestazione del pianeta, e via
dicendo, potrebbero costituire una grande e remunerativa impresa economica. Ma
se gli industriali e i pochi grandi ricchi continuano a essere i modelli di una
forma di vita e di consumo deleterio, ciò è dovuto, io credo alla loro mancanza
di fantasia, di vera intraprendenza, se non a cecità, inconsapevolezza o
cinismo. È possibile, comunque, che le generazioni di vecchi industriali,
legate alle loro obsolete idee diano spazio, per naturale rotazione generazionale,
a giovani e saggi imprenditori. Al momento presente, i ricchi e i potenti che
guidano il mondo non sanno essi stessi, io credo, in cosa consista il loro vero
benessere; credono di attuarlo come esseri separati dalla natura e dagli altri,
e non conoscono il piacere e la gioia della condivisione e della fratellanza,
della solidarietà e della considerazione per i poveri. E si potrebbe dubitare,
credo, sulla loro effettiva felicità.
Gli uomini sono esseri sociali che vivono
in comunità e s’influenzano reciprocamente in diversi modi. La diffusione della
cultura e del dialogo è molto importante, ma anche la questione
dell’imitazione, se non del conformismo, all'interno dei grandi gruppi,
potrebbe indurci a valutare adeguatamente il fattore dell'influenza che pochi
individui possono esercitare sia nei modelli di consumo sia nei rapporti
interpersonali. Un nuovo modo di concepire i rapporti si attua non attraverso
l'opera di "rivoluzionari" che, mentre sovvertono lo status quo
politico, continuano a manifestare vecchi modelli di pensiero e di
comportamento, ma attraverso la rinascita di valori squisitamente umani. Pochi
individui consapevoli, veramente umani e saggi, avrebbero certamente nel mondo
un'influenza grande già solo per il semplice fatto di star bene con sé stessi
ed in mezzo agli altri; non perché possiedono cose preziose, immagini
gratificanti di sé o verità assolute, ma perché sono autentici, saggi e
solidali. Potrebbe quindi capovolgersi l'abitudine attuale diffusa nelle masse
di seguire i modelli e le concezioni di vita di uomini ricchi potenti e allo
stesso tempo vani, egoisti e incuranti del’ambiente e del prossimo.
Scrive Assagioli che nel passato "i
geni, i saggi, i santi, gli eroi, gli iniziati erano riconosciuti come avanguardia
dell'umanità, come la grande promessa di ciò che ogni uomo potrebbe diventare.
Ciò è affermato nei grandi incitamenti del Cristo: 'Siate perfetti come è
perfetto il Padre vostro nei cieli', e: 'Cose più grandi di quelle che io ho
fatte farete anche voi'. Questi esseri superiori, senza disprezzare l'umanità
comune, hanno cercato di suscitare in essa la spinta, l'anelito a trascendere
la 'normalità' e mediocrità in cui si trova, a sviluppare le possibilità
latenti di ogni essere umano" (Assagioli, 1988:73).
Se cominciamo a osservare il mondo con
vista nuova e a vivere una vita buona e serena, possiamo noi stessi costituire
le avanguardie di nuovi paradigmi. Spetta a noi, quindi, proporre e mostrare
soluzioni ed esempi, che siano veramente nuovi e pregnanti, cioè pratici e
concreti. Chi vuole cambiare il mondo cominci da sé. Il mutamento della società
e del mondo si lega intimamente al mutamento individuale nell’interiorità.
L'uomo porta in sé e manifesta una tensione verso una reale possibilità di
autoconoscenza, di completezza e realizzazione. Se un uomo cambia, il mondo
comincia a cambiare.
Il ridimensionamento
della ricchezza: una proposta per un’avanguardia di ricchi
Si può talvolta, o spesso, intensamente
sentire il desiderio di una vita ricca, di un'esistenza profonda, oltre le
paure, le preoccupazioni, oltre i vecchi stili di vita e le vecchie abitudini.
Questo desiderio, forse innato in ogni uomo, è nella nostra società generalmente
indirizzato verso il possesso delle cose, verso il potere, il successo e il
prestigio della propria immagine, oppure verso i divertimento e l’evasione. Ma
talvolta un uomo, dopo aver conquistato successo, potere e beni materiali, si
rende conto che persiste in lui un’insoddisfazione, una vaga inquietudine, se
non un vuoto; ha tutto ma avverte una mancanza di qualcosa che non sembra saper
definire; si manifesta in lui il desiderio di una vita profondamente umana e
ricca di senso. E allora si ferma a riflettere, a ricercare un benessere più
alto, e potrebbe anche forse cessare di percorrere le vecchie strade del
potere, della ricchezza, del controllo. Esce dal suo paradiso artificiale e
conosce il mondo, la vita reale dei suoi fratelli nelle bidonville, nelle
periferie squallide delle grandi città, nei villaggi africani senza acqua e
corrente elettrica, tra i disoccupati in attesa di un sussidio statale, tra i poveri
in fila per un pasto alla Caritas, nelle stazioni ferroviarie di notte tra i
barboni, sui barconi nel mediterraneo tra uomini e donne che fuggono dalle
guerre e cercano asilo politico in Europa, tra gli immigrati clandestini che di
notte sono assiepati in baracche e di giorno lavorano nei campi per quattro
euro l’ora, in nero.
A proposito dei paradisi
artificiali costruiti esclusivamente con i soldi, possiamo considerare le parole
di Gesù sulla possibilità che un ricco ha di entrare nel paradiso celeste:
"È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri
nel regno di Dio" (Marco 10:25). È difficile per un ricco entrare in
paradiso perché egli si trova già nel suo "paradiso", vale a dire
nella sua gabbia dorata che lo rinchiude fuori dal contatto diretto con il
vasto mondo, con gli indigenti e i miserabili.
E tuttavia, non è del tutto
impossibile che un ricco illuminato e intelligente si ridimensioni, per libera
scelta o per necessità, in un modo di vivere moderato, equo e felice. Non più
in continua corsa e affanno verso l’avere, non più distratto dai beni
materiali, potrebbe fermarsi a contemplare sé stesso, la natura, nuove
prospettive esistenziali, e diventare quindi più consapevole della sua naturale
tensione verso una vita vera, armoniosa e piena di significato. Se i ricchi
riuscissero a liberarsi da molti pesi e distrazioni inutili, da molto lavoro
stressante compiuto per fare soldi, da attività dirette dal conformismo di
classe, avrebbero più tempo libero e la possibilità di sviluppare i loro veri
interessi. La semplificazione dell'esistenza permetterebbe loro non solo di liberarsi
dal peso di consumi eccessivi ma anche di eliminare le schermature di fronte
alla vita. E solo qui, in questo loro contatto più diretto con la vita, le loro
sintomatologie esistenziali possono trovare sollievo e trasformarsi in serenità.
Attraverso il ridimensionamento della
ricchezza e la semplificazione esistenziale si comincia davvero a percepire
l'essenzialità e il valore della vita, propria, del prossimo.
Il percorso verso
la conoscenza di sé: saggezza e semplicità
I contenuti dell'animo umano, il suo dolore,
le sue passioni, i suoi movimenti, possono anche non essere spiegati
teoricamente, ma possono essere consapevolmente sentiti, osservati e visti, e
la chiara visione, non caricata da complesse interpretazioni, può in sé stessa
essere comprensione e base per ogni susseguente congrua e saggia azione.
Si pensa alla saggezza come a un possesso
piuttosto che come a una perdita. La ricerca della grandezza dell'io viene
applicata anche alla concezione di una saggezza che consisterebbe nel possesso
di conoscenze profonde, complesse e irraggiungibili ai più. La saggezza,
invece, può essere strettamente legata alla semplicità più che alla complessità
dei pensieri. I filosofi che sono anche saggi parlano chiaramente e in modo
comprensibile indicano la verità. in
mezzo a uomini apparentemente importanti che rivestono la realtà con ricamati
drappi verbali, l'uomo semplice vede ciò che è chiaro ed evidente. Sudditi e
cortigiani ciechi onorano un re nudo credendolo sontuosamente vestito, ma un
bimbo lo guarda e lo vede com’è.
Chi
vive in un mondo complicato pensa a soluzioni complicate; si adottano soluzioni
complesse per i problemi più vari, e si evitano le risposte semplici. Per
esempio, costosi ansiolitici e cure di malattie psicosomatiche sono una
soluzione tecnica complessa ma inadeguata rispetto a quella che può trovarsi in
una vita semplice, armoniosa, non stressata.
Un grattacielo di vetro, acciaio e cemento,
è la soluzione complessa della semplice necessità di vivere e lavorare
all’interno di una dimora. I grattacieli richiedono grandi spese per il
riscaldamento e il condizionamento d'aria ma case semplici sono più facili da costruire
e da mantenere. Chi prima poteva costruirsi una modesta casa con materiali
direttamente e liberamente raccolti nell’ambiente, come legno, pietra, creta,
adesso non può permettersi il costo dei materiali, delle pratiche burocratiche
e dei progetti.
Tutto l'Occidente funziona sul principio
della complessità, che richiede l’opera di esperti e di operai e tecnici
specializzati. E una delle conseguenze della dipendenza dai tecnici e dagli
esperti è un venir meno del rapporto diretto con le cose e con i manufatti di
cui non si cura più la manutenzione e che si buttano perché si guastano o solo
perché il mercato e la pubblicità ne offrono modelli nuovi.
La complessità è pervasiva, è spreco, che
fa guadagnare alcune ditte, dà lavoro ad alcuni uomini, ma impoverisce
l’ambiente.
La complessità che richiede grande studio e
grandi risorse è di fatto una visione ristretta delle cose e dei problemi;
esiste perché la soluzione semplice spesso non richiede eccessiva organizzazione,
né esperti, burocrazia, permessi, tasse, potere concentrato, e non fa arricchire
nessuno.
Le burocrazie centrali, le grosse imprese,
le multinazionali, sono una risposta complessa a dei problemi semplici. È
semplice vivere in un villaggio, usare energia solare, spostarsi in bici e con
mezzi pubblici, produrre e consumare in loco, avere un giardino, coltivare un
orto, riciclare i rifiuti. È molto complesso, inquinante e insostenibile,
vivere in una grande metropoli, consumare energia prodotta da centrali
inquinanti, guidare una grossa auto, acquistare prodotti e generi alimentari
provenienti da luoghi distanti migliaia di chilometri, produrre tonnellate di
spazzatura che va bruciata in nocivi e costosi inceneritori. Nel primo caso le
decisioni e le responsabilità sono prese direttamente dalla gente, che lavora e
produce in modo semplice, nel secondo caso, invece, si è governati da grandi
ditte e multinazionali che lavorano per il profitto in modo complesso e sono
lontane dalla vita e dai bisogni della gente. E la complessità crea profitto,
quindi, prevalentemente agli organizzatori e ai tutori della vita complessa, alle
grandi burocrazie e alle multinazionali; crea grandi costi ambientali e umani
che ricadono sulla comunità.
I deleteri effetti delle risposte complesse
a questioni semplici sono adesso visibili dappertutto: città complesse,
amministrazioni complesse, poteri complessi, problemi ambientali e di
coesistenza umana sempre più complessi. Ma la complessità stressa l'uomo, lo
irretisce in un insieme di cose e situazioni che non comprende e non controlla
e da cui crede di non aver più una via d'uscita.
La tecnologia complessa, che apparentemente
risolve un problema, di fatto ne crea altri nuovi che richiederanno tecnologie
ancora più complesse, e così di seguito in un circolo vizioso. Si pensi per
esempio a una soluzione altamente tecnica del problema dell'energia. La costruzione
di una centrale atomica è un'operazione molto complessa che richiede grandi
investimenti, grande ingegneria, e crea pericoli e ripercussioni sull'ambiente
i cui costi non vengono pagati direttamente dalle multinazionali costruttrici
ma dalla comunità tutta, soprattutto dopo una catastrofe come ne sono avvenute.
Le scorie radioattive richiedono ulteriore uso di lavoro e di tecnologia per
essere trattate e conservate. Le malattie dovute all'esposizione alla
radioattività richiedono ulteriore uso di complessa tecnologia medica. Senza
contare che l'energia elettrica ottenuta viene molto spesso sprecata o usata
per il lavoro di trasformazione delle materie prime in oggetti di consumo
inutili, con ulteriore costo e danno ambientale, che poi richiederà ulteriore
lavoro e tecnologia per essere risanato.
La risposta molto più semplice al problema
dell'energia è, prima e soprattutto, il risparmio, e poi l'utilizzazione di
fonti d'energia rinnovabili e non inquinanti, l'uso di risorse locali che
richiederebbero la responsabilità e il lavoro delle stesse persone che le
utilizzano. In molti luoghi, per esempio, c'è molto spesso tanto vento da produrre
con la sua forza energia in quantità. Nei posti meno ventosi delle basse valli
alpine esistono ruscelli e corsi d'acqua ove potrebbero essere posti piccoli
generatori più che sufficienti a fornire energia elettrica a gruppi di case e
villaggi. Ovunque, inoltre, possono essere installati pannelli solari che
producono energia a zero costo ambientale. Queste soluzioni implicano una
maggiore autonomia dei piccoli centri e un ridimensionamento dei grandi e
complessi organismi di produzione ed erogazione dell’energia.
Complesse soluzione tecnologiche non
riguardano solo, ovviamente, la questione energetica. Gli esempi potrebbero
esser innumerevoli. Si pensi anche, per esempio all'uso dei fertilizzanti, alla
grande quantità di concime nitrato versato nei campi che poi, attraverso le
piogge, viene a immettersi nelle acque. Concimi ed erbicidi sono prodotti con moderni
mezzi tecnologici da grandi aziende il cui principale interesse è il profitto
più che il benessere delle campagne e dei coltivatori. Questi ultimi potrebbero
risolvere il problema personalmente o localmente con un tipo di agricoltura
biodinamica. Anche la raccolta selezionata dei rifiuti, con la trasformazione
di quelli organici in compost fertilizzante, risolverebbe in modo
tecnologicamente semplice e meno costoso il loro problema. La complessità,
quindi, è nemica della saggezza e impedisce l'uso delle risorse nel loro stesso
luogo di produzione; impedisce il coinvolgimento diretto delle persone nei loro
problemi, crea disoccupazione.
Semplicità e bellezza
Possiamo constatare che molto spesso le
cose semplici sono anche belle.
Non è questo il luogo ove definire un
esaustivo concetto del bello; intorno ad esso variano molto i pareri, le teorie
ed i gusti personali. Possiamo tuttavia dare alla bellezza una definizione
generale, ma credo valida, definendola come armonia di rapporti.
Senza quindi definire ulteriormente l'idea
della bellezza, vorrei però porre l'attenzione sul suo rapporto con la
tecnologia. La mia tesi è che un'opera costruita con mezzi tecnici moderati più
raramente si rivela brutta o offensiva per l'ambiente. Inoltre, la tecnica
moderata implica un rapporto più diretto tra le mani del costruttore e l'opera
costruita. Di contrario, una tecnica elaborata e complessa che si avvale di
macchine sofisticate, pone l'uomo ad una distanza maggiore dalla sua opera; ciò
significa che egli la concepisce mentalmente e la sua visione mentale, grazie
allo sviluppo della tecnica, può essere attuata senza alcun limite. Gli antichi
potevano pur concepire una torre che raggiunge le nuvole, ma non potevano costruirla.
I loro alti edifici dovevano quindi tenere conto dei mezzi esecutivi che una
tecnica moderata poteva loro offrire. E tali edifici risultavano, a mio parere,
armoniosi e belli.
Visitando di recente la cattedrale di Siracusa
ne sono rimasto colpito. Sappiamo che questa chiesa sorge nello stesso luogo
ove sorgeva un tempio greco, e adesso lo ingloba. Le greche colonne esterne
sono state unite da possenti mura, eppure continuano a mostrare la loro forza.
Ogni colonna è composta di tre massicci blocchi di pietra, messi uno sopra
l'altro con una tecnica certo mirabile e allo stesso tempo moderata. La vista
di un tempio greco suscita in noi un senso di armonia e di semplicità. La bellezza
non è creata attraverso complicati abbellimenti ma è data principalmente dallo
studio e l'applicazione di un superbo senso delle proporzioni. Sarebbe bastato
poco per rendere meno armonioso un tempio greco. Se fosse stato costruirlo più
alto, oppure in cemento armato, cosa non possibile, le sue proporzioni ne
avrebbero sofferto molto, e non sarebbe durato tanto. Infatti, la forza coesiva
del cemento cede nel tempo.
Lo stesso criterio di semplicità e di
armonia dei rapporti può facilmente essere applicato a molti, forse alla
maggioranza degli edifici italiani del medioevo e del rinascimento. Basta
andare in giro per le vie di Firenze e constatare che i suoi edifici antichi
sono belli, armoniosi, ed allo stesso tempo "semplici". Quando poi,
invece, le concezioni puramente mentali dell'artista o del committente cancellano
l’armonica semplicità, allora gli edifici cambiano; essi possono meravigliare,
stupire per la preziosità e l'elaborazione dei particolari, ma non suscitano
più, credo, un senso di quieta armonia. Il senso delle giuste proporzioni e
della semplicità architettonica va perduto, credo, con il barocco. Si noti
l'esempio della stessa meravigliosa cattedrale siracusana di cui parlavo: in
tempi storici più recenti la sua sobria ed elegante facciata romanica è stata
mascherata da mera artificiosità barocca, che si ripresenta nelle innumerevoli
chiese barocche esistenti nel territorio.
Ma i committenti e gli artisti del barocco
erano pur sempre limitati dalla tecnica del loro tempo. E questo non succede
più. Adesso qualsiasi cosa concepita dalla mente di un architetto, anche la più
orribile, può essere realizzata grazie alle recenti tecniche di lavorazione
dell'acciaio, del vetro, della plastica, e dei cementi. Se fino a pochi decenni
or sono le case in pietra di una città non potevano essere troppo grandi e
quindi erano spesso semplici e di modesto impatto ambientale, adesso molte
città sono profondamente oltraggiate e abbruttite da palazzi in cemento armato
alti e orribili. Soprattutto le periferie delle nostre città italiane sono
esteticamente e realisticamente invivibili. Gli edifici non hanno più una proporzione
umana, sono privi di armonia. Ma, ovviamente, la colpa non è del cemento o
della tecnica in sé ma nell’uso che se ne fa.
Dicevo già che non è questa la sede per
definire il concetto di bellezza. Tuttavia, le impressioni che riceviamo da una
passeggiata tra le vie del centro di una bella città medievale sono del tutto
diverse da quello che riceviamo passeggiando tra le vie di una città moderna.
Mi viene in mente l'esempio di un'altra città siciliana, Messina. Questa città
è stata infatti totalmente e malamente ricostruita dopo il terremoto del 1908. È
ovvio, e non occorre essere professori di estetica per capire che il principale
criterio di costruzione è stato quello di far soldi. Edifici bellissimi
sopravvissuti al terremoto, ma anche alcuni altri immediatamente susseguenti,
spesso di notevole fattura, furono distrutti dai nuovi costruttori. Se confrontiamo
le immagini antiche di Messina e la realtà odierna, la differenza è veramente
strabiliante.
Le concezioni estetiche orribili dovevano
forse esistere anche in passato nelle menti dell'uomo ma a causa del modesto
grado di sviluppo della loro tecnica non potevano essere realizzate.
L’approccio
politico-sociale e la necessaria correlazione umana e ambientale
La realizzazione della nostra umanità, le
nostre scelte, e quindi la nostra ricerca di felicità, devono prescindere dalle
idee e dai valori stereotipi proposti e sostenuti attraverso i mass media dalle
élite della ricchezza finanziaria e del potere politico ed economico. È
irrealistico se non ingenuo credere che un mondo migliore, e quindi umano e
solidale, possa basarsi sulle loro politiche e sui loro valori. Sin dagli albori
della storia, i ricchi hanno perseguito i loro interessi, ignorando o
sfruttando i poveri. Invece, qualsiasi possibile mutamento, e nuove iniziative
politiche e sociali, devono necessariamente scaturire da una nostra sopraggiunta
conoscenza e attuazione di valori umani. C’è bisogno, quindi, di cominciare da
noi stessi. Noi stessi siamo il mondo, ne incarniamo i valori, gli
atteggiamenti, le sue eredità culturali e psicologiche, le direzioni verso cui
si muove; siamo in necessaria interdipendenza e in rapporto gli uni con gli
altri, e il reale mutamento che avviene nella vita di un uomo avviene nel mondo,
e non solo in lui.
Prima di ogni cosa, deve mancare la nostra
adesione al valore del denaro. Accendiamo il televisore e subito si mostrano
gli idoli adorati dai ricchi e dai potenti; idoli basati sul culto della mera
esteriorità cui si lega l’importanza dello status e del prestigio, del lusso,
l’appartenenza a contesti esclusivi ai quali si accede per censo. E da ciò
segue che tutti coloro che, pur condividendo i valori dei ricchi, non riescono
ad attuarli, gli esclusi dalla ricchezza materiale e dal mondo del lavoro super
pagato, sono considerati alla stregua di falliti e di rifiuti.
Si tratta, però, di un sistema di valori
che sostengono un sistema politico e sociale disumano, ove l’importanza di ogni
uomo è subordinata ai suoi soldi e al suo potere. E finché noi pensiamo secondo
paradigmi disumani, qualsiasi azione politica, qualsiasi governo o regime, non
ci porterà vero benessere. Alla politica e al potere di chi si cura solo di sé
stesso e del suo gruppo, deve subentrare il governo di esseri umani scelti da
esseri umani, tutti insieme consapevoli di essere in necessaria correlazione.
All’interno di tale condizione, il benessere del singolo individuo si rapporta
alla situazione del suo ambiente umano e naturale. All’ambiente in senso lato,
quindi, dobbiamo porre grande attenzione; e ciò significa prendersi cura l’uno
dell’altro e, anche, necessariamente, della natura all’interno della quale viviamo,
anzi, con la quale viviamo in necessaria simbiosi. Mentre salvaguardiamo l’aria,
l’acqua, le foreste, la natura, promuoviamo la nostra vita e il nostro vero
interesse. Nello stesso tempo, mentre ci prendiamo cura l’uno dell’altro, costruiamo
il nostro stesso benessere, che non può e non deve esistere in situazioni di
ingiustizia e di sofferenza. Questa nostra intima correlazione umana e
ambientale è regolata da leggi universali. In tutto il mondo le offese alla
dignità umana e le opposizioni alla ricerca di felicità creano generale disarmonia.
Nello stesso tempo, la natura reagisce violentemente quando non è rispettata e
salvaguardata. Credo che la consapevolezza della necessaria correlazione
universale deve essere prioritaria in ogni azione di un buon governo umano.
Inoltre, un buon governo deve essere libero soprattutto
dall’influenza dei grandi gruppi finanziari. Infatti, non credo sia possibile
alcun progresso e diffuso benessere sociale se al grande potere del denaro non
possa essere contrapposto quello della comunità e dello stato. E non è neanche
possibile l’esistenza di uno stato sovrano che non ha la facoltà di stampar
moneta, come nel caso di una nazione come l’Italia, le cui scelte politiche ed
economiche sono regolate o dettate dal mercato. Quando osserviamo il mondo, e
anche la nostra società, notiamo per prima cosa la povertà di molti e nello
stesso tempo il lusso di pochi. Certo, è ben giusto che una persona che ha
studiato, che ha lavorato con intelligenza e disciplina per acquisire una certa
e valida formazione professionale sia ben remunerata, ma il suo reddito non
dovrebbe comunque risultare esorbitante rispetto a chi compie un lavoro più
umile. E quindi un buon governo deve essere in grado di legiferare contro le
grandi diseguaglianze, eliminando la mercificazione dei rapporti, promuovendo, sin
dall’educazione nelle scuole primarie, la cultura della solidarietà, e pur
anche l’esperienza degli scambi fondati sul dono. Occorre anche una politica di
redistribuzione e di riduzione del lavoro, (adesso peraltro in gran parte
compiuto o facilitato dalle macchine) a favore dell’aumento del tempo dedicato
all’educazione, all’arte, alla ricerca, alla cura del paesaggio, alle
dimensioni veramente umane della vita. La grande produzione di beni, con la
concomitante grande organizzazione della distribuzione, deve essere
progressivamente ridotta e sostituita dalla produzione e distribuzione di beni
e servizi all’interno di comunità ecologiche il più possibile autosufficienti,
e quindi senza un grande consumo di carburante per i trasporti, con diminuzione
dell’inquinamento ambientale. Estesi terreni agricoli non coltivati dai
proprietari devono essere espropriati o resi disponibili a disoccupati che
volessero trasferirsi in campagna e lavorare la terra. L’economia deve essere
sostenuta non con la costruzione di opere faraoniche gestite dalle multinazionali,
ma con sussidi all’artigianato e alle piccole aziende, con incentivi per la
creazione di autosufficienze energetiche, la coibentazione delle abitazioni,
con l’espansione e la cura del verde nelle città, il potenziamento del
trasporto pubblico, eccetera. Ma intanto, ancor prima di eleggere dei
governanti onesti e saggi, dobbiamo e possiamo cominciare da noi stessi. È
forse proprio vero che un popolo ha il governo che si merita, e un popolo di
persone mature e consapevoli non accetterà mai un governo di politici corrotti,
narcisisti, che fanno gli interessi propri e dei ricchi. Possiamo quindi eleggere
buoni politici solo quando noi stessi siamo i primi a riconoscere e realizzare
nuove congrue e più umane visioni del mondo.
Dobbiamo pensare insieme, quindi, a
proposte concrete di vita semplice che possono essere adottate individualmente
e in collaborazione, e anche ulteriormente elaborate, approfondite, sviluppate
secondo le necessità, le predisposizioni e le condizioni particolari. Ma è importante,
io credo, che ogni scelta di vita semplice debba valutare gli uomini e la vita
di per sé, e non in base a fattori meramente economici e finanziari. Infatti,
come vado argomentando in questo libro, il nostro benessere reale è poca cosa
se misurato con il metro dei soldi, della produzione e del consumo. La
realizzazione della nostra umanità è impresa ben più grande.
L’aumento del Pil
non apporta più benessere
La grande importanza data dai media al
profitto inteso come finalità ultima, e quindi al Pil, fa parte, insieme ad
altri fattori, dell’approccio esistenziale delle élite dominanti. In realtà,
però, il Pil non è indice di benessere ma denota solo la quantità delle cose
prodotte e vendute. Tali cose non sono necessariamente beni; sono, invece,
semplicemente merci, che possono anche essere inutili o dannose. D’altra parte,
un bene prodotto e non venduto, ma goduto privatamente o regalato, come per
esempio un’opera d’arte o il prodotto dell’orto, un rapporto conviviale,
eccetera, non incrementa il Pil, ma incrementa il benessere. Si immagini, per
esempio, un villaggio o un gruppo che sopravvive producendo e consumando in
proprio beni che non sono venduti. In questo caso i prodotti e i beni non sono
merci, e quindi non rientrano nel calcolo del Pil, ma sono goduti come oggetti
di vero benessere. Invece, un cittadino che va a lavorare in macchina, fa acquisti
nei centri commerciali, consuma cibo prodotto industrialmente e proveniente da
luoghi lontani, compra medicine contro lo stress, eccetera, ben contribuisce
all’aumento del Pil, ma non è necessariamente più felice di un uomo a basso
contributo di Pil che vive in campagna, si sposta a piedi o in bici, consuma i
prodotti locali e i frutti dell’orto.
L’odierna adorazione del Pil è senza
dubbio deleterio. Gli uomini sono diventati fondamentalmente produttori di
merci, che devono essere consumate sempre in maggior quantità, affinché il Pil
e l’occupazione cresca; e nello stesso tempo cresce la quantità dei beni
dismessi, cioè la spazzatura.
L’assurdità dell’adorazione del Pil viene
efficacemente mostrata nelle parole di Maurizio Pallante: “Se vai in
automobile da casa al lavoro consumi una certa quantità della merce carburante.
Quindi fai crescere il Pil. Se lungo il tragitto trovi code e intasamenti, ci
metti più tempo, ti stressi di più, ma consumi più carburante, quindi fai
crescere di più il Pil. Se credi che il Pil (Prodotto interno lordo) misuri il
benessere non puoi arrabbiarti. Devi essere contento, perché stai contribuendo
ad accrescere il benessere collettivo, e di riflesso, anche il tuo. Quando sei
in coda devi sorridere. Se a causa dello stress ti distrai e hai un incidente,
il costo di riparazione delle macchine incidentate lo farà crescere ancora di
più. Per toccare il cielo con un dito occorre che come conseguenza
dell’incidente ti portino in ospedale, perché i costi del ricovero e delle cure
comportano un’ulteriore impennata del Pil”.
E quindi, sempre secondo M. Pallante: “La ricchezza di un paese
non si può misurare con il Pil, che è un indicatore monetario e
che in quanto tale può quantificare solo le merci, gli oggetti e i servizi
scambiati con denaro. Siamo convinti che, al contrario, la ricchezza di un
paese consista nei beni che vengono prodotti e nei servizi che vengono forniti,
ma non
dovremmo più confondere il concetto di merce con quello di bene. Quindi dovremo anche cambiare il misuratore
della ricchezza nazionale e rincorrere una decrescita, vale a dire
una riduzione
volontaria della produzione di alcuni tipi di merci che si ritengono inutili o
dannose” (M. Pallante, 2009:21)
Il mito della
crescita
Un’altro dei valori molto presenti nei mass
media e generalmente condivisi è quello che riguarda la crescita dell’economia.
Ma qualsiasi organismo vivente non può crescere all’infinito. Arriva il momento,
prima o poi, in cui la crescita diventa molto lenta o diminuisce del tutto. Non
è possibile continuare a produrre merci che risultano inutili o in eccesso, né
continuare a costruire strade, ferrovie, porti, e opere faraoniche che
promuovono la crescita economica ma non creano nuovi posti di lavoro. In realtà,
lo sviluppo della tecnica richiede sempre meno mano d’opera. Occorre quindi,
nella ricerca del lavoro e del benessere, non commettere l’errore di sostenere
le politiche che richiedono grandi investimenti per la costruzione di grandi
opere che sconvolgono l’ambiente.
Alla fede nella crescita ad ogni costo
occorre sostituire l’idea della manutenzione, della sostenibilità e della redistribuzione
del lavoro. Soprattutto nelle società occidentali ricche, non bisogna lavorare
di più, ma lavorare tutti e di meno. E nello stesso tempo occorre eliminare le
eccessive differenze di reddito. Non deve essere più moralmente e politicamente
accettabile che un direttore esecutivo di una qualsivoglia ditta guadagni 140
volte più di un operario o di un impiegato, e conservi in banca i soldi che non
riesce a spendere, forse anche speculando in borsa, mentre i disoccupati e i
poveri salariati stentano a far quadrare i conti. La redistribuzione del lavoro
e della ricchezza deve avvenire anche tra i popoli e le nazioni. Non deve
essere accettata la presente realtà in cui i popoli occidentali soffrono di
sovralimentazione, e quelli poveri sono denutriti. Secondo i
dati pubblicati dalla Fao,
(2012) nel mondo le persone denutrite
sono 925 milioni, e 36 milioni sono i decessi all’anno (di cui 5,6 milioni di
bambini) dovuti a carenza di cibo e malnutrizione. E nello stesso tempo, in
Occidente 1,3 miliardi di persone sono sovrappeso o obesi (dei quali 155
milioni di bambini) e 17,5 milioni soffrono per malattie cardiovascolari,
3,8 milioni per diabete cioè, in pratica, soffrono a causa della sovralimentazione.
Anche nel campo della produzione di cibo non occorre che avvenga una crescita
ma una redistribuzione. Infatti, “il sistema produttivo mondiale è in grado di
fornire 2800 calorie medie giornaliere per ciascun abitante del pianeta, a
fronte di un fabbisogno reale di 2550 calorie. Se a questo si aggiunge che
ancora oggi il 30% della produzione mondiale di alimenti viene distrutta o
sprecata nei processi di conservazione, trasformazione, distribuzione e consumo,
risulta chiaro come, con una miglior gestione delle filiera produttiva, avremmo cibo sufficienti per tutti. E questo
anche nell’ipotesi di una crescita della popolazione a 9 miliardi di abitanti
entro il 2050” (C. Mazzini, Il Fatto, 4-6-2012).
La ricchezza reale
Il potere dei grandi gruppi finanziari è
basato sulla nostra comune credenza che ciò che essi sanno ben gestire, il
denaro, sia un valore grande di per sé. Ma se smettiamo di credere in questo,
se scopriamo il valore della nostra vera ricchezza, umana, culturale,
spirituale e materiale, diminuisce o cessa il ruolo dei finanzieri.
Occorre tenere a mente che i soldi sono
carta colorata che ha valore solo perché le persone credono ne abbia. In altre
parole, i soldi necessari per gli scambi di merci e servizi, sono promesse e
titoli di fiducia. Infatti, chi produce beni concreti, un artigiano, per
esempio, li cede a qualcuno in cambio di alcuni foglietti di carta colorata, ma
se tutto finisse lì farebbe un pessimo affare. Succede invece che può dare
alcuni di questi foglietti alla cassiera del supermercato ottenendo in cambio
cibo e cose utili. Tutto questo è ovvio, ma durante queste transazioni si tende
a dimenticare che la vera ricchezza consiste nel bene prodotto, venduto e acquistato,
e non nella carta colorata, che indica il valore di scambio degli oggetti. Se
venisse a mancare la fiducia che tutti hanno nella carta colorata, questa non
avrebbe più valore, come succede in momenti di crisi economica e di
svalutazione della moneta. In questo caso un chilo di patate vale molto di più
di un chilo di banconote. Ma anche in tempi normali, i beni reali e i servizi
utili, e chi li produce, sono e devono essere più importanti delle carte
colorate e di chi le stampa e le gestisce.
In fin dei conti il valore dato ai soldi in
se stessi si basa su una credenza magica, perché, infatti, per effetto di uno
strano incantesimo, pezzi di carta colorata sono valutati e amati più dei beni
reali.
Non creder più in questa magia significa,
quindi, rapportarsi con la ricchezza vera, quale essa sia: case, terreni,
alberi, orti, utensili, lavoro, solidarietà, eccetera. Occorre quindi ridurre
la liquidità nella misura che serve agli scambi necessari, e fondare la propria
sicurezza materiale sui beni concreti e sul valore dei rapporti umani
collaborativi e solidali. Ricordiamo, quindi, che più soldi depositiamo nelle
banche più diamo loro potere.
La fiducia nei soldi e nelle banche alle
quali i soldi si affidano corrisponde in pratica ad una mancanza di solidarietà
sociale e alla cessione della propria fiducia nelle mani di chi la gestisce al posto
del fiduciario. Le grandi banche e i gestori di fondi a loro volta speculano
con i nostri soldi, o li usano anche per influenzare o determinare la politica
degli stati attraverso operazioni complesse e talvolta poco chiare; si pensi
per esempio all’ultima bolla dei derivati e al danno procurato all’economia reale.
Si tratta, in questo caso, di una grande anomalia e ingiustizia perché il
lavoro speculativo di coloro che gestiscono soldi e titoli diventa più importante
del lavoro produttivo.
Occorre quindi che vi sia una
riappropriazione della fiducia e quindi del potere fin qui riposto nelle mani
dei banchieri. In pratica, occorre da una parte, non comprare oggetti a credito,
perché in questo modo ci si mette alla mercé delle banche creditrici; e,
d’altra parte, chi ha soldi depositati in banca farebbe bene a riprenderli e
ritrasformarli in ricchezza reale, quale può essere un bene o un servizio concreto.
Chi possiede già tanta ricchezza reale e non sa cosa fare con i soldi superflui
depositati in banca, dovrebbe riprenderli e darli ai poveri, affinché essi
possano scambiarli con i beni reali di cui hanno bisogno, e tale nobile azione
dovrebbe essere incentivata da giuste politiche statali di redistribuzione del
reddito. I soldi devono essere considerati, quindi, come puro mezzo di scambio,
e non come valore in sé, e se ne dovrebbe conservare in proprio una quantità
minima, quanto basta per gli scambi di merci e servizi o per le emergenze.
L’eccedenza si restituisce ai poveri e allo stato che la deve usare per opere
di benessere sociale. In questo caso si limita o si annulla il potere delle
grandi banche e dei gruppi finanziari speculatori. Non v’è giusto motivo per il
quale i membri di tali gruppi debbano godere di beni reali che non producono ed
essere anche supportati dalla fiducia di chi lavora onestamente. Potrebbero
trovare altri mezzi socialmente equi di sostentamento e di benessere.
Rischiare, via
dalla logica di mercato
Una
vita semplice, seguendo la propria vocazione, potrebbe ben attuarsi fuori dalla
legge di mercato e del lavoro sottopagato. La mancanza di una grande riserva di
soldi non deve impedire agli uomini di realizzarsi, essere autentici e vivere in armonia con se stessi e
il mondo. Occorre, invece, che siano ricchi di idee, di entusiasmo, di fiducia,
di passione per la verità, di collaborazione e solidarietà.
Il mondo è pieno di anziani che da giovani
erano pieni di entusiasmo, appassionati di verità e di umanità, e che nel corso
degli anni hanno accettato le regole del mondo reale privo di giustizia, le regole
del conformismo. Alcuni di essi sono anche diventati ricchi, e forse nello
stesso tempo hanno impoverito la loro anima, hanno tradito la loro essenza. È
vero che quando si è molto giovani certe visioni della vita e del mondo possono
essere fantastiche, ma diventare adulti e mettere da parte certe utopie della
giovinezza e vedere il mondo così com’è non significa accettare le
sperequazioni, le ingiustizie, i compromessi. L’uomo è un animale socievole che
sopravvive in mezzo ai suoi simili adattandosi, e l’adattamento, l’essere e il
pensare come gli altri membri del gruppo lo rende accetto e gli apporta
sicurezza materiale e psicologica. D’altra parte, in un mondo come il nostro,
l’adattamento al gruppo non è sempre foriero di sanità psicologica e di giustizia.
Occorre rischiare, non aver paura di essere e pensare fuori dai ranghi e dagli
stereotipi, anche se, così facendo, si va incontro a una certa insicurezza, anche
economica. Le persone che pensano, che quindi dubitano, che cercano, sono privi
della sicurezza data dalla condivisione delle idee del gruppo di appartenenza. E
di converso, chi è ben integrato in un gruppo, quale esso sia, si può sentire
più sicuro a scapito della sua indipendenza di pensiero. Il rischio fa parte della
vita, tanto più di una vita vissuta ricercando e seguendo la propria integrità
e la propria vocazione.
Bisogno e desiderio
Un particolare desiderio può essere
l’espressione di un bisogno sostanziale e vitale oppure di un bisogno indotto o
artificiale.
I bisogni umani veramente fondamentali e
vitali sono pochi e semplici. Si ha bisogno di cibo, di acqua, di un rifugio,
di vestiti, di sonno, di amore e di rapporti significativi, di dialogo, di
un’attività soddisfacente.
I bisogni indotti o artificiali sono,
invece, un’elaborazione o complicazione psichica dei bisogni fondamentali. Per
esempio, il semplice bisogno di ripararsi dal freddo, che può essere
soddisfatto indossando un maglione, può essere complicato dal desiderio di
possedere un maglione firmato e costoso. Nel tentativo di soddisfare i bisogni
essenziali entrano quindi in gioco complessi fattori culturali, personali e
psicologici che, a ben vedere, complicano la vita. Attraverso il possesso e
l’ostentazione di un capo firmato si vuole mostrare il proprio status, il
proprio “valore”, o si tenta di compensare un’insicurezza interiore, oppure si
segue il dettato della pubblicità, o tutte queste cose e altre messe insieme. I
desideri che esprimono bisogni artificiali o indotti sono infiniti e la loro
soddisfazione non procura duraturo e profondo benessere. Un capo firmato non
basta e occorre acquistare quello dell’ultima moda; l’automobile che funziona
non va più bene se i nostri amici ne possiedono una più grande, bella e
potente. La pubblicità, il conformismo, il desiderio di essere alla pari con
gli altri, suscitano innumerevoli desideri di cose intrinsecamente inutili, che
vengono presto abbandonate o sostituite da altre cose. Tutto ciò costituisce
uno spreco di risorse umani e naturali.
Inoltre, purtroppo, gli oggetti posseduti
danno valore e talvolta essenzialmente formano l’identità di chi li possiede.
Ma si tratta di un’identità superficiale che si lega a tante cose esterne più o
meno inutili, cioè alla soddisfazione di bisogni indotti.
L’ozio creativo
Nella nostra società è considerato
importante il lavoro che dà un reddito, e non importa se ha un senso, se gratifica
o se invece serve per costruire armi, sostanze inquinanti, oggetti dannosi o
inutili ed effimeri. Molti uomini sono spesso anche iperattivi, desiderando
guadagnare soldi con i quali acquistare sempre più oggetti.
L'ozio, invece, inteso però come lo
intendevano gli antichi romani, cioè come libero e buon uso del proprio tempo,
può inglobare in sé un'attività ricca, gratificante e necessaria. In una
società tesa all'occupazione, all'aumento della produzione, ai soldi più che
alla felicità e all’autorealizzazione, la stessa sana idea dell'ozio a tempo
pieno sembra inaccettabile. Ma il tempo libero dell’ozio offre grandi vantaggi
esistenziali. Chi vive nell’ozio non prende parte in tutto ciò che viene
definito come il male del mondo; non inquina, non stressa, non lotta e non
compete, non ricerca il potere e non è soggetto a quel potere che si esercita
prevalentemente all'interno del mondo del lavoro e della produzione. Inoltre,
ha molto più tempo libero proprio perché non desidera il possesso di beni
inutili e non è quindi intento a lavorare per procurarseli; ha il poco necessario
di che vivere e se ne accontenta, non è soggetto al potere delle cose superflue.
Il tempo libero dell’ozio, quindi, lungi dall'essere un difetto, costituisce, invece,
la nobiltà del carattere di chi non ha la necessità di lavorare principalmente
per soddisfare bisogni impropri ed inessenziali. Qualsiasi attività del tempo
libero dell’ozio, per quanto umile, può essere gratificante per chi ad essa si
dedica senza fretta e con attento coinvolgimento. Chi valuta il proprio tempo
si dedica solo al lavoro necessario che soddisfa i bisogni strettamente essenziali,
sia quelli materiali sia quelli spirituali e psicologici. Il lavoro è per lui,
quindi, non solo un mezzo per ottenere certi scopi, ma anche ciò che conferisce
maggior senso alla sua libertà. Chi promuove il proprio ozio sa stare con sé
stesso e con il suo senso inerente. L'attività creativa dell'ozioso fa passare
le cose dal non essere all'essere e, di contrario, il lavoro inutile,
alienante, dannoso, fa passare il lavoratore dall'essere al non essere. L'ozio
ristabilisce l'equilibrio e restituisce l'essere all'uomo. Infatti l'ozio,
inteso, come dicevo, nel senso che gli davano gli antichi romani, include in sé
ogni attività creativa, piacevole, veramente necessaria.
Senza automobile
Ho la
patente ma ho rottamato la mia vecchia auto. Una parte delle mie entrate andava
in fumo attraverso il suo tubo di scappamento, senza contare le spese di assicurazione
e manutenzione. Dopo la rottamazione ho usato molto i mezzi pubblici, anche
viaggiando in lungo e in largo per la Sicilia e visitando paesini sperduti tra
le montagne ma raggiunti dalle corriere. Ho così avuto modo di incontrare e
intrattenermi con altri viaggiatori, cioè con le persone reali che non avrei
incontrato viaggiando chiuso dentro una mia personale protesi locomotoria. E
poi, abitando in città, si può fare a meno si un’automobile e si risparmia
facendo uso del taxi, dei mezzi pubblici, o affittando un'auto quando se ne ha
veramente bisogno.
La costruzione di un’automobile implica
molto uso di risorse naturali, consumi energetici non solo per l’assemblaggio
ma anche per il trasporto di materiali da un continente all’altro, lavoro
spesso noioso, alienante e mal retribuito.
Inoltre, se proprio non si può fare a meno
dell’auto, perché si vive in campagna, o per altri fondamentali motivi, se ne
usi una di piccola cilindrata. Infatti, il voler possedere un’automobile grande
e potente può indicare qualche serio problema di identità e di autostima: si ha
i bisogno di mostrare fuori ciò che non si ha dentro.
Immagino città future nelle cui piazze
siano parcheggiate auto elettriche o solari che i cittadini possono prendere in
affitto nei momenti di effettivo bisogno: si potrebbe inserire una carta
prepagata al posto della chiave, e via.
Gli acquisti
inutili e velleitari di abbigliamento
Vogliamo
godere di una vita ricca, abbiente, il che ci ha orientati ad assumere come
principale indicatore l’acquisto, lo shopping. Pare che tutte le strade che portano
alla felicità portino ai negozi.
Z. Bauman
In un
mercatino ho recentemente acquistato per cinque euro un pantalone di ottima
fattura, e una camicia nuova per un euro. Poi, camminando per le vie del centro
ho visto esposto in una vetrina un pantalone al pezzo di 330 euro. Rimasi
sconcertato. Chi avrebbe acquistato questo capo di abbigliamento? Le
motivazioni potevano essere solo psicologiche e non logiche: forse il desiderio
di indossare un capo di valore e sentirsi quindi di valere di più. Ma quale
mente può concepire le cose in questo modo?
Oltre che comprare capi costosi, spesso se
ne comprano più del necessario. Il mio consiglio è quindi quello di acquistare
solo i capi di abbigliamento che sono effettivamente necessari, o quantomeno
non acquistarne in quantità maggiore di quella che effettivamente si usa. Non
buttare un vestito solo perché è fuori moda o si ha l’impulso di fare un nuovo
acquisto, ma riconoscere piuttosto le cause psicologiche di tale bisogno
indotto. Stress, noia, mancanza di affetto o di rapporti umani veri e sinceri,
possono indurre le persone a comprare il superfluo o, addirittura, a fare
acquisti compulsivi.
Gli oggetti non
necessari e il conformismo
Si spendono molti soldi per stare alla pari
con gli amici e conoscenti. Quasi tutte le persone che conosco hanno comprato
un telefonino ultramoderno e costoso, anche fino a 600 euro. Non le invidio ma
le stimo al pari di ragazzetti intenti a giocare con i loro giocattoli. E si
pensi che in Ruanda una famiglia spende 50 euro l’anno per l’affitto della sua
capanna. Da parte mia, con seicento euro preferisco comprare all’incirca trenta
litri di olio extra vergine di oliva più duecento chili di formaggio più 50 chili
di susine, oppure fare un lungo e piacevole viaggio. Quando uno è povero, si
rende meglio conto, io credo, del valore sostanziale delle cose, ma se ha molti
soldi li spende per sciocchezze.
Alcuni oggetti tecnologici sono dei
magnifici giocattoli ed è difficile resistere al loro fascino, ma il desiderio
di possedere oggetti inutili e costosi è anche espressione di conformismo.
Molti si sentono male se non possono spendere come le persone che sono per loro
un riferimento. Il conformismo denota in essenza una mancanza di chiara
autonoma direzione e di sicurezza interiore. Mi conformo se non sono sicuro
delle mie idee e delle mie azioni, se ho bisogno di approvazione, se il senso
della mia identità è privo di autonomia. Personalmente, non mi paragono a chi
fa sfoggio di oggetti tecnologici, come non mi paragono a un bimbo che gioca
con i suoi giocattoli. D’altra parte, l’uomo, in quanto animale sociale, è
forse naturalmente portato all’imitazione. I bambini imparano imitando gli
adulti. Il percorso verso il non conformismo è quindi difficile.
La mancanza di conformismo non significa, comunque,
avere in poco conto gli altri, le loro idee e il loro modo di agire. Ma è
possibile rapportarsi con il prossimo in modo intelligente e creativo senza
conformarsi. La mancanza di conformismo significa anche non desiderare tante
cose inutili solo per stare alla pari con gli altri. Ogni tanto è opportuno fare l’inventario di ciò che si possiede e
disfarsi delle cose inutili o che non hanno più un significato, o rinnovano
ricordi dolorosi. Tutti i vestiti non indossati e gli oggetti non usati per più
di un anno potrebbero essere in pratica inutili e ingombranti e possono essere regalati, oppure venduti, anche
in un improvvisato mercatino di strada, come si fa negli Usa.
Senza un televisore
Internet, la televisione e i mass media in
generale possono in un certo senso staccarci dalla realtà umana. Attraverso la
televisione e internet si evade spesso, infatti, in un universo di
immaginazione precostituita da altri. Osserviamo
le immagini dell’intero globo terrestre filmato da un satellite, e alla fine
non vediamo altro e oltre uno schermo a cristalli liquidi, e il mondo reale si
riduce a un’immagine virtuale: i poveri africani, le guerre, le alluvioni, i
terremoti, le conseguenti sofferenze, diventano parte, in fin dei conti, di un
grande turbinio di immagini che si susseguono lontane dalla visione ravvicinata
della realtà. Non per niente la stessa tele-visione è non altro che una visione
a distanza e non coinvolta. Qui siamo di fronte ad un fenomeno relativamente nuovo,
ma si pensi agli sviluppi che potrà avere nell’immediato futuro. Si pensi che
il bambino medio occidentale vive già nell’immaginazione virtuale precostituita
per lui, trascorrendo molte ore del giorno seduto davanti alla televisione, a
internet o alla play station, magari contemporaneamente rimpinzandosi di merendine, patatine e dolcetti.
Senza televisione si vive più sereni e
felici. Liberi dalla televisione, si guadagna molto tempo, che può essere
impiegato in azioni interessanti, creative, e nella convivialità. Inoltre,
possono essere usati in altro modo i soldi necessari per pagare il canone e
quelli che servono per comprare e ricomprare un modello con prestazioni e
misure superiori. Occorre considerare, inoltre, che la maggior parte dei programmi
televisivi sono veramente stupidi, violenti, diseducativi, a parte il fatto che
la televisione è uno dei mezzi principali attraverso cui le classi dominanti promuovono
e pubblicizzano i loro valori.
Le foreste e il
consumo di carne
Chi mangia molta carne dovrebbe essere consapevole,
credo, che i suoi reni sono sottoposti ad un gran lavoro di eliminazione
dell’acido urico e, nello stesso tempo, che un animale è vissuto in condizioni innaturali,
spesso con molta sofferenza, ed è quindi stato ammazzato e fatto a pezzi.
È noto, inoltre, che intere foreste
dell’America del Sud vengono tagliate per fare spazio ai pascoli, mentre molti
terreni agricoli, i cui prodotti potrebbero sfamare masse di uomini
sottonutriti, sono utilizzati nella coltivazione di cereali per il consumo bovino.
Eliminando o riducendo il consumo di carne si risparmia, si favorisce
l’ambiente e si fa bene alla salute.
Il nuovo non è
sempre un valore
Nuovi oggetti sono continuamente prodotti,
venduti, consumati. Ciò implica la continua sostituzione dei vecchi modelli.
Questo processo è dispendioso e non sempre necessario. Alcuni oggetti “vecchi”
sono più solidi e belli di quelli nuovi. Inoltre, molti oggetti nuovi sono
inutili. Si pensi inoltre al lavoro sottopagato, anche di minori, che sta
dietro a un moderno prodotto tecnologico.
Il coltan (abbreviazioni dei minerali
columbite e tantalite) è essenziale per lo sviluppo di nuove tecnologie per la
fabbricazione di cellulari, satelliti, televisori al plasma, macchine
fotografiche, computer, giocattoli elettronici. L’ottanta per cento del coltan
si trova in Congo dove viene estratto con il lavoro disumano di adulti e anche
di bambini alcuni dei quali muoiono nelle frane.
Viaggiare in treno
A meno che non si debba svolgere un lavoro caratterizzato
dalla necessità di rincorrere il tempo, si può abbandonare la schiavitù della
velocità e gustare la lentezza del viaggio in treni regionali. Si fanno
incontri interessanti, si ammira il paesaggio, si legge, si chiacchiera, o
semplicemente si sonnecchia. Inoltre, i treni regionali sono più spaziosi e
meno costosi, e i soldi risparmiati possono essere usati per pagare una camera
nella notte di riposo tra un treno e l’altro. Soprattutto nel nord Europa, si risparmia
molto viaggiando in treni regionali e comprando il biglietto con diversi giorni
di anticipo.
Ospitalità e vacanze-lavoro
Ho trascorso diverse settimane in Germania,
in riva al fiume Meno, in una caratteristica casetta di legno posta dentro un
giardino di meli. Mi hanno prestato una bici e ho trascorso molto tempo percorrendo
le numerose e ben tenute vie ciclabili tedesche e attraversando pittoreschi
villaggi. A chi mi ospitava ho dato in cambio il mio appartamento di città. Ho
anche trascorso ottimi periodi di relax in monasteri europei ove sono stato ospitato
con poca spesa, o in cambio di poche ore giornaliere di giardinaggio. Continuo
così le mie vacanze spendendo poco.
Semplicità nel
matrimonio
Il matrimonio non è, in realtà, la
vocazione naturale di tutti gli uomini e di tutte le donne. Alcuni si sposano
per motivi validi e consapevolmente, altri prendono moglie o marito per
un’infatuazione che dopo poco tempo si trasforma in incomprensione o in
divorzio, oppure si sposano per conformismo, per paura di rimanere soli, per
debolezza o per altri motivi.
Alle donne in generale non darei consigli
sul matrimonio poiché su questa questione esse hanno una marcia in più, ma a un
uomo consiglierei, se non può optare per il celibato, di scegliere una compagna
che apprezza le cose essenziali, comprende il significato effimero dei desideri
indotti diversamente da una donna che per sue insicurezze e sintomatologie,
spende un sacco di soldi per vestiti, monili, oggetti vari, eccetera. Non è
sempre vero, ovviamente, che le donne siano più inclini a spendere soldi,
soprattutto se guadagnati dal marito; d’altra parte, se hai un sacco di soldi,
trovi molto facilmente una donna che si “innamora” di te. Ma stai attento. Se
conduci una vita semplice, e una donna ti vuole bene, puoi star certo che apprezza
te e non i tuoi soldi. Con una donna che è tanto intelligente e saggia da
valutare e perseguire le cose importanti dell’esistenza, condurrai una vita più
significativa e serena di quella che puoi condurre con un donna frivola che non
si sente sé stessa se non spende continuamente. Se entrambi avete le stesse
idee e gli stessi approcci verso un’esistenza semplice, potrete meglio educare
i vostri figli e inculcare loro sani principi.
La casa in campagna
Non è sempre agevole lasciare la propria
casa e trasferirsi altrove, ma un trasloco può risultare più facile per chi è meno legato all’ambiente della città.
Il costo della vita è minore in campagna e l’atmosfera naturale fa bene alla
salute. Certo, occorre rinunciare alle distrazioni offerte della città, al
sogno ad occhi aperti dinanzi a vetrine che mostrano prodotti costosi e
generalmente inutili, e occorre anche riprendere il contatto con se stessi, non
aver timore della mancanza di rumori. Ma il contatto profondo con la natura
ripaga.
Quando si ricerca la felicità, occorre
tener conto dell’ambiente della nostra terra, che è un insieme intercorrelato e
interdipendente. L’ambiente naturale in cui viviamo è anche quello che ci
genera e ci nutre, è quello con il quale viviamo in un rapporto essenziale e
profondo. Staccati dalla natura e immersi in un ambiente artificiale e
tecnologico, dimentichiamo troppo facilmente l’importanza fondamentale della
terra, dei fiumi, delle foreste.
L’esistenza del pianeta terra e degli esseri viventi, è legata a quella
del sole e delle stelle. Non siamo staccati dall’Universo, né da tutto ciò che
ci circonda, e tutto è correlato. Ogni cosa, ogni azione, seppur piccola, è
parte di un insieme globale. Ma molto spesso, dimentichiamo questa semplice ed
evidente verità e agiamo in un settore particolare senza la consapevolezza e la
conoscenza delle ripercussioni che la nostra azione può avere sull’insieme. E
tuttavia, non possiamo continuare troppo più a lungo a vivere come se fossimo i
padroni di una natura della quale abusiamo.
D’altra parte, la natura stessa può
renderci felici, e più ci comportiamo in armonia con essa, più lo siamo. Questo
è anche il motivo per cui le persone che hanno disordinati ritmi di vita, che
mangiano troppi grassi e che vivono in ambienti chiusi, innaturali, totalmente
artificiali, circondati da macchine, automobili, infiniti e costosi gadget
tecnologici, e che sono troppo stressati e non si rilassano, non possono essere
molto felici. Potrebbero cambiare vita, semplificarla, trasferirsi in campagna.
Vita in comunità
La scorsa estate ho visitato in Germania un
luogo singolare: un antico castello con annesso terreno, acquistato da alcune
famiglie che condividono la loro vita. Il luogo è ameno, inserito in un bel paesaggio
e circondato da foreste. Le persone coltivano insieme un grande orto, si dedicano
ai lavori di manutenzione del sito, collaborano in diversi modi e condividono
anche una grande cucina, con dei turni per la preparazione dei pasti. La
collaborazione permette ai singoli individui di avere più tempo libero e molti
beni sono condivisi e non acquistati da ognuno singolarmente. Non solo dal
punto di vista del risparmio, ma anche sotto l’aspetto del dialogo e della
crescita personale, la vita comunitaria e la convivialità sono forse da
preferire alla vita isolata in un piccolo appartamento di una grande città. In
un ambiente cittadino ove vige la competizione, gli individui sono più
stressati. È molto probabile, invece, che la collaborazione e la convivialità
che si possono ricercare e stabilire in una vita comunitaria favoriscano il
benessere psichico e fisico.
Produzione e
consumo nello stesso territorio
Le
autostrade, gli aerei, le auto, i treni superveloci, sono una risposta
complessa alla semplice necessità di viaggiare e di trasportare beni da un
luogo all'altro. Si perforano montagne e si costruiscono linee ferroviarie per
treni super veloci non perché siano effettivamente necessari ma per il puro
profitto, per seguire l’ideale della continua crescita del PIL. Inoltre,
l'innovazione tecnologica in sé crea il suo bisogno. Paradossalmente, le nuove
linee ferroviarie superveloci e le grandi autostrade creano la possibilità e la
necessità del trasporto e del commercio, e non viceversa. Allo stesso modo in
cui l'introduzione dell'automobile crea la necessità di possederla e usarla,
l'accresciuta possibilità di trasporto delle merci aumenta la richiesta del
loro trasporto, anche quando non è necessario; si fanno venire da terre lontane
molte delle cose che prima erano trovate o prodotte in loco. In Inghilterra,
ove crescono forse le migliori e più gustose mele del mondo, si acquistano mele
che provengono dalla Nuova Zelanda. Grandi autotreni carichi della stessa roba
viaggino per direzioni opposte. Polli allevati in Inghilterra vengono
trasportati al sud della Francia e polli allevati in Francia sono venduti a
Londra. Container colmi di utensili di dubbia qualità viaggiano per mare dalla
Cina in Europa. Tutto questo si chiama progresso ma è solo desiderio di
profitto, spreco e complessità.
Ricchezza sociale e
individuale
Come ho già argomentato, la ricerca della
felicità implica la valorizzazione della vita semplice intesa non come mancanza
ma come esistenza libera dai bisogni indotti, una vita ove sono invece appagati
i bisogni essenziali e naturali come quello di nutrirsi, possedere una casa, vestiti,
vivere in un ambiente sociale solidale, avere buoni e profondi rapporti umani e
con la natura, svolgere un lavoro utile e interessante. Occorre quindi considerare
che gli individui che conducono una vita semplice, e sono in questo senso
“poveri”, possono ben creare e far parte di una società ricca. Ciò significa
che la positiva povertà individuale può esistere insieme alla ricchezza sociale
ed esserne espressione; può cioè unirsi alla ricchezza dell'ambiente naturale e
dei rapporti, all’istruzione, alla cultura, all’arte, alla scienza. Anche
diverse conoscenze scientifiche e umane e diversi aspetti dell’educazione
possono essere tramandati e acquisiti liberamente. Non occorrono molti soldi
per condividere conoscenze e talenti, per dialogare, persino per fare musica,
teatro. Soprattutto il benessere che nasce da rapporti significativi e solidali
non è e non deve essere legato ai soldi. Un paese ricco, nel senso più profondo
del termine, non è, insomma, un paese fatto di gente piena di soldi. Infatti,
non è solo in base al reddito che i singoli individui possono definirsi ricchi
o poveri, ma per le loro capacità umane, riconosciute e coltivate, come anche
in base ad un nucleo di diritti fondamentali, tra cui la libertà e la
possibilità di scelte. In realtà la povertà individuale può ben caratterizzare
una società ricca e solidale.
Inoltre, gli abitanti poveri di una società
ricca non devono spendere soldi per godere dei beni che sono in origine
naturalmente liberi e disponibili per tutti, come la natura incontaminata,
l'acqua, l'aria respirabile, ed anche alcuni prodotti coltivati o spontanei
della terra. Altri beni possono esser condivisi e non appartenere esclusivamente
a individui singoli: computer, auto, case per le vacanze, bici, biblioteche,
palestre giardini, cucine sociali, eccetera.
Anche l’energia non dipendente da costose importazioni
di petrolio, e quindi eolica e solare, potrebbe essere venduta a buon mercato
una volta ammortizzati i costi di impianto. “Paradossalmente”, quindi, un
ambiente di individui "poveri" può essere il segno di una ricchezza
ambientale e umana. Si tratta di un ambiente ove anche si riflette bene
sull’uso delle risorse. E una società diviene sempre più ricca nel suo
complesso quando le risorse sono usate non per individuali consumi velleitari
ma per il bene comune. Per esempio, le persone che hanno scelto lo stile di una
vita semplice, non comprano una grossa automobile ma finanziano una rete di
servizi pubblici efficienti. Non pagano le tasse per costruire un inquinante
inceneritore di spazzatura perché riducono i rifiuti già in partenza,
selezionando quelli che possono essere riciclati. E ancora, controllano che i
danari pubblici, i loro soldi, non siano spesi per la costruzione di un’autostrada,
di una linea ferroviaria superveloce, per armi, ma per l'educazione e la cultura,
la salute, la salvaguardia dell’ambiente. Si può fare una scelta, quindi, tra
l’incremento della ricchezza materiale di singoli individui e l’incremento
della ricchezza culturale e ambientale del territorio e della società. Invece
della soddisfazione di particolari egoismi, si può scegliere di lavorare insieme
per una società ricca nel suo insieme, ove i beni sono condivisi ed equamente
distribuiti, e soprattutto ricca culturalmente e umanamente; una nuova società
ove le relazioni siano umane, solidali, improntate verso la condivisione, il
riconoscimento reciproco, il rispetto, la compassione e la giustizia.
La solidarietà tra i
poveri
In questo libro ho presentato una certa
concezione di quei ricchi che si interessano prevalentemente del loro benessere
materiale e non si curano generalmente delle sofferenze dei miseri. Essi hanno
un gran successo mondano grazie alle loro capacità organizzative, alla loro
intelligenza speculativa, alla determinazione e alla volontà di far soldi. Mostrano
la sicurezza che deriva loro dai soldi e sono serviti e riveriti, spesso non
per se stessi ma per i soldi che danno come remunerazione di beni e servizi.
Eppure, i ricchi, seppur protetti e comodamente sistemati nei loro ambienti
chiusi e lontani dall’altrui miseria materiale, sono anch’essi toccati dalla
sofferenza, sono vittime delle stesse angosce e malattie, soprattutto
dell’anima, ben diffuse sulla terra. E già il fatto di essere ricchi ma
circondati dalla miseria, e non curarsene, è la manifestazione di una malattia
dell’anima, io credo, o di un indurimento del cuore.
Se i miseri soffrono, quindi, perché devono
percorrere diversi chilometri al giorno per trovare un po’ d’acqua, se sono
costretti a scambiare ore di duro lavoro per pochi soldi, se non hanno cure mediche,
se hanno fame, o se sono disoccupati e non sanno come sopravvivere, d’altra
parte i ricchi si preoccupano per diversi altri motivi che sono per loro altrettanto
importanti. Si preoccupano perché i ladri possono derubarli, perché in seguito
all’ emancipazione dei loro servi possono perdere dei privilegi, o perché i
loro titoli in borsa possono crollare. Alcuni ricchi soffrono anche perché stressati
dal super lavoro, dalla concorrenza dei loro competitori e, nonostante le loro
sicurezze materiali, sono talvolta sopraffatti da pensieri foschi sul futuro.
Essi soffrono, inoltre, seppur inconsapevolmente, la soggezione ai loro beni
perché, infatti, la loro stessa ricchezza li signoreggia, come un padrone nei
confronti di uno schiavo. E la dipendenza dai beni vincola il cuore, non v’è
dubbio. Nella valutazione del benessere materiale dei ricchi non si tiene conto,
quindi, della padronanza che i beni esercitano sulle loro anime. D’altra parte,
non è generalmente molto facile, io credo, assumere un atteggiamento calmo e
distaccato nei confronti dei soldi, soprattutto quando se ne hanno molti o troppo
pochi.
Notiamo, quindi, che mentre la sofferenza
dei miseri è certamente grande, i ricchi soffrono la loro stessa condizione
materiale e umana. La sofferenza, il disagio, le preoccupazioni sembrano
essere, quindi, una prerogativa dell’animo umano, e una possibile o ipotizzabile
liberazione potrebbe scaturire da una metanoia dello spirito, un’inversione di
rotta, più che solo da una redistribuzione della ricchezza, seppure
auspicabile. E possiamo chiederci chi possa costituire l’avanguardia di un
radicale mutamento di direzione. È molto interessante notare, io credo, che per
i grandi saggi di tutti i tempi e luoghi, la povertà stessa è il terreno della
serenità e della rinascita dell’anima. I poveri sono soli e sfruttati, ma hanno
proprio loro la possibilità di realizzare una rinascita interiore liberandosi
dai valori materiali. E tale rinascita avrebbe un grande effetto all’esterno e
nei rapporti: la solidarietà.
Ma la condizione necessaria affinché si
attui la solidarietà tra i poveri è il mutamento delle loro forme-pensiero, dei
loro paradigmi, approcci e valori. Il povero, quando e se supera la mentalità acquisitiva
del ricco, è più comprensivo verso la situazione del suo simile, ed è quindi
più disposto al reciproco aiuto e alla solidarietà.
Il povero che comprende le cause e le condizioni
del suo stato può anche arrivare a realizzare di valere più della sua
contingente situazione materiale. Non deve essere sopraffatto e non deve
ridursi a oggetto dell’angoscia, che è poi situazione comune anche presso i
ricchi, ma la supera realizzando se stesso come umanità e quindi realizzandosi
nella solidarietà. La vera ricchezza, cioè l’umanità, è alla portata del
povero. Non è certo facile da ottenere, ma è per lui meglio realizzabile. Il
povero lasci al ricco, quindi, le sue idee di separazione e stabilisca la
regola della solidarietà.
Viviamo in un tempo molto particolare della
storia umana, anzi, è proprio il tempo in sé ad aver mutato la sua misura.
Tutto avviene più velocemente e con velocità si fa molto, si produce, si viaggia,
si comunica molto, ma anche le diseguaglianze aumentano più velocemente. E in questo
scorrimento veloce di situazioni e avvenimenti viene meno, soprattutto, il
tempo sacro della riflessione intorno alle cose fondamentali della nostra
esistenza, e quindi intorno all’esame delle nostre mete, dei nostri significati
e della nostra universale condizione umana. Ed io credo che se nel flusso di
continui veloci avvenimenti ci fermassimo a riflettere, potremmo realizzare che
la condizione alla quale noi possiamo veramente sentire di appartenere, oltre
ogni contingente differenza, e vi apparteniamo di fatto e per nascita, è quella
propriamente umana, cioè di fratellanza e di solidarietà. Per questo motivo,
quindi, la solidarietà non è e non deve essere un dovere ma è, di fatto, il corollario
di un profondo mutamento interiore di direzione verso la realizzazione della
nostra umanità.
Diventare esseri
umani
La solidarietà, oltre ad essere il
corollario della nostra reale umanità, è la componente essenziale di ogni
buona, pregante e piacevole umana relazione. Dobbiamo concepire noi stessi non
come “homines clausi", cioè come uomini che si credono individui liberi e
separati, ciascuno intento al perseguimento dei propri particolari interessi, ma
come nodi di una vasta rete di rapporti, azioni, idee, valori e atteggiamenti
(Elias, 1988:104). Se non è appropriato considerare separatamente le foglie di
un albero, poiché esse traggono vita dalla stessa radicale linfa e, tutte insieme,
con i rami, il tronco e la radice, costituiscono una stessa ed unica pianta,
allo stesso modo non è plausibile considerare separati gli uomini, che hanno
tutti la stessa origine, la stessa realtà che li sostiene. Il mondo è un
sistema di rapporti e di interdipendenze reali e necessarie; tutto è correlato
e ogni cosa, ogni essere e ogni intelligenza, non ha origine e non vive separatamente
e di per sé, ma come parte di un tutto che lo comprende. Al vecchio paradigma della
divisione subentra quello della similarità, della collaborazione, della solidarietà,
dell’amicizia, della nostra condivisa situazione umana.
I motivi più importanti di divisione e di
mancanza di amicizia tra gli uomini sono costituiti, quindi, dalla mancanza di
una prospettiva unitaria e umana, dalle differenze nell’intendere le cose,
nelle idee, cui spesso corrisponde una differenza nella situazione materiale. Eppure,
le disparate situazioni materiali e le differenti visioni esistenziali, non
sono in sé causa prima, a mio parere, ma il risultato della mancanza di umanità.
E proprio tale mancanza ci chiude nel recinto delle nostre idee particolari o
all’interno di sacche di benessere materiale o di lusso sfrenato. D’altra parte,
però, la nostra umanità non si realizza se persistono esorbitanti divisioni
materiali. Ma qui ovviamente il discorso diviene variegato. Riferiamoci
brevemente a entrambi i fattori: alle idee e alle posizioni materiali.
Nella vasta società degli esseri umani, si
stabilisce a volte una sincera intesa tra gruppi di uomini che condividono gli
stessi sentimenti e le stesse idee e forse anche lo stesso reddito. Tale intesa
è ovviamente una cosa grande e bella e, pur tuttavia, a volte la stessa grande
coesione all’interno di dati gruppi alimenta essa stessa, paradossalmente, il
conflitto: i seguaci dell’idea x, solidali e amici tra di loro, si
contrappongono ai seguaci dell’idea y, a loro volta solidali e amici tra di
loro. Può esistere quindi una certa intesa o fratellanza all’interno di un
gruppo, che però, nello stesso tempo, è nemico di altro gruppo o lo ignora. Si
osserva tutto ciò facilmente nella nostra società. Anche i gruppi religiosi che
seguono in teoria principi alti, stabiliscono talvolta fratellanze, o pseudo
fratellanze, chiuse.
Ma rimane l’altro fattore importante: la
disparità nella situazione materiale. Come potrà il ricco dialogare col povero,
come potranno essere fratelli o amici? Sarà mai possibile che essi condividano
la propria umanità consapevolmente in situazioni materiali estremamente disparate?
La soluzione di questo problema è in parte
data dalla beneficenza, ma se ben consideriamo, si tratta di una soluzione insufficiete,
proprio perché è solo una parziale restituzione al povero di ciò che gli è
dovuto, e di cui le ingiustizie sociali lo hanno privato.
Il mondo occidentale preso nel suo insieme
è ricco; in molte famiglie e individui la ricchezza sovrabbonda, talvolta più
di quanto possa essere singolarmente usata e goduta. E nello stesso tempo i
poveri soffrono. La soluzione di questa dicotomia non sta nell’accrescimento e
nella diffusione generale della ricchezza e delle consuetudini di vita consumistica
dell’Occidente. La soluzione potrebbe essere data, invece, proprio dal fattore
umanità, vale a dire dalla valorizzazione del bene più grande: la fratellanza tra
tutti gli esseri umani. Stabilita la quale le disuguaglianze dovrebbero
considerevolmente attenuarsi se non scomparire. Ma soprattutto, il valore della
ricchezza materiale sarebbe svalutato di fronte al valore, al piacere, alla
gioia del nostro essere umani, insieme, a tutti gli effetti.
È possibile attuare tutto ciò? Non si
tratta solo di una bella utopia? Sì, in un certo senso, soprattutto se si
considera che per migliaia di anni si sono predicate tante buone idee senza
alcun successo. E tuttavia cerchiamo, riflettiamo insieme, dialoghiamo. D’altra
parte l’uomo non è una forma statica ma flessibile, e la sua natura originaria, da taluni giudicata
negativa e irrisolvibile, è invece un dato possibile di mutamento e di
sviluppo, che dipende da un quid imponderabile, inerente alla stessa intelligenza
vitale, come anche dal tempo e dalla cultura in cui i singoli uomini nascono e
maturano. E all’interno della nostra cultura esistono già innumerevoli
tradizioni umanitarie. Occorre quindi anche considerare che in opposizione a
un’immagine negativa della natura umana, e contro la pur evidente realtà di
uomini estremamente individualisti ed egoisti, v’è il comune desiderio di appartenenza
e di amicizia, v’è la realtà di una necessaria dipendenza e interdipendenza tra
gli uomini, l’istinto innato di socializzazione, il desiderio di cooperazione,
se non di umana fratellanza.
La ricerca continua
Oltre alla ricerca di certi atteggiamenti
consapevoli, sani e umani verso l’esistenza, non esistono soluzioni facili e
regole da applicare alle diverse situazioni, ma credo che le persone di buona
volontà possono dialogare e insieme individuare e realizzare nuovi approcci
esistenziali nella convivialità e nella condivisione. I poveri e i disoccupati
soffrono, soprattutto se sono lasciti a se stessi, ma la loro situazione muta
quando si riconoscono come comunità di fratelli e si rendono conto che la loro
vera ricchezza, umana ed esistenziale, non dipende dalla condivisione dei
valori dei ricchi, dal perseguire successo e soldi, ma dalla consapevolezza e
dallo sviluppo delle loro capacità umane. Poveri di tutto il mondo, non
lottiamo il potere dei soldi e non lo serviamo, ma liberiamoci dalle sue verità
strumentali, costruiamo un mondo umano e solidale.
COROLLARIO
San Francesco, figlio di un ricco mercante
di Assisi, lascia la sua casa e va nelle grotte del monte Verna. Lo circonda la
foresta, l'assenza della civiltà. Sotto questo aspetto la sua vita è forse più “radicale” di quella di Gesù che, anch'egli
senza fissa dimora, passa solo quaranta giorni nel deserto in una situazione di
vita totalmente immersa nella natura. San Francesco e Gesù sono uomini fuori
dal comune e il loro esempio non sembra possa essere facilmente seguito dal più
devoto cristiano. D’altra parte, è adesso quasi impossibile fare l’eremita o
muoversi liberamente in un paese moderno
ove la terra è recintata, coltivata, forata dalle miniere, impoverita della
flora e della fauna. L'ambiente naturale che sosteneva gli antichi eremiti è
adesso un ambiente quasi interamante occupato dagli interventi umani. La vita
senza fissa dimora in un ambiente naturale, non è quindi realizzabile, tranne
che per brevi periodi o nelle rare oasi della natura ancora esistenti.
Gesù, chi era veramente? Sono state scritte
innumerevoli vite di Gesù basate sui racconti dei vangeli canonici e apocrifi.
Differenti interpretazioni suggeriscono diversi significati che riguardano lui
e i suoi insegnamenti. Gli stessi cristiani, ortodossi, cattolici o protestanti,
non sono d'accordo su alcuni punti del suo magistero. Alcuni pongono l'accento
su particolari insegnamenti, sulla sua predicazione intorno all’amore, alla
fratellanza, alla povertà, o sulla nuova nascita. Altri trovano dei paralleli
tra le sue parole e gli insegnamenti del buddismo, altri ancora discutono sugli
aspetti strani o non chiari del suo comportamento; chi era il Gesù che,
affamato e adirato contro un albero di fico sterile, lo maledice facendolo rinsecchire?
Chi è il Gesù che dice "ogni albero che non dà buon frutto viene tagliato
e gettato nel fuoco" (Matteo 7,29) e nello stesso tempo afferma che gli
uomini che non danno ascolto alle sue parole vanno incontro allo stesso destino
nel fuoco eterno della geènna? Teologi e studiosi interpretano queste non
ecologiche parole cercando di renderle coerenti con il fondamentale insegnamento
d'amore cristiano.
Ma a parte tutte le possibili diverse
interpretazioni, a parte l'atteggiamento personale verso Gesù, su di un punto
non è possibile avere dubbi, tanto risulta chiaro nei vangeli; questo punto
riguarda il suo stile di vita semplice e il suo atteggiamento verso i soldi e
la ricchezza. Risulta infatti chiaro dalla lettura dei vangeli, che Gesù non
aveva una stabile dimora, era povero e non teneva in nessun conto la sicurezza
data dai soldi.
La missione profetica di Gesù viene
annunziata da Giovanni Battista, anch’egli povero. Infatti, "Giovanni era
vestito di pelli di cammello, con una cintura di pelle attorno ai fianchi, e
mangiava cavallette e miele selvatico" (Marco 1,6). Anche Giovanni,
quindi, predicava la povertà e la comunanza dei beni e, rispondendo alle folle
che lo interrogavano, diceva: "Chi ha due tuniche, ne dia una a chi non ne
ha, e chi ha da mangiare, faccia altrettanto" (Luca 3;10).
Non diversi erano gli uomini che Gesù mandava
ad annunziare la sua parola: "E ordinò loro di non prendere per viaggio
nient'altro che un bastone; né pane, né sacca, né danaro nella cintura; ma di
calzare sandali e di non portare due tonache" (Marco 6, 8-9). E Pietro
stesso conferma dicendo: "Noi abbiamo lasciato i nostri beni e ti abbiamo
seguito" (Luca 18,28).
Questa assoluta povertà, che poi verrà
apprezzata e imitata da San Francesco, ben si accorda con l'altra esortazione
di Gesù: "Non preoccupatevi per la vostra vita, di quello che mangerete o
berrete, né per il vostro corpo, di quello che indosserete (…). Guardate gli
uccelli del cielo: non seminano e non mietono né raccolgono nei granai; eppure il
Padre vostro che è nei cieli li nutre. Non valete forse più di loro? E chi di
voi, per quanto si preoccupi, può allungare anche di poco la propria vita? E
per il vestito perché vi preoccupate? Osservate come crescono i gigli dei
campi: non faticano e non filano; eppure io vi dico che neanche Salomone, con
tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro" (Matteo 6, 25-29).
Ci chiediamo, allora, se solo un discepolo
radicale e totalmente spoglio di tutto, di averi e di legami con le cose, potrebbe
mettere realmente in atto il comandamento di Gesù: "Non preoccupatevi del
domani, perché il domani stesso si preoccuperà di sé. A ciascun giorno la
propria pena" (Matteo 6,34).
Gesù non esclude i ricchi dalla sua grazia
ma espressamente dice che "difficilmente un ricco entrerà nel regno dei
cieli", anzi "è più facile che un cammello passi per la cruna di un
ago che un ricco entri nel regno di Dio" (Matteo, 19, 23-24). A un giovane
ricco che esprime il desiderio di divenire suo discepolo Gesù raccomanda:
"Una cosa sola ti manca: va', vendi quello che hai e dallo ai poveri e
avrai un tesoro in cielo; e vieni e seguimi " (Marco, 10,21). E la ragione
di questo appare molto semplice e chiara: "Nessuno può servire due
padroni, perché o odierà l'uno e amerà l'altro, oppure si affezionerà all'uno e
disprezzerà l'altro. Non potete servire Dio e la ricchezza" (Matteo 6,24).
E ancora: "dov'è il tuo tesoro, la sarà il tuo cuore" (Matteo 6,21).
Qui quindi si esprime il valore del
rapporto tra l'oggetto esterno e la realtà interiore dell'uomo. In altri
termini, potremmo dire che un eccessivo investimento della libido fatto su cose
esterne impoverisce l'uomo al suo interno; egli non si pone in sé stesso, in
ciò che sta dentro, nel regno dei cieli che può attuarsi nell'integrità del suo
cuore, ma il suo essere si pone fuori di lui, all'esterno, si deconcentra e si
identifica con le cose esterne effimere: "Non accumulate per voi tesori
sulla terra, dove tarlo e ruggine consumano e dove ladri scassinano e rubano;
accumulate invece tesori nel cielo" (Matteo, 6,19).
Ci troviamo qui di fronte a parole chiare,
parole che è difficile non tenere conto qualora si intenda seguire Gesù sul
serio, e non ideologicamente o superficialmente. Com’è possibile essere
cristiani e ricchi allo stesso tempo? Ma a questo punto è molto interessante
notare come alcuni teologi cristiani riescono a "interpretare" il
chiaro insegnamento di povertà dato da Gesù. Alcuni di essi pongono tale
insegnamento come mero ideale, come una perfezione quasi irraggiungibile, cui
però bisogna tendere. Qui le distinzioni e le eccezioni diventano tanto varie
quanto complesse nella loro articolazione. Il semplice comandamento di Gesù non
è più semplice, ma viene articolato interpretato e forse anche adattato ai valori
economici correnti. Ecco quindi che il reverendo padre cattolico Raniero Cantalamessa
parla di un Regno dei cieli che deve ancora venire, realizzarsi e annunciarsi,
e ciò significa "che occorrono persone che si dedicano interamente alla
sua venuta, libere da ogni legame e compromesso terreno che ostacolerebbe un
tale annuncio (…) e questo ci dice che vi sono due livelli diversi, o due forme
di povertà, nella predicazione di Cristo: una richiesta a tutti per entrare nel
Regno, e una richiesta ad alcuni in particolare per annunziare il Regno. Questa
seconda e più radicale esigenza è quella che Gesù pone a coloro che chiama a
essere suoi collaboratori nell'annuncio e a condividere con lui la dedizione
totale alla causa del Regno: gli apostoli, il gruppo ristretto di discepoli che
lo seguivano a tempo pieno. In questa linea va certamente interpretata la
richiesta radicale rivolta al giovane ricco" (R. Cantalamessa,
1997:62-63).
Tuttavia, la richiesta di povertà fatta
Gesù non si rivolge solo a un gruppo ristretto di seguaci. Nell'evangelo di
Luca Gesù rifiuta la richiesta fatta da uno della folla di essere mediatore in
una disputa con suo fratello intorno alla loro eredità. In questa occasione,
Gesù loda la povertà rivolgendosi alla folla, quindi proprio a tutti, e
racconta la parabola dell'uomo che dopo aver accumulato tante ricchezze muore
all'improvviso. Il suo lavoro è stato vano perché "chi accumula tesori per
sé non si arricchisce davanti a Dio" (Luca 12,21). Gesù tiene quindi
assolutamente in sottordine, anzi disprezza, ricchezze ed eredità, beni
materiali effimeri. In alcuni passi biblici Gesù arriva a redarguire i ricchi:
"Guai a voi, che siete ricchi, perché avete già il vostro conforto” (Luca
6,24). Nella parabola dell'uomo ricco che è vissuto accanto ad un povero
mendicante di nome Lazzaro, Gesù pone Lazzaro in paradiso e il ricco
all'inferno tra i tormenti. Qui il ricco chiede ristoro ad Abramo ma Abramo gli
risponde: "Figlio, ricordati che, nella vita, tu hai ricevuto i tuoi beni,
e Lazzaro i suoi mali; ora, mentre lui è così consolato, tu invece sei in mezzo
ai tormenti" (Luca 16,25).
D’altra parte, Gesù non esclude a priori i
ricchi dal suo regno, anzi dice che a Dio è possibile ciò che in realtà è
difficile, cioè che un ricco si salvi, tuttavia il suo insegnamento a proposito
della povertà e della ricchezza è chiaro e ripetuto in tutti e quattro gli
evangeli canonici ed anche in quelli gnostici: "Se avete del denaro non
imprestatelo ad interesse, ma datelo a uno dal quale non lo riavrete" (Vangelo
di Tommaso, 95).
L'importanza della povertà nella predicazione
di Gesù è evidenziata anche nella pratica convivenza delle prime comunità
cristiane ove non v'erano ricchi, dato che tutti i beni venivano condivisi:
"Tutti i credenti stavano insieme e avevano ogni cosa in comune; vendevano
le loro proprietà e sostanze e li dividevano con tutti, secondo il bisogno di
ciascuno" (Atti degli apostoli 2, 44-45). Qui non si trattava di comunità
monastiche formate da un gruppo ristretto di discepoli ma di comunità composte
da numerosi membri: "La moltitudine di coloro che erano diventati credenti
aveva un cuore solo e un'anima sola e nessuno considerava sua proprietà quello
che gli apparteneva, ma fra loro tutto era in comune (Atti degli apostoli
4,32).
Non è
qui il luogo adatto per dare un breve resoconto dello "sviluppo" che
nelle chiese storiche ha avuto il ferreo concetto di povertà realizzato e predicato
da Gesù. Negli ultimi secoli la chiesa cattolica, pur non rinunciando alle sue
ricchezze, si è molto prodigata per i poveri. D'altra parte, però, i cristiani
che sono molto ricchi, soprattutto quelli protestanti degli Usa, non
riconoscono nessuna contraddizione tra il loro stile di vita e la predicazione
di Gesù. Alcuni di essi sono fondamentalisti, vale a dire credono nel valore
letterale delle parole bibliche; ciò che scritto vale per come è scritto.
Quindi, per esempio, il serpente che tenta Eva non simboleggia nulla ma è un
vero serpente che parla, e così via per altri innumerevoli passaggi biblici. Ma
il loro fondamentalismo si ferma, strano caso, alle "letterali" e
chiare parole di Gesù: "Guai a voi ricchi".
Prima dell’esistenza di questi nuovi ricchi
americani fondamentalisti, vivevano nella nostra vecchia Europa ricchi
cristiani che non davano grande importanza alle parole di Gesù sulla povertà,
anzi perseguitavano chi tentava di metterle in pratica. Si pensi, per esempio
alle persecuzioni contro i Poveri di Lione, contro i Catari, eccetera. I
vangeli sono relativizzati secondo la nostra convenienza; si dice che adesso è
anacronistico se non impossibile vivere in concreta povertà; si afferma che ciò
che era forse fattibile e valido ai tempi di Gesù e di San Francesco, non è più
praticabile adesso. Ma le stesse cose dicevano i contemporanei di questi uomini
esemplari e considerati pazzi perché predicavano la povertà. Pazzo, il
"pazzo di Dio" venne considerato anche il poverello di Assisi, quel
San Francesco il cui esempio non può forse essere seguito oggi, ma rivela,
tuttavia, per contrasto, il senso della nostra vita e una sua possibile
direzione.
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Il libro in forma cartacea si trova in questo sito:
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Eliseo Laganà, notizie biografiche
Nato a Messina, dopo il compimento degli studi universitari Eliseo si
trasferisce in Gran Bretagna ove compie ricerche ed esperienze in vari luoghi e
ambiti. Per diversi anni lavora come Lettore di Italiano nelle università di
Bangor, di Cardiff, e al Birkbeck College di Londra, e come borsista di sociologia
presso l’Università di Reading. A Londra si unisce al gruppo di dialogo fondato
da David Bohm, professore di Fisica al Birckbeck College, e sulla base di
questa esperienza nasce il saggio: Dialogare,
tra utopia e realtà visionabile nel sito ilmiolibro.it ove ha pubblicato altri saggi e
romanzi tra cui: Christine Rom, La Venere
Rubata.
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